Di fronte all’indifferenza con la quale stiamo assistendo ad una escalation bellica in Europa tra potenze atomiche, nella speranza che, in fondo, non facciano sul serio, “non possano” fare sul serio (come se le bombe su Hiroshima e Nagasaki non ci fossero mai state), mentre il Bollettino degli scienziati atomici ci avvisa – ormai consecutivamente da tre anni – che siamo a soli cento secondi dall’apocalisse, è necessario ri/prendere coscienza del nostro status di “quelli-che-esistono-ancora”, di vivere cioè – da Hiroshima in avanti – nella precarietà esistenziale, strutturale e globale, dovuta alla possibilità di estinzione del genere umano, attraverso il pigiare di un pulsante, quello delle armi nucleari. La coscienza diffusa di questa possibilità, presente fino all’abbattimento del muro di Berlino – di cui è stata anzi il piccone etico principale grazie all’iniziativa unilaterale di Michail Gorbačëv (i cui meriti storici non sono ancora stati sufficientemente riconosciuti) – è man mano stata rimossa nelle generazioni successive, nonostante la guerra sia tornata ad essere normalmente “la continuazione della politica con altri mezzi” (Carl von Clausewitz); nonostante migliaia di testate nucleari siano puntate contro le teste di tutti più luccicanti e potenti che mai; nonostante il Trattato per la proibizione delle armi nucleari le abbia messe fuorilegge; nonostante – infine – i cinque paesi del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite abbiano recentemente e congiuntamente affermato “che una guerra nucleare non può essere vinta e non deve mai verificarsi”, senza trarne le conseguenze disarmanti.
La rimozione della coscienza del pericolo atomico – e del relativo e necessario impegno per il disarmo – ha portato con sé anche la rimozione dell’opera di uno dei massimi pensatori dello stato dell’umanità nell’epoca della possibilità dell’apocalisse nucleare: Günther Anders, autore di opere fondamentali per comprendere il nostro precario stare al mondo – da Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki al carteggio con Claude Eatherly, uno dei piloti di Hioroshima, a L’uomo è antiquato – di cui quest’anno cadono i 120 anni dalla nascita e i 30 dalla morte. Tra i suoi scritti fondamentali, urgentemente da rileggere, meditare e divulgare, sono Le tesi sull’età atomica, qui riportate integralmente nella versione italiana edita da Linea d’Ombra (1995) in appendice a Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki. Le tesi sull’età atomica sono un testo “improvvisato” di Anders nel 1960 dopo un dibattito sui problemi morali dell’età atomica con gli studenti dell’Università di Berlino, dove sono esposte in maniera limpida ed essenziale le caratteristiche, inedite e inaudite, dell’epoca atomica. Nella quale bisogna trovare “il coraggio di aver paura” perché la paura è segno di consapevolezza ed ha perciò un valore euristico, cioè di strumento di conoscenza della realtà, e “vivificante, poiché invece di rinchiuderci nelle nostre stanze ci fa uscire sulle piazze” a lottare per il disarmo, ossia per l’impegno fondamentale per tutte e tutti, perché “ciò contro cui lottiamo, non è questo o quell’avversario che potrebbe essere attaccato o liquidato con mezzi atomici, ma la situazione atomica in sé”.
Tesi sull’età atomica
Hiroshima come stato del mondo. Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima, è cominciata un nuova era: l’era in cui possiamo trasformare in qualunque momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un’altra Hiroshima. Da quel giorno siamo onnipotenti modo negativo; ma potendo essere distrutti ad ogni momento, ciò significa anche che da quel giorno siamo totalmente impotenti. Indipendentemente dalla sua lunghezza e dalla sua durata, quest’epoca è l’ultima: poiché la sua differenza specifica, la possibilità dell’autodistruzione del genere umano, non può aver fine – che con la fine stessa.
Età finale e fine dei tempi. La nostra vita si definisce quindi come “dilazione”; siamo quelli-che-esistono-ancora. Questo fatto ha trasformato il problema morale fondamentale: alla domanda “Come dobbiamo vivere?” si è sostituita quella: “Vivremo ancora?”. Alla domanda del “come” c’è – per noi che viviamo in questa proroga – una sola risposta: “Dobbiamo fare in modo che l’età finale, che potrebbe rovesciarsi ad ogni momento in fine dei tempi, non abbia mai fine; o che questo rovesciamento non abbia mai luogo”. Poiché crediamo alla possibilità di una “fine dei tempi”, possiamo dirci apocalittici; ma poiché lottiamo contro l’apocalisse da noi stessi creata, siamo (è un tipo che non c’è mai stato finora) “nemici dell’apocalisse”.
Non armi atomiche nella situazione politica, ma azioni politiche nella situazione atomica. La tesi apparentemente plausibile che nell’attuale situazione politica ci sarebbero (fra l’altro) anche “armi atomiche”, è un inganno. Poiché la situazione attuale è determinata esclusivamente dall’esistenza di “armi atomiche”, è vero il contrario: che le cosiddette azioni politiche hanno luogo entro la situazione atomica.
Non arma ma nemico. Ciò contro cui lottiamo, non è questo o quell’avversario che potrebbe essere attaccato o liquidato con mezzi atomici, ma la situazione atomica in sé. Poiché questo nemico è nemico di tutti gli uomini, quelli che si sono considerati finora come nemici dovrebbero allearsi contro la minaccia comune. Organizzazioni e manifestazioni pacifiche da cui sono esclusi proprio quelli con cui si tratta di creare la pace, si risolvono in ipocrisia, presunzione compiaciuta e spreco di tempo.
Carattere totalitario della minaccia atomica. La tesi prediletta da Jaspers fino a Strauss suona: “La minaccia totalitaria può essere neutralizzata solo con la minaccia della distruzione totale”. E’ un argomento che non regge. 1) La bomba atomica è stata impiegata, e in una situazione in cui non c’era affatto il pericolo, per chi la impiegò, di soccombere a un potere totalitario. 2) L’argomento è un relitto dell’epoca del monopolio atomico; oggi è un argomento suicida. 3) Lo slogan “totalitario” è desunto da una situazione politica, che non solo è già essenzialmente mutata, ma continuerà a cambiare; mentre la guerra atomica esclude ogni possibilità di trasformazione. 4) La minaccia della guerra atomica, della distruzione totale, è totalitaria per sua natura: poiché vive del ricatto e trasforma la terra in un solo lager senza uscita. Adoperare, nel preteso interesse della libertà, l’assoluta privazione della stessa, è il non plus ultra dell’ipocrisia.
Ciò che può colpire chiunque riguarda chiunque. Le nubi radioattive non badano alle pietre miliari, ai confini nazionali o alle “cortine”. Così, nell’età finale, non ci sono più distanze. Ognuno può colpire chiunque ed essere colpito da chiunque. Se non vogliamo restare moralmente indietro agli effetti dei nostri prodotti (che non ci procurerebbe solo ignominia mortale, ma morte ignominiosa), dobbiamo fare in modo che l’orizzonte di ciò che ci riguarda, e cioè l’orizzonte della nostra responsabilità, coincida con l’orizzonte entro il quale possiamo colpire o essere colpiti; e cioè che diventi anch’esso globale. Non ci sono più che “vicini”.
Internazionale delle generazioni. Ciò che si tratta di ampliare, non e’ solo l’orizzonte spaziale della responsabilità per i nostri vicini, ma anche quello temporale. Poiché le nostre azioni odierne, per esempio le esplosioni sperimentali, toccano le generazioni venture, anch’esse rientrano nell’ambito del nostro presente. Tutto ciò che è “venturo” è già qui, presso di noi, poiché dipende da noi. C’è, oggi, un’”internazionale delle generazioni”, a cui appartengono già anche i nostri nipoti. Sono i nostri vicini nel tempo. Se diamo fuoco alla nostra casa odierna, il fuoco si appicca anche al futuro, e con la nostra cadono anche le case non ancora costruite di quelli che non sono ancora nati. E anche i nostri antenati appartengono a questa “internazionale”: poiché con la nostra fine perirebbero anch’essi, per la seconda volta (se cosi’ si può dire) e definitivamente. Anche adesso sono “solo stati”; ma con questa seconda morte sarebbero stati solo come se non fossero mai stati.
Il nulla non concepito. Ciò che conferisce il massimo di pericolosità al pericolo apocalittico in cui viviamo, è il fatto che non siamo attrezzati alla sua stregua, che siamo incapaci di rappresentarci la catastrofe. Raffigurarci il non-essere (la morte, ad esempio, di una persona cara) è già di per sé abbastanza difficile; ma è un gioco da bambini rispetto al compito che dobbiamo assolvere come apocalittici consapevoli. Poiché questo nostro compito non consiste solo nel rappresentarci l’inesistenza di qualcosa di particolare, in un contesto universale supposto stabile e permanente, ma nel supporre inesistente questo contesto, e cioè il mondo stesso, o almeno il nostro mondo umano. Questa “astrazione totale” (che corrisponderebbe, sul piano del pensiero e dell’immaginazione, alla nostra capacità di distruzione totale) trascende le forze della nostra immaginazione naturale. “Trascendenza del negativo”. Ma poiché, come homines fabri, siamo capaci di tanto (siamo in grado di produrre il nulla totale), la capacita’ limitata della nostra immaginazione (la nostra “ottusità”) non deve imbarazzarci. Dobbiamo (almeno) tentare di rappresentarci anche il nulla.
Utopisti a rovescio. Ecco quindi il dilemma fondamentale della nostra epoca: “Noi siamo inferiori a noi stessi”, siamo incapaci di farci un’immagine di ciò che noi stessi abbiamo fatto. In questo senso siamo “utopisti a rovescio”: mentre gli utopisti non sanno produrre ciò che concepiscono, noi non sappiamo immaginare ciò che abbiamo prodotto.
Lo “scarto prometeico”. Non e’ questo un fatto fra gli altri; esso definisce, invece, la situazione morale dell’uomo odierno: la frattura che divide l’uomo (o l’umanità) non passa, oggi, fra lo spirito e la carne, fra il dovere e l’inclinazione, ma fra la nostra capacità produttiva e la nostra capacità immaginativa. Lo “scarto prometeico”.
Il “sopraliminare”. Questo “scarto” non divide solo immaginazione e produzione, ma anche sentimento e produzione, responsabilità e produzione. Si può forse immaginare, sentire, o ci si può assumere la responsabilità, dell’uccisione di una persona singola; ma non di quella di centomila. Quanto più grande è l’effetto possibile dell’agire, tanto più è difficile concepirlo, sentirlo e poterne rispondere; quanto più grande lo “scarto”, tanto più debole il meccanismo inibitorio. Liquidare centomila persone premendo un tasto, è infinitamente più facile che ammazzare una sola persona. Al “subliminare”, noto dalla psicologia (lo stimolo troppo piccolo per provocare già una reazione), corrisponde il “sopraliminare”: ciò che è troppo grande per provocare ancora una reazione (per esempio un meccanismo inibitorio).
La sensibilità deforma, la fantasia è realistica. Poiché il nostro orizzonte vitale (l’orizzonte entro cui possiamo colpire ed essere colpiti) e l’orizzonte dei nostri effetti è ormai illimitato, siamo tenuti, anche se questo tentativo contraddice alla “naturale ottusità” della nostra immaginazione, a immaginare questo orizzonte illimitato. Nonostante la sua naturale insufficienza, è solo l’immaginazione che può fungere da organo della verità. In ogni caso, non è certo la percezione. Che è una “falsa testimone”: molto, ma molto più falsa di quanto avesse inteso ammonire la filosofia greca. Poiché la sensibilità è – per principio – miope e limitata e il suo orizzonte assurdamente ristretto. La terra promessa degli “escapisti” di oggi non e’ la fantasia, ma la percezione. Di qui il nostro (legittimo) disagio e la nostra diffidenza verso i quadri normali (dipinti, cioè, secondo la prospettiva normale): benché realistici in senso tradizionale, sono (proprio loro) irrealistici, perché sono in contrasto con la realtà del nostro mondo dagli orizzonti infinitamente dilatati.
Il coraggio di aver paura. La viva “rappresentazione del nulla” non si identifica con ciò che si intende in psicologia per “rappresentazione”; ma si realizza in concreto come angoscia. Ad essere troppo piccolo, e a non corrispondere alla realtà e al grado della minaccia, è quindi il grado della nostra angoscia. Nulla di più falso della frase cara alle persone di mezza cultura, per cui vivremmo già nell’”epoca dell’angoscia”. Questa tesi ci è inculcata dagli agenti ideologici di coloro che temono solo che noi si possa realizzare sul serio la vera paura, adeguata al pericolo. Noi viviamo piuttosto nell’epoca della minimizzazione e dell’inettitudine all’angoscia. L’imperativo di allargare la nostra immaginazione significa quindi in concreto che dobbiamo estendere e allargare la nostra paura. Postulato: “Non aver paura della paura, abbi coraggio di aver paura. E anche quello di far paura. Fà paura al tuo vicino come a te stesso”. Va da sé che questa nostra angoscia deve essere di un tipo affatto speciale: 1) Un’angoscia senza timore, poiché esclude la paura di quelli che potrebbero schernirci come paurosi. 2) Un’angoscia vivificante, poiché invece di rinchiuderci nelle nostre stanze ci fa uscire sulle piazze. 3) Un’angoscia amante, che ha paura per il mondo, e non solo di ciò che potrebbe capitarci.
Fallimento produttivo. L’imperativo di allargare la portata della nostra immaginazione e della nostra angoscia finché corrispondano a quella di ciò che possiamo produrre e provocare, si rivelerà continuamente irrealizzabile. Non è nemmeno detto che questi tentativi ci consentano di fare qualche passo in avanti. Ma anche in questo caso non dobbiamo lasciarci spaventare; il fallimento ripetuto non depone contro la ripetizione del tentativo. Anzi, ogni nuovo insuccesso è salutare, poiché ci mette in guardia contro il pericolo di continuare a produrre ciò che non possiamo immaginare.
Trasferimento della distanza. Riassumendo ciò che si è detto sulla “fine delle distanze” e sullo “scarto” tra le varie facoltà (e solo così ci si può fare un’idea completa della situazione), risulta che le distanze spaziali e temporali sono state bensì “soppresse”; ma questa soppressione è stata pagata a caro prezzo con una nuova specie di “distanza”: quella, che diventa ogni giorno più grande, fra la produzione e la capacità di immaginare ciò che si produce.
Fine del comparativo. I nostri prodotti e i loro effetti non sono solo diventati maggiori di ciò che possiamo concepire (sentire, o di cui possiamo assumerci la responsabilità), ma anche maggiori di ciò che possiamo utilizzare sensatamente. E’ noto che la nostra produzione e la nostra offerta superano spesso la nostra domanda (e ci costringono a produrre appositamente nuovi bisogni e richieste); ma la nostra offerta trascende addirittura il nostro bisogno, consiste di cose di cui non possiamo avere bisogno: cose troppo grandi in senso assoluto. Così ci siamo messi nella situazione paradossale di dover addomesticare i nostri stessi prodotti; di doverli addomesticare come abbiamo addomesticato finora le forze della natura. I nostri tentativi di produrre armi cosiddette “pulite”, sono senza precedenti nel loro genere: poiché con essi cerchiamo di migliorare certi prodotti peggiorandoli, e cioè diminuendo i loro effetti. L’aumento dei prodotti non ha quindi più senso. Se il numero e gli effetti delle armi già oggi esistenti bastano a raggiungere il fine assurdo della distruzione del genere umano, l’aumento e miglioramento della produzione, che continuano ancora su larghissima scala, sono ancora più assurdi; e dimostrano che i produttori non si rendono conto, in definitiva, di che cosa hanno prodotto. Il comparativo – principio del progresso e della concorrenza – ha perduto ogni senso. Più morto che morto non è possibile diventare. Distruggere meglio di quanto già si possa, non sarà possibile neppure in seguito.
Richiamarsi alla competenza è prova d’incompetenza morale. Sarebbe una leggerezza pensare (come fa, per esempio, Jaspers) che i “signori dell’apocalisse”, quelli che sono responsabili delle decisioni, grazie a posizioni di potere politico o militare comunque acquisite, siano più di noi all’altezza di queste esigenze schiaccianti, o che sappiano immaginare l’inaudito meglio di noi, semplici “morituri“; o anche solo che siano consapevoli di doverlo fare. Assai più legittimo è il sospetto: che ne siano affatto inconsapevoli. Ed essi lo provano dicendo che noi siamo incompetenti nel “campo dei problemi atomici e del riarmo”, e invitandoci a non “immischiarci”. L’uso di questi termini è addirittura la prova della loro incompetenza morale: poiché in tal modo essi mostrano di credere che la loro posizione dia loro il monopolio e la competenza per decidere del “to be or not to be” dell’umanità; e di considerare l’apocalisse come un “ramo specifico”. E’ vero che molti di loro si appellano alla “competenza” solo per mascherare il carattere antidemocratico del loro monopolio. Se la parola “democrazia” ha un senso, è proprio quello che abbiamo il diritto e il dovere di partecipare alle decisioni che concernono la “res publica“, che vanno, cioè, al di là della nostra competenza professionale e non ci riguardano come professionisti, ma come cittadini o come uomini. E non si può dire che così facendo ci “immischiamo” di nulla, poiché come cittadini e come uomini siamo “immischiati” da sempre, perché anche noi siamo la “res publica“. E un problema più “pubblico” dell’attuale decisione sulla nostra sopravvivenza non c’è mai stato e non ci sarà mai. Rinunciando a “immischiarci”, mancheremmo anche al nostro dovere democratico.
Liquidazione dell’”agire”. La distruzione possibile dell’umanità appare come un’”azione”; e chi collabora ad essa come un individuo che agisce. E’ giusto? Si’ e no. Perché no? Perché l’”agire”” in senso behavioristico non esiste pressoché più. E cioè: poiché ciò che un tempo accadeva come agire, ed era inteso come tale dall’agente, è stato sostituito da processi di altro tipo: 1) dal lavorare; 2) dall’azionare.
1) Lavoro come surrogato dell’azione. Già quelli che erano impiegati negli impianti di liquidazione hitleriani non avevano “fatto nulla”, credevano di non aver fatto nulla perché si erano limitati a “lavorare”. Per questo “lavorare” intendo quel tipo di prestazione (naturale e dominante, nella fase attuale della rivoluzione industriale) in cui l’eidos del lavoro rimane invisibile per chi lo esegue, anzi, non lo riguarda più, e non può ne’ deve più riguardarlo. Caratteristica del lavoro odierno è che esso resta moralmente neutrale: “non olet“, nessuno scopo (per quanto cattivo) del suo lavoro può macchiare chi lo esegue. A questo tipo dominante di prestazione sono oggi assimilate quasi tutte le azioni affidate agli uomini. Lavoro come mimetizzamento. Questo mimetizzamento evita all’autore di un eccidio di sentirsi colpevole, poiché non solo non occorre rispondere del lavoro che si fa, ma esso – in teoria – non può rendere colpevoli. Stando cosi’ le cose, dobbiamo rovesciare l’equazione attuale (“ogni agire è lavorare”) nell’altra: “ogni lavorare è un agire”.
2) Azionare come surrogato del lavoro. Ciò che vale per il lavoro, vale a maggior ragione per l’azionare, poiché l’azionare è il lavoro in cui è abolito anche il carattere specifico del lavoro: lo sforzo e il senso dello sforzo. Azionare come mimetizzamento. Oggi, in realtà, si può fare in tal modo pressoché tutto, si può avviare una serie di azionamenti successivi schiacciando un solo bottone; compreso, quindi, il massacro di milioni. In questo caso (dal punto di vista behavioristico) questo intervento non è più un lavoro (per non parlare di un’azione). Propriamente parlando non si fa nulla (anche se l’effetto di questo non-far-nulla è il nulla e l’annientamento). L’uomo che schiaccia il tasto (ammesso che sia ancora necessario) non si accorge più nemmeno di fare qualcosa; e poiché il luogo dell’azione e quello che la subisce non coincidono più, poiché la causa e l’effetto sono dissociati, non può vedere che cosa fa. “Schizotopia”, in analogia a “schizofrenia”. E’ chiaro che solo chi arriva a immaginare l’effetto ha la possibilità della verità; la percezione non serve a nulla. Questo genere di mimetizzamento è senza precedenti: mentre prima i mimetizzamenti miravano a impedire alla vittima designata dell’azione, e cioè al nemico, di scorgere il pericolo imminente (o a proteggere gli autori dal nemico), oggi il mimetizzamento mira solo a impedire all’autore di sapere quello che fa. In questo senso anche l’autore e’ una vittima; in questo senso Eatherly e’ una delle vittime della sua azione.
Le forme menzognere della menzogna attuale. Gli esempi di mascheramento ci istruiscono sul carattere della menzogna attuale. Poiché oggi le menzogne non hanno piu’ bisogno di figurare come asserzioni (“fine delle ideologie”). La loro astuzia consiste proprio nello scegliere forme di travestimento davanti a cui non può più sorgere il sospetto che possa trattarsi di menzogne; e ciò perché questi travestimenti non sono più asserzioni. Mentre le menzogne, finora, si erano camuffate ingenuamente da verità, ora si camuffano in altre guise: 1) Al posto di false asserzioni subentrano parole singole, che danno l’impressione di non affermare ancora nulla, anche se, in realtà, hanno già in sé il loro (bugiardo) predicato. Così, per esempio, l’espressione “armi atomiche” è già un’asserzione menzognera, poiché sottintende, poiché dà per scontato, che si tratta di armi. 2) Al posto di false asserzioni sulla realtà subentrano (e siamo al punto che abbiamo appena trattato) realtà falsificate. Cosi’ determinate azioni, presentandosi come “lavori”, sono rese diverse e irriconoscibili; così irriconoscibili, e diverse da un’azione, che non rivelano più (neppure all’agente) quello che sono (e cioè azioni); e gli permettono, purché lavori “coscienziosamente’, di essere un criminale con la miglior coscienza del mondo. 3) Al posto di false asserzioni subentrano cose. Finché l’agire si traveste ancora da “lavorare”, è pur sempre l’uomo ad essere attivo; anche se non sa che cosa fa lavorando, e cioè che agisce. La menzogna celebra il suo trionfo solo quando liquida anche quest’ultimo residuo: il che è già accaduto. Poiché l’agire si è trasferito (naturalmente in seguito all’agire degli uomini) dalle mani dell’uomo in tutt’altra sfera: in quella dei prodotti. Essi sono, per cosi’ dire, “azioni incarnate”. La bomba atomica (per il semplice fatto di esistere) è un ricatto costante: e nessuno potrà negare che il ricatto è un’azione. Qui la menzogna ha trovato la sua forma più menzognera: non ne sappiamo nulla, abbiamo le mani pulite, non c’entriamo. Assurdità della situazione: nell’atto stesso in cui siamo capaci dell’azione più enorme – la distruzione del mondo – l’”agire”, in apparenza, è completamente scomparso. Poiché la semplice esistenza dei nostri prodotti è già un “agire”, la domanda consueta: che cosa dobbiamo “fare” dei nostri prodotti (se, ad esempio, dobbiamo usarli solo come “deterrenti”), è una questione secondaria, anzi fallace, in quanto omette che le cose, per il fatto stesso di esistere, hanno sempre agito.
Non reificazione, ma pseudopersonalizzazione. Con l’espressione “reificazione” non si coglie il fatto che i prodotti sono, per così dire, “agire incarnato”, poiché essa indica esclusivamente il fatto che l’uomo è ridotto qui alla funzione di cosa; ma si tratta invece dell’altro lato (trascurato, finora, dalla filosofia) dello stesso processo: e cioè del fatto che ciò che è sottratto all’uomo dalla reificazione, si aggiunge ai prodotti: i quali, facendo qualcosa già per il semplice fatto di esistere, diventano pseudopersone.
Le massime delle pseudopersone. Queste pseudopersone hanno i loro rigidi principii. Così, per esempio, il principio delle “armi atomiche” è affatto nichilistico, poiché per esse “tutto è uguale”. In esse il nichilismo ha toccato il suo culmine, dando luogo all’”annichilismo” più totale. Poiché il nostro agire si è trasferito nel lavoro e nei prodotti, un esame di coscienza non può consistere oggi soltanto nell’ascoltare la voce nel nostro petto, ma anche nel captare i principii e le massime mute dei nostri lavori e dei nostri prodotti; e nel revocare e rendere inoperante quel trasferimento: e cioè nel compiere solo quei lavori dei cui effetti potremmo rispondere anche se fossero effetti del nostro agire diretto; e nell’avere solo quei prodotti la cui presenza “incarna” un agire che potremmo assumerci come agire personale.
Macabra liquidazione dell’ostilità. Se il luogo dell’azione e quello che la subisce sono, come si è detto, dissociati, e non si soffre più nel luogo dell’azione, l’agire diventa agire senza effetto visibile, e il subire subire senza causa riconoscibile. Si determina così un’assenza d’ostilità, peraltro affatto fallace. La guerra atomica possibile sarà la più priva d’odio che si sia mai vista. Chi colpisce non odierà il nemico, poiché non potrà vederlo; e la vittima non odierà chi lo colpisce, poiché questi non sarà reperibile. Nulla di più macabro di questa mitezza (che non ha nulla a che fare con l’amore positivo). Ciò che più sorprende nei racconti delle vittime di Hiroshima, è quanto poco (e con che poco odio) vi siano ricordati gli autori del colpo. Certo l’odio sarà ritenuto indispensabile anche in questa guerra, e sarà quindi prodotto come articolo a sé. Per alimentarlo, si indicheranno (e, al caso, s’inventeranno) oggetti d’odio ben visibili e identificabili, “ebrei” di ogni tipo; in ogni caso nemici interni: poiché per poter odiare veramente occorre qualcosa che possa cadere in mano. Ma quest’odio non potrà entrare minimamente in rapporto con le azioni di guerra vere e proprie: e la schizofrenia della situazione si rivelerà anche in ciò, che odiare e colpire saranno rivolti a oggetti completamente diversi.
Non solo per quest’ultima tesi, ma per tutte quelle qui formulate, bisogna aggiungere che sono state scritte perché non risultino vere. Poiché esse potranno non avverarsi solo se terremo continuamente presente la loro alta probabilità, e se agiremo in conseguenza. Nulla di più terribile che aver ragione. Ma a quelli che, paralizzati dalla fosca probabilità della catastrofe, si perdono di coraggio, non resta altro che seguire, per amore degli uomini, la massima cinica: “Se siamo disperati, che ce ne importa? Continuiamo come se non lo fossimo!”
Questo articolo è stato pubblicato sul blog di Pasquale Pugilese il 6 febbraio 2022