Giovedì scorso è morta bell hooks. Abbiamo pensato di riservarle uno spazio, questa settimana, condvidendo alcuni estratti dalle sue opere, già reperibili in rete. Per provare a colmare questo vuoto ineludibile con il volume delle sue stesse parole. Un piccolo tributo che non cessa di rimarcare lo spessore di questa assenza e il bisogno che abbiamo di riempire il nostro presente con tutte le lezioni che bell hooks non ha mai smesso di urlare.
A chi tra noi vorrebbe avere un ruolo attivo nella creazione di pratiche culturali controegemoniche, «una politica di posizione» intesa come punto di osservazione e prospettiva radicale impone di individuare spazi da cui iniziare un processo di revisione. […] All’interno di sistemi di potere e di relazione complessi e mutevoli, ci mettiamo dalla parte della mentalità colonizzatrice? Oppure perseveriamo nella resistenza politica a fianco degli oppressi, pronti a offrire il nostro modo di vedere, teorizzare, far cultura, in favore di quella tensione rivoluzionaria che cerca di creare spazi in cui l’accesso al piacere e al potere della conoscenza sia illimitato, in cui la trasformazione sia possibile? Questa scelta è cruciale. […]
Una volta, nel corso di un’intensa conversazione notturna, parlando di chi, oppresso, lotta per darsi una voce, Eddie George (membro del Black Audio Film Collective) mi ha detto che «la nostra è una voce spezzata». E lo diceva in termini negativi. Gli ho risposto semplicemente che, quando la voce che ascoltiamo è rotta, è impossibile non cogliere anche il dolore che vi sta dietro – le parole della sofferenza –, quei suoni che spesso nessuno vuole udire». […]
Ho lavorato per cambiare il mio modo di parlare e di scrivere, per incorporare nei miei racconti il senso geografico: non solo dove io sono ora, ma anche da dove vengo, e le molteplici voci presenti in me. Ho affrontato il silenzio e l’incapacità di essere articolata. Quando dico che queste parole scaturiscono dalla sofferenza, mi riferisco alla lotta personale che si conduce per definire la posizione da cui ci si dà voce – lo spazio del teorizzare.
Spesso, parlando con radicalità di dominio, parliamo proprio a chi domina. La loro presenza cambia la natura e la direzione delle nostre parole. La lingua è anche un luogo di lotta. Ero solo una ragazzina quando ho letto le parole di Adrienne Rich, «questa è la lingua dell’oppressore, ma ho bisogno di parlarti». Questa lingua che mi ha consentito di frequentare l’università, di scrivere una tesi di laurea, di sostenere colloqui di lavoro, ha l’odore dell’oppressore. La lingua è anche un luogo di lotta. […]
Gli oppressi lottano con la lingua per riprendere possesso di sé stessi, per riconoscersi, per riunirsi, per ricominciare. Le nostre parole significano, sono azione, resistenza. Il linguaggio è anche un luogo di lotta. […]
In Freedom Charter, un libro in cui si affrontano alcuni aspetti del movimento contro l’apartheid razziale in Sud Africa, viene ripetuta più volte questa frase: «La nostra lotta è anche una lotta della memoria contro l’oblio». In molte delle migliori nuove pratiche culturali, in vari testi culturali – film, romanzi di autori e autrici afroamericani, teoria critica – è visibile la tensione a ricordare. Tensione che esprime il bisogno di creare spazi in cui sia possibile recuperare e ridare significato al passato, all’eredità del dolore, alla sofferenza, e trovare modi per trasformare con successo la realtà presente. I frammenti di memoria non sono rappresentati come semplici documenti. Essi sono costruiti in modo da dare «una nuova versione» del vecchio, per farci muovere verso una diversa forma di articolazione. […]
Ho avuto bisogno di ricordare, di un processo autocritico in cui fermarmi a riconsiderare scelte e luoghi, ripercorrendo all’indietro l’itinerario che, dalla comunità nera di una piccola città del Sud, con le sue tradizioni popolari e religiose, mi aveva portato a città, università, quartieri dove la segregazione razziale non esisteva, a luoghi dove per la prima volta vedevo film indipendenti, leggevo teoria critica e ne producevo io stessa. […]
Per andare al di là dei suoi confini, ho dovuto lasciare quello spazio che chiamavo casa, e più tardi, però, ho anche sentito il bisogno di tornarci. Uno dei gospel della nostra tradizione religiosa dice «I’m going up the rough side of the mountain on my way home», per tornare a casa ho preso la strada più impervia. In realtà il significato profondo di casa cambia con l’esperienza della decolonizzazione, della radicalizzazione.
A volte, casa è in nessun luogo. A volte si conoscono soltanto alienazione ed estraniazione. Allora casa non è più un solo luogo. È tante posizioni. Casa è quello spazio che rende possibili e favorisce prospettive diverse e in continuo cambiamento, uno spazio in cui si scoprono nuovi modi di vedere la realtà, le frontiere della differenza. Sperimentare e accettare dispersione e frammentazione come fasi della costruzione di un nuovo ordine mondiale che riveli appieno dove siamo e chi possiamo diventare, e che non costringa a dimenticare. «La nostra lotta è anche una lotta della memoria contro l’oblio».
Tra i neri, chi è sempre vissuto nel privilegio o nel desiderio di lasciarsi alle spalle una condizione di estrema povertà per raggiungerne una di privilegio, o ancora chi, come me, ha origini modeste e si è dovuto costantemente impegnare in una lotta politica all’interno e all’esterno della comunità nera per affermare una presenza estetica e critica, ha un’esperienza radicalmente diversa dello spazio e della posizione. I neri di estrazione povera e sottoproletaria che riescono ad arrivare all’università e a frequentare ambiti culturali privilegiati, e che però non intendono dimenticare chi sono rinunciando alla propria storia e ai segni della propria diversità di classe e di cultura e trasformandosi nell’«Altro esotico», se vogliono sopravvivere con animo integro, devono creare spazi all’interno della cultura dominante. In fondo, la nostra presenza è un atto di rottura.
Noi siamo talmente «Altro» da essere una minaccia, oltre che per i bianchi che pensano di essere i soli in pericolo, anche per i neri di origine borghese che non capiscono e non condividono le nostre prospettive. Ovunque andiamo subiamo pressioni da parte di chi vorrebbe ridurci al silenzio, cooptarci o toglierci la terra sotto i piedi. Non «arriviamo» mai e, se arriviamo, non ci è consentito «restare». Una volta tornati agli spazi da cui veniamo, ci facciamo fuori con le nostre stesse mani per la disperazione, annegando nel nichilismo, preda della povertà, della dipendenza e di tutti i postmoderni modi di morire che si possono immaginare. Inoltre, quei pochi di noi che ce la fanno a rimanere in quello spazio «altro», sono spesso troppo isolati, troppo soli. Ci si può addirittura morire. Quelli di noi che restano in vita, che «ce la fanno», conservando con passione i valori della vita «in famiglia», la vita «di un tempo» che non intendiamo perdere, continuando a cercare un sapere ed esperienze nuovi, inventano spazi di apertura radicale. Privi di tali spazi non sopravvivremmo. Le nostre vite dipendono dalla nostra capacità di concettualizzare alternative, spesso improvvisando. È compito di una pratica culturale radicale teorizzare su questa esperienza in una prospettiva estetica e critica.
Per me questo spazio di apertura radicale è il margine, il bordo, là dove la profondità è assoluta. Trovare casa in questo spazio è difficile, ma necessario. Non è un luogo «sicuro». Si è costantemente in pericolo. Si ha bisogno di una comunità capace di fare resistenza. Ecco cosa ho scritto a proposito di marginalità nell’introduzione a Feminist Theory: From Margin To Center:
Essere nel margine significa appartenere, pur essendo esterni, al corpo principale. Per noi, americani neri, abitanti di una piccola città del Kentucky, i binari della ferrovia sono stati il segno tangibile e quotidiano della nostra marginalità. Al di là di quei binari c’erano strade asfaltate, negozi in cui non potevamo entrare, ristoranti in cui non potevamo mangiare e persone che non potevamo guardare dritto in faccia. Al di là di quei binari c’era un mondo in cui potevamo lavorare come domestiche, custodi, prostitute, fintanto che eravamo in grado di servire. Ci era concesso di accedere a quel mondo, ma non di viverci. Ogni sera dovevamo fare ritorno al margine, attraversare la ferrovia per raggiungere baracche e case abbandonate al limite estremo della città. C’erano leggi a governare i nostri movimenti sul territorio. Non tornare significava correre il rischio di essere puniti. Vivendo in questo modo – all’estremità –, abbiamo sviluppato uno sguardo particolare sul mondo. Guardando dall’esterno verso l’interno e viceversa, abbiamo concentrato la nostra attenzione tanto sul centro quanto sul margine. Li capivamo entrambi. Questo modo di osservare ci impediva di dimenticare che l’universo è una cosa sola, un corpo unico fatto di margine e centro. La nostra sopravvivenza dipendeva da una crescente consapevolezza pubblica della separazione tra i due luoghi e da un sempre più diffuso riconoscersi degli individui come parte necessaria e vitale di un insieme. Questo senso di appartenenza, impresso nelle nostre coscienze dalla struttura della vita quotidiana, ci ha dato una visione oppositiva del mondo – un modo di vedere sconosciuto a gran parte dei nostri oppressori. Esso ci ha sostenuti e aiutati nella lotta contro la povertà e la disperazione, rafforzando il nostro senso di identità e di solidarietà.
Anche se incomplete, queste affermazioni individuano la marginalità come qualcosa di più di un semplice luogo di privazione. Ciò che intendevo sostenere è, infatti, l’esatto contrario, ossia che la marginalità è un luogo di radicale possibilità, uno spazio di resistenza. Questa marginalità, che ho definito spazialmente strategica per la produzione di un discorso controegemonico, è presente non solo nelle parole, ma anche nei modi di essere e di vivere. Non mi riferivo, quindi, a una marginalità che si spera di perdere – lasciare o abbandonare – via via che ci si avvicina al centro, ma piuttosto a un luogo in cui abitare, a cui restare attaccati e fedeli, perché di esso si nutre la nostra capacità di resistenza. Un luogo capace di offrirci la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi.
Non si tratta di una nozione mistica di marginalità. È frutto di esperienze vissute. Voglio chiarire, tuttavia, che cosa significhi lottare per mantenere questo tipo di marginalità quando si lavora, si produce, si scrive «dal centro». È da tempo che non vivo più in quel mondo segregato al di là dei binari della ferrovia. Per vivere in quel mondo era fondamentale una consapevolezza sempre maggiore del bisogno di opposizione. Quando Bob Marley canta «We refuse to be what you want us to be, we are what we are, and that’s the way it’s going to be» (rifiutiamo di essere ciò che voi volete farci essere, siamo quel che siamo e voi non ci potete fare proprio niente), lo spazio del rifiuto da cui si può dire no al colonizzatore, a chi ti opprime, sta sui margini. E si può solo dire no, far parlare la voce della resistenza, perché è lì che esiste un contro-linguaggio.
Anche se può essere paragonata a quella del colonizzatore, la nostra lingua ha subito una trasformazione: essa è stata irrimediabilmente cambiata. Abbandonando fisicamente quello spazio concreto ai margini, al di là della ferrovia, ho mantenuto vivo nel cuore un modo di conoscere la realtà che afferma incessantemente non solo il primato della resistenza, ma anche un bisogno di resistere sostenuto dal ricordo di un passato dove è la memoria di tante voci spezzate a far trovare a ognuno di noi la propria vera voce. È un bisogno di resistere che ci rende liberi, che decolonizza le nostre menti e tutto il nostro essere.
Una volta, mentre stavo per tornare a un’università frequentata quasi esclusivamente da bianchi, mia madre mi disse: «Puoi prendere ciò che i bianchi hanno da offrirti, ma non devi amarli». Adesso, conoscendo i suoi codici culturali, so che non mi stava dicendo di non amare persone di altre razze. Parlava di colonizzazione e di cosa significa venire educati e istruiti in una cultura del dominio, per mano di chi quel dominio detiene. Diceva che ero in grado, che avevo la forza di separare i saperi utili che avrei potuto acquisire dal gruppo dominante dalla partecipazione a forme di conoscenza che mi avrebbero portata all’estraniazione, all’alienazione e, ancor peggio, all’assimilazione e alla cooptazione. Sosteneva che, per imparare, non era necessario consegnarsi a loro. Pur non essendo mai stata all’università, mia madre sapeva che più di una volta mi sarebbe capitato di affrontare situazioni in cui sarei stata «messa alla prova», «testata». Sapeva che, per farmi accettare, sarei stata costretta a diventare parte di un sistema di scambio capace di garantire il mio successo, il mio «farcela». Mi stava ricordando che era necessario non smettere di opporsi e allo stesso tempo mi incoraggiava a non perdere quella prospettiva radicale costruita e modellata dalla marginalità.
Capire la marginalità come posizione e luogo di resistenza è cruciale per chi è oppresso, sfruttato e colonizzato. Se consideriamo il margine solo come un segno che esprime disperazione, veniamo penetrati distruttivamente da uno scetticismo assoluto. Ed è proprio lì, in quello spazio di disperazione collettiva, che la nostra creatività e la nostra immaginazione sono in pericolo, che la nostra mente viene colonizzata, che si desidera la libertà come fosse un bene perduto. Le menti che resistono alla colonizzazione lottano, in fondo, per la libertà e a essa aspirano come a un bene perduto. Esse lottano per la libertà d’espressione. Da principio la lotta potrebbe addirittura non avere come bersaglio il colonizzatore, ma prendere il via all’interno della nostra stessa comunità o della nostra famiglia, a loro volta colonizzate e segregate. Ci tengo quindi a sottolineare che non sto cercando di riabilitare e romantizzare il concetto di marginalità spaziale, secondo cui gli oppressi vivono «in purezza», separati dagli oppressori. Voglio affermare che questi margini sono stati luoghi di repressione, ma anche di resistenza. Poiché siamo capaci di definire la natura di quella repressione, è evidente che sappiamo che il margine è un luogo di privazione. Quando, però, si tratta di parlare del margine come di un luogo di resistenza, ci facciamo più silenziosi. Quando si tratta di parlare del margine come di un luogo di resistenza, veniamo spesso ridotti al silenzio. […]
Il mio è un invito deciso. Un messaggio da quello spazio al margine, che è luogo di creatività e potere, spazio inclusivo, in cui ritroviamo noi stessi e agiamo con solidarietà, per cancellare la categoria colonizzato/colonizzatore. Marginalità come luogo di resistenza. Entrate in quello spazio. Incontriamoci lì. Entrate in quello spazio. Vi accoglieremo come liberatori. […]
Io sono nel margine. Faccio una distinzione precisa tra marginalità imposta da strutture oppressive e marginalità eletta a luogo di resistenza – spazio di possibilità e apertura radicale. Questo luogo di resistenza è permanentemente caratterizzato da quella cultura segregata di opposizione che è la nostra risposta critica al dominio.
Noi giungiamo in questo spazio attraverso la sofferenza, il dolore e la lotta. Sappiamo che la lotta è il solo strumento capace di soddisfare, esaudire e appagare il desiderio. La nostra trasformazione, individuale e collettiva, avviene attraverso la costruzione di uno spazio creativo radicale, capace di affermare e sostenere la nostra soggettività, di assegnarci una posizione nuova da cui poter articolare il nostro senso del mondo.
Fonte: Comune