La giustizia climatica è una questione di genere, scrive in “How women can save the planet” (Hurst, 2021) Anne Karpf, sociologa, giornalista e collaboratrice del The Guardian, docente di “Life writing and culture” presso la London Metropolitan University. In primo luogo perché, come ricostruito dall’autrice attraverso un corposo insieme di studi e ricerche, gli impatti dei cambiamenti climatici colpiscono con forza le donne, soprattutto se povere, parte di minoranze o di Paesi a basso reddito. Gli effetti del climate change aggravano la loro vulnerabilità, economica e di accesso a cibo e servizi, oltre al rischio di subire violenze sessuali e domestiche. Non solo, prosegue Karpf, perché il cambiamento climatico determina anche conseguenze indirette. Come nel crollo della fabbrica di indumenti Rana Plaza a Dhaka in Bangladesh nel 2013, che produceva abiti per noti marchi di moda occidentali, dove morirono più di mille persone. La maggior parte delle donne era di Barisal, città minacciata dall’innalzamento del livello del mare e dalle inondazioni.
Eppure è dalle donne e dai movimenti femministi che vengono “altre” forme di tutela dell’ambiente. Karpf le ricostruisce sia proponendo il pensiero di autrici, ricercatrici e intellettuali sia parlando con attiviste, dal Nepal al Senegal, di cui racconta obiettivi e modi di mettere in pratica battaglie ambientaliste. Come Maria Leusa Munduruku, membro della tribù indigena Munduruku nella foresta amazzonica in Brasile, che difende il suo popolo dalle coltivazioni di soia e dalle estrazioni minerarie.
O Nemonte Nenquimo, una delle donne Waorani che nel 2019 ha avuto un ruolo di primo piano nel portare il governo dell’Ecuador in tribunale per bloccare le licenze per trivellare il petrolio greggio nell’Amazzonia.
E ancora l’attivista Greta Thunberg, tra le fondatrici di Fridays for Future, e Licypriya Kangujam, bambina indiana di nove anni tra le più giovani ambientaliste al mondo. Nell’ottobre 2019 aveva aiutato a organizzare la “grande marcia” degli studenti per chiedere al Parlamento di approvare un disegno di legge per controllare le emissioni di gas serra causate dal Paese. “Nonostante quanto abbiamo osservato alla Conferenza sul clima delle Nazioni Unite di Glasgow -aggiunge Karpf che preso parte a un tavolo di discussione su donne e clima- chi ha protestato contro i negoziati sta sottolineando l’importanza di continuare a insistere. L’esistenza stessa di questa Cop ha contribuito a sensibilizzare le persone”.
Professoressa Karpf, nel suo libro è presente una vasta rassegna di autrici che usano unosguardo di genere per parlare di cambiamento climatico. In che modo?
AK Molte autrici che ho citato nel libro utilizzano un nuovo approccio ai temi dell’ambiente. Le femministe che si occupano di clima ci hanno mostrato una serie del tutto inedita di soluzioni, al posto di riproporre i soliti metodi, come la geoingegneria, pensati da uomini che cercano di risolvere il cambiamento climatico con la tecnologia ma continuano a estrarre combustibili fossili e a emettere gas serra. Secondo l’approccio alternativo delle femministe, bisogna mettere fine a tutto ciò e cercare di soddisfare i bisogni primari delle persone. Un esempio. Le donne del Women’s Budget Group, gruppo di economiste, partono da un punto di vista completamente diverso come i lavori di cura e assistenza. Nel libro cito una statistica che confronta una sterlina di Pil investita nelle infrastrutture con una sterlina investita in lavori di cura. L’indagine rivela che la seconda categoria ha un impatto ambientale minore, genera il triplo dei posti di lavoro e il 30% in meno di inquinamento. Il Covid-19 ci ha permesso di renderci conto di questo: quando ci siamo ritrovati ad affrontare una situazione critica come quella della pandemia, qual è stata la cosa più importante? L’assistenza. Quindi queste pensatrici dicono: se la poniamo al centro dell’economia “verde”, possiamo cambiare le cose. Tutto dipende da come la nostra società risponde ai bisogni delle persone più marginalizzate e oppresse e se è in grado di aiutarle.
Può fare un esempio?
AK L’economista Kate Raworth e il suo concetto di “doughnut economics”. L’autrice prende l’immagine della ciambella e spiega che l’anello interno simboleggia la necessità di soddisfare i bisogni primari di ognuno di noi (un luogo in cui vivere, salute, istruzione, vita comunitaria, cibo): idealmente nessun abitante del nostro Pianeta dovrebbe stare al di sotto di questa soglia minima. L’anello esterno rappresenta le risorse che il Pianeta è in grado di fornire, il punto fino a cui possiamo spingerci per soddisfare questi bisogni senza danneggiarlo o danneggiarlo ulteriormente. Secondo Raworth la nostra economia dovrebbe collocarsi nello spazio tra i due anelli. Ed è un sistema perfettamente sensato perché siamo tutti cresciuti in un mondo fatto di disuguaglianze anche se ci dicono che non ci sono alternative. “There is no alternative”, sosteneva Margaret Thatcher ma è una stupidaggine.
Quando si parla di donne e cambiamento climatico, quali sono gli stereotipi che entrano in gioco?
AK Gli stereotipi sono ad esempio quello della donna come “madre della Terra”, come persona che ha un’affinità innata con il Pianeta: a una prima analisi potrebbe sembrare un’immagine positiva ma è critica. La tesi secondo cui le donne sono “nutrici” innate è un’estensione del loro ruolo di madre ed è un costrutto sociale a mio parere nocivo. Sherilyn MacGregor l’ha definita “femminilizzazione delle responsabilità”, cioè l’idea secondo cui sono le decisioni delle donne, e la loro impronta ecologica, a potere cambiare la situazione perché sono spesso loro, per esempio, a decidere degli acquisti di una famiglia. Inoltre devo dire che un’analisi basata esclusivamente sul genere non è sufficiente: la giustizia climatica è intersezionale e quindi bisogna riflettere anche su come le persone vengono “razzializzate”. È necessario tenere in considerazione le minoranze, le classi sociali e le disabilità. Ma anche l’età perché è assolutamente sbagliato affermare che il dibattito sul cambiamento climatico riguarda solo i giovani: mette un enorme peso sulle loro spalle e sappiamo che la loro salute mentale, in particolare quella delle giovani donne, ha risentito molto della pandemia. Dobbiamo adottare un approccio intergenerazionale.
Eppure lei ha intitolato il suo libro “Come le donne possono salvare il Pianeta”.
AK Sappiamo che molti studi dimostrano che le donne sono più sensibili al tema del cambiamento climatico e che, quando si trovano in posizioni politiche di potere o partecipano ai negoziati, tendono a ratificare con maggiore frequenza trattati sull’ambiente o ad approvare leggi sull’ambiente efficaci. Il motivo di questo movimento è ovvio: alle donne viene dato il compito di assistere i bambini e gli anziani, quindi siamo noi a dover rimettere insieme i pezzi quando qualcosa va storto nella vita di tutti i giorni. Non c’è da stupirsi se sono consapevoli dei rischi legati al cambiamento climatico. Penso che molte delle donne indigene citate nel mio libro siano una grande fonte di ispirazione e sono veramente guerriere per il clima, come le donne brasiliane che si oppongono alle estrazioni in Amazzonia e corrono grandi rischi personali. Tuttavia è necessario chiarire che la lotta al cambiamento climatico non è una loro esclusiva responsabilità né un peso che deve essere caricato solo sulle loro spalle.
Lei ha intervistato molte attiviste in tutto il mondo. Che cosa ne trae?
AK Penso che la presenza costante di manifestanti e attiviste per il clima, in particolare negli ultimi anni, ha avuto un’importanza fondamentale perché ha messo in rilievo la questione climatica come mai prima d’ora. La pressione è destinata a rimanere. È interessante la comparsa di cause legali legate agli effetti del cambiamento climatico a partire dal caso apripista di Urgenda, fondato da Marjan Minnesma nel 2007, contro il governo olandese. Ritengo che l’attivismo per il clima stia diventando sempre più creativo: le cause legali sono un modo interessante per individuare lo scarto tra gli impegni presi a Parigi e la realtà e per fare in modo che i governi siano chiamati a rispondere delle proprie azioni. A tutto questo le donne hanno contribuito, e continuano a farlo, in modo determinante.
Ha partecipato alla Conferenza delle Nazioni Unite sul clima a Glasgow. Come è andata?
AK Ho preso parte a un incontro organizzato dal Women’s Budget Group e dal Women’s Environmental Network che è stato molto buono. Chi è intervenuto mi ha dato speranza, in particolare Kavita Naidu (avvocata per i diritti umani specializzata in cause relative all’ambiente e al cambiamento climatico e parte di Greenpeace Australia, ndr). I relatori hanno sottolineato che dobbiamo continuare a fare pressione sui negoziatori per spostare l’agenda verso la giustizia climatica, ma anche che non dobbiamo pensare esclusivamente ai cambiamenti globali. Poiché apparteniamo a diverse comunità, possiamo esercitare pressioni a livello locale proprio attraverso i gruppi e le comunità. Quasi tutti gli attivisti e le attiviste che ho incontrato a Glasgow sono scettici su ciò che stava accadendo nei negoziati ufficiali: sostengono che si tratta principalmente di greenwashing e che i Paesi e gli altri organismi coinvolti cercano di concedere il meno possibile mentre lo presentano in modo significativo.
Allo stesso tempo ritengo che chi ha protestato si è sentito rafforzato dalla solidarietà e dalla forza presente tra gli attivisti che di per sé genera speranza. Nessuno ritiene che si possa realmente raggiungere l’obiettivo degli 1,5 gradi entro il 2030 ma non credono che questo sia un motivo per smettere di provare e insistere. L’esistenza stessa di questa Cop26 ha contribuito a sensibilizzare le persone.
Questo articolo è stato pubblicato su Altreconomia il 10 novembre 2021