Ecosocialismo e decrescita: parliamone

di Lorenzo Velotti /
10 Novembre 2021 /

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Per superare il capitalismo, è necessario problematizzare il concetto di crescita economica. E recuperare un filone che incrociandosi coi movimenti decoloniali e altri filoni critici si è evoluto attraversando numerose discipline

Il neo-premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi – nel corso del suo recente intervento alla Camera dei Deputati in merito al cambiamento climatico – ha affermato che «Il Pil dei singoli paesi sta alla base delle decisioni politiche e la missione dei governi sembra essere quella di aumentarlo il più possibile. Obiettivo che però è in profondo contrasto con l’arresto del riscaldamento climatico…». L’intervento ha generato scetticismo da parte di politici ed economisti nostrani: del resto, che ci capisce un fisico di come va il mondo? Eppur si muove: al di fuori della penisola il dibattito è vivo ed è preso seriamente non solo da fisiche, sociologi o antropologhe, ma anche da vari economisti eterodossi. 

Se il superamento del capitalismo è la nostra prospettiva, problematizzare la crescita è imprescindibile. L’accumulazione originaria capitalista è stata resa possibile da processi di sfruttamento ed estrazione della natura e del lavoro. Le enclosures in Europa sono state una forma di colonizzazione interna mirata a creare scarsità artificiale per i più e accumulazione per pochi, mentre nel resto del mondo si imponeva un processo di enclosure ancora più violento: la colonizzazione, con gli stermini delle popolazioni native e la tratta degli schiavi. Nel frattempo, come scrive Silvia Federici, si sono colonizzati i corpi delle donne e del loro lavoro di cura, estratto gratuitamente in quanto considerato come «naturale». La crescita, in altre parole, è ed è sempre stata connessa a processi di colonizzazione. Infatti, come argomentano gli autori di The Future is Degrowth: A Guide to a World Beyond Capitalismin uscita per Verso, la crescita è la materializzazione della dinamica dell’accumulazione capitalista. Il capitalismo non si definisce per la presenza di mercati, che lo precedono di migliaia di anni, ma deve la sua unicità all’avere nell’accumulazione e nella crescita infinita – impossibili senza sfruttamento – la sua condizione necessaria d’esistenza. Se socialismo significa mettere fine allo sfruttamento, significa anche la fine dell’accumulazione, e dunque della crescita, infinita.

La decrescita nei media e nelle istituzioni internazionali

Che il dibattito sia serio e urgente ne è consapevole, ad esempio, il New York Times, che ne parlava in prima pagina nell’edizione internazionale del 16 Settembre scorso. Se da una parte, scrive il New York Times, il paradigma dominante è quello della crescita verde, ovvero la fiducia nella compatibilità tra un Pil sempre crescente e una transizione ecologica fondata sull’innovazione tecnologica (e guidata dal mercato) – sposato da Governi Europei, Casa Bianca, Banca Mondiale ecc. –, dall’altro sta emergendo un paradigma rivale: quello della decrescita. 

«Ah, ma quale paradigma emergente, ancora con questa storia della ‘decrescita felice’?», verrebbe facilmente contestato in Italia, ricordando lo slogan in auge ormai più di un decennio fa – un’espressione che nell’immaginario collettivo viene ricondotta a una qualche forma privilegiata di consumismo etico o, nel peggiore dei casi, alla vita nelle caverne. Senza nulla togliere a chi se ne è occupato in passato, è importante riconoscere che ci sono nuove figure accademiche di riferimento, una molteplicità di discipline che se ne occupano e un sempre crescente numero di gruppi politici e istituzioni che la prendono seriamente in considerazione.

Nel 2019, 11.258 scienziati di 153 paesi diversi hanno firmato un breve avvertimento in cui, tra le altre cose, specificavano che «I nostri obiettivi devono passare dalla crescita del Pil e dal perseguimento della ricchezza al sostegno degli ecosistemi e al miglioramento del benessere umano, dando priorità ai bisogni di base e riducendo le disuguaglianze». Nell’ultimo report delle Nazioni Unite sulla biodiversità a livello globale, l’Ipbes (l’equivalente, per la biodiversità, all’Ipcc per il cambiamento climatico) ha indicato, come raccomandazione principale per arrestare il processo di estinzione di massa in corso e preservare la biodiversità, di abbandonare la fissazione con la crescita del Pil, parlando ampliamente di decrescita come approccio sempre più rilevante.

L’Agenzia Ambientale Europea, un organismo dell’Unione Europea, nel report del 2021 intitolato Crescita senza Crescita ha scritto che la «grande accelerazione» in corso rispetto a perdita di biodiversità, cambiamento climatico, inquinamento e perdita di capitale naturale è strettamente collegata alla crescita economica, e che il completo disaccoppiamento tra quest’ultima e il consumo di risorse potrebbe non essere possibile. Infine, ha fatto notare come «l’economia della ciambella», la post-crescita e la decrescita siano alternative che offrono idee preziose. Una breve definizione di decrescita può essere quella data da Jason Hickel, che è forse l’autore contemporaneo più autorevole, secondo cui si tratta di «una riduzione pianificata dell’uso di energia e risorse concepita per riportare l’economia in equilibrio con il mondo vivente in modo da ridurre le disuguaglianze e migliorare il benessere umano».

Nel frattempo, alcune parti del capitolo Ipcc sulla mitigazione del riscaldamento climatico in uscita a Marzo 2022 sono state fatte trapelare (e riprese, per esempio, dal Guardian) per timore, da parte di alcuni autori, che vengano poi cancellate a causa delle fortissime pressioni di lobby di inquinatori pubblici e privati. Le prescrizioni non lasciano spazio a equivoci: «Il cambiamento tecnologico attuato finora a livello globale non è sufficiente per raggiungere gli obiettivi climatici e di sviluppo […] La crescita del consumo di energia e materiali è la causa principale dell’aumento dei Gas Serra (Ghg). Il leggero disaccoppiamento della crescita dal consumo energetico (e in gran parte motivato dalla delocalizzazione della produzione) non è stato in grado di compensare l’effetto della crescita economica e demografica […] Negli scenari che contemplano una riduzione della domanda di energia, le sfide di mitigazione sono significativamente ridotte, con una minore dipendenza dalla rimozione della CO₂, una minore pressione sul territorio e prezzi più bassi per l’anidride carbonica. Questi scenari non implicano una diminuzione del benessere, ma piuttosto una fornitura di servizi migliori». Insomma, scenari di decrescita.

È dunque comprensibile che la questione della decrescita sia protagonista di una conversazione vera in tanti paesi. In Francia, nel settembre scorso, Le Monde ha dato spazio a un ampio dibattito tra chi ha difeso la decroissance e chi l’ha problematizzata; su Le Monde Diplomatique è stato pubblicato un Elogio della decrescita questo Ottobre e su Liberation si trovano 237 articoli che menzionano la decrescita solo dal 2019 a oggi. Tornando al mondo anglofono, il principale editorialista del Guardian su temi ambientali ha scritto che «La crescita verde non esiste – ‘meno di tutto’ è l’unico modo per evitare la catastrofe». In Olanda, Amsterdam ha ufficialmente adottato il modello dell’«economia della ciambella». In Spagna, El País ha recentemente parlato di decrescita notando che il relativo dibattito sia stato risvegliato dalla questione dell’ampliamento dell’aeroporto di Barcellona. In effetti, la piattaforma che ha organizzato la manifestazione di massa per lo stop al progetto, poi ottenuto, si definisce inequivocabilmente «piattaforma per la decrescita del porto e dell’aeroporto di Barcellona». Tra i partiti che hanno appoggiato la protesta, la Cup (Candidatura di Unità Popolare), che ha ottenuto il 7% alle ultime elezioni catalane e i cui seggi sono fondamentali per il governo della regione, ha messo la decrescita nel programma ufficiale: «Promuoveremo la decrescita della sfera materiale dell’economia, la riduzione del consumo di materia ed energia in termini assoluti, e soprattutto quello delle classi dirigenti». Ma, come nota lo stesso giornale, interi settori del governo municipalista della città, di Podemos e di Esquerra Repubblicana, condividono le stesse posizioni.

La decrescita nel dibattito accademico internazionale

Proprio a Barcellona, l’associazione accademica Research and Degrowth, insieme al network internazionale Stay Grounded, ha contribuito a organizzare, nel 2019, la conferenza Degrowth of Aviation (Decrescita dell’aviazione). Il caso di un aeroporto (e dell’aviazione in generale) è un ottimo esempio per parlare di decrescita: si tratta di un settore in fortissima espansione (le stime più recenti prevedono una crescita del 4,3% annua per i prossimi vent’anni), di cui beneficia una minima parte della popolazione (solo 10% di quella globale ha volato almeno una volta), ma che è di inverosimile decarbonizzazione e che dunque contribuisce sempre più a estinguere rapidamente il rimanente budget globale di CO₂. Eppure, contribuisce considerevolmente al Pil, direttamente e indirettamente. Ora, la domanda di fronte all’ampliamento aeroportuale di Barcellona è semplice: si vuole investire denaro per ampliare l’aeroporto e dunque (1) aumentare di 20 milioni l’anno il traffico di passeggeri (tra cui turisti che si riverseranno in città); (2) Cementificare un’area naturale; (3) Contribuire a estinguere rapidamente il rimanente budget di emissioni climalteranti? Da un lato, giornali e partiti mainstream hanno difeso strenuamente il progetto facendo notare il contributo che questo darebbe allo sviluppo e alla crescita economica della città, della regione e del paese; dall’altro chi si oppone fa notare la follia ecologica e sociale che l’ampliamento rappresenterebbe, lanciando lo slogan, poi vincente: meno aerei, più vita.

L’immediata obiezione di una persona onestamente ecologista ma convinta dell’importanza della crescita sottolineerebbe probabilmente il fatto che in questo caso le attiviste hanno ragione, che questo non è il modello di crescita a cui aspirare ma che, in ogni modo, l’economia può crescere senza avere un impatto energetico, materiale, e di emissioni; che la crescita verde, ovvero immateriale, è la strada maestra. I decrescentisti rispondono che la crescita verde e immateriale è un ossimoro, o tutt’al più un mito. E questo è forse il nodo fondamentale (ma non esclusivo) del dibattito macroeconomico e fisico sulla decrescita: quello del cosiddetto decoupling (disaccoppiamento) assoluto tra la crescita del Pil e la crescita di emissioni e di utilizzo di materiali ed energia. In questo senso, alla domanda «È possibile una crescita verde?», la risposta più contundente la forniscono Hickel e Kallis, concludendo che «(1) non ci sono prove empiriche che il disaccoppiamento assoluto dall’uso delle risorse possa essere raggiunto su scala globale in un contesto di continua crescita economica e (2) è altamente improbabile che il disaccoppiamento assoluto dalle emissioni di carbonio possa essere raggiunto a un ritmo sufficientemente rapido da prevenire il riscaldamento globale oltre 1,5°C o 2°C, anche in condizioni politiche ottimistiche».

A conclusioni simili arriva un articolo che presenta una ricognizione sistematica dell’analisi di ben 835 articoli peer-reviewed sul tema del disaccoppiamento tra crescita del Pil, uso di risorse, ed emissioni di CO₂, mentre un saggio uscito quest’anno sulla prestigiosa rivista Nature conclude che gli scenari di decrescita riducono al minimo molti rischi chiave rispetto a fattibilità e sostenibilità se paragonati ai percorsi prospettati da soluzioni tecnologiche, come l’ipotetico disaccoppiamento tra un uso elevato di energia e il Pil, la rimozione su larga scala dell’anidride carbonica dall’atmosfera e il suo stoccaggio sotto terra, e una trasformazione su larga scala e ad alta velocità verso l’energia rinnovabile. Infine, ancora su Nature, in un articolo dell’estate scorsa, si afferma che «Gli approcci post-crescita possono rendere più facile ottenere una rapida mitigazione migliorando i risultati sociali e dovrebbero essere esplorati dai modellisti climatici».

Gli studi sopracitati si dedicano all’insufficiente (ma imprescindibile) aspetto fisico e tecnico della questione, argomentando che è altamente improbabile disaccoppiare crescita del Pil e degradazione dell’ambiente. A questo punto, l’economista più o meno ortodosso solitamente contesta che, seppur non sia mai avvenuto prima, il disaccoppiamento è teoricamente possibile. Ma, per quanto vero, poche sono le cose teoricamente impossibili nel mondo sociale, e la possibilità teorica di un fenomeno non ci dice niente né circa la sua probabilità, né rispetto alla sua desiderabilità politica. A quest’ultima è dedicata l’ultima parte dell’articolo. Ma intanto, va chiarito che il decoupling occupa solo una parte della crescente letteratura accademica sulla decrescita. Nel 2020, in inglese, sono usciti 70 articoli accademici, quattro special issues, 203 articoli online, e 11 libri che trattano della degrowth. Superata la questione del decoupling, si tratta soprattutto dell’analisi critica dell’intersezione di crescita, capitalismo, colonialismo, patriarcato e crisi ecologica, e/o di suggerire le strade percorribili verso un socialismo senza crescita, ecologico, decoloniale e femminista. Da qui traggo la tesi che segue. 

(Eco)Socialismo e decrescita 

Tra i motivi per cui «la sinistra» fa fatica a proporre un immaginario collettivo alternativo a quello capitalista c’è precisamente la contraddizione che emerge necessariamente e costantemente a causa della mancanza di una critica politica ed economica alla crescita. Tante delle singole policy che troviamo politicamente giuste si scontrano proprio con l’artificiale necessità di una continua crescita del Pil. Il conseguente vicolo cieco immaginativo finisce per dare implicitamente o esplicitamente ragione a chi, dal centro e da destra, vuole mercificare tutto per crescere. È un vicolo cieco da cui non si esce senza avere il coraggio di problematizzare la crescita nel suo complesso.

Farò due esempi. Una richiesta storica della classe lavoratrice è spesso stata «lavorare tutti, lavorare meno». Una richiesta del tutto ragionevole quando, come è vero, efficienza e produttività aumentano, rendendo necessario meno tempo per produrre le stesse unità. Lo stesso Keynes prevedeva che oggi avremmo potuto lavorare circa 15 ore settimanali per produrre quanto si produceva allora per soddisfare i bisogni di ciascuno. Eppure, a causa della dipendenza dalla costante crescita del Pil, non si è ridotto il tempo e redistribuito il lavoro per produrre le stesse unità, ma si è mantenuto lo stesso tempo, prodotto venti volte tanto, e guadagnato meno. Senza abolire la crescita, scordiamoci di tradurre gli aumenti della produttività in tempo libero.

Pensiamo altrimenti a una piazza, suolo pubblico orizzontalmente privatizzato dai tavolini per turisti e verticalmente riempito di pubblicità, che spinge a consumare beni di cui non abbiamo bisogno producendo effetti negativi sul pianeta e sulla nostra salute mentale. Chi ci legge sarà d’accordo sulla necessità di restituire questo spazio alla socialità, all’arte pubblica e al verde. Eppure, se ritrasformassimo in bene comune la vittima di quest’enclosure contemporanea, perderemmo un sacco di Pil: quello generato dai ristoranti, dall’affissione stessa della pubblicità, da chi progetta, fotografa, e stampa questa pubblicità, e quello che si deve al consumo che induce. E perderemmo, naturalmente, posti di lavoro. È un ricatto continuo, con cui il capitalismo è sempre riuscito a convincere la sinistra della necessità della crescita, senza lasciare spazio all’ipotesi che si possa lavorare meno, tutti, e meglio. In quest’esempio, un’idea di sinistra di spazio pubblico si scontra con l’artificiale necessità di crescere.

Il costante accrescimento del bottino da spartirsi è la più forte arma ideologica e culturale capitalista: la possibilità di non spartirsi più equamente il benessere materiale è offerta precisamente dal fatto che – almeno in teoria – anche le porzioni più piccole crescono sempre di più. Se l’infinita promessa di un «di più» cessasse di esistere, l’equa distribuzione delle risorse disponibili risulterebbe necessariamente come l’unica ipotesi sensata.

Qualcuno potrebbe chiedersi in che modo, però, un ecosocialismo senza crescita possa continuare a garantire la prospettiva di un avanzamento del livello di vita alla maggioranza delle persone. Ci sono almeno due risposte valide. La prima è che questa promessa, oggi declinata attraverso l’associazione tra livello di vita e crescita economica, è fumo negli occhi: basti pensare che negli Stati Uniti i livelli di felicità sono stagnati e diminuiti dagli anni Cinquanta mentre il reddito pro capite quadruplicava. Ora, nessuno nega che in molteplici contesti un maggior uso di risorse ed energia sia funzionale a un miglioramento delle condizioni di vita. Lì, se si interverrà per soddisfare i bisogni esistenti, il Pil crescerà. Ma nel Nord Globale, una volta soddisfatti certi livelli di bisogni materiali, l’aumento del benessere smette di essere condizionato dalla crescita del Pil. Ciò che fa la differenza secondo uno studio recente, invece, è la qualità dei servizi pubblici, l’uguaglianza e la democrazia, che sono associati a una maggiore soddisfazione dei bisogni (e a un fabbisogno energetico inferiore). Al contrario, la crescita del Pil oltre livelli moderati di benessere si traduce in una minore soddisfazione dei bisogni (e a maggiori requisiti energetici). Anche altri indicatori di benessere sono correlati al Pil fino a certi livelli, ma non oltre: sappiamo bene che diversi paesi europei (ma anche Costa Rica, Cuba e altri) hanno generalmente livelli di felicità, aspettativa di vita, e qualità dell’educazione molto più alti degli Stati Uniti nonostante un Pil per capita considerevolmente inferiore. Insomma, la decrescita nel Nord Globale non significa ignorare o rinunciare alle aspirazioni individuali e collettive in un futuro migliore, ma significa riconoscere che la crescita del Pil in sé non è un mezzo per soddisfarle.

Il secondo modo di rispondere alla domanda è riflettere su cosa si intende per «maggioranza delle persone», dal momento che tale maggioranza, notoriamente, non risiede nei paesi che si definiscono «sviluppati». In questo senso, esigere la decrescita dei colonizzatori è strumentale alla lotta decoloniale. Il Nord globale risulta oggi responsabile del 92% di tutte le emissioni in eccesso rispetto ai limiti planetari, per non parlare di un uso delle risorse, prevalentemente saccheggiate ai danni del Sud globale, quattro volte oltre un livello sostenibile. Per una giustizia ambientale globale, se si vuole una maggiore ricchezza materiale – e dunque un maggior uso di materiali e risorse – nel Sud globale, è necessario diminuire drasticamente l’uso di materiali e risorse al Nord. Come abitanti di quest’ultimo, esigere la decrescita per liberare e restituire aria, terra, e risorse è tra le forme di attivismo più marcatamente decoloniale in cui possiamo impegnarci.

Un dibattito da prendere sul serio

In quest’articolo ho cercato di spiegare come, là fuori, c’è un dibattito che faremmo bene a prendere sul serio. Va ammesso che, dalla gente comune ai più noti economisti, la decrescita richiede uno sforzo significativo: una decolonizzazione dell’immaginario con cui tutti siamo cresciuti (nonché una decostruzione di gran parte del proprio percorso accademico per i secondi). D’altronde, è quello che ogni grande cambiamento paradigmatico della storia ha sempre richiesto. Come scriveva Immanuel Wallerstein, una rivoluzione è, prima di tutto, una trasformazione del senso comune. 

Per approfondire, non posso che rimandare alle tante fonti citate, e forse a un libro su tutti: Less is More: How Degrowth Will Save the World di Jason Hickel (2020), il cui titolo è stato scandalosamente tradotto in Italiano Siamo ancora in tempo! Come una nuova economia può salvare il pianeta (cosa si fa per non scomodare i tabù).  

Un’ultima nota per quanto riguarda la parola «decrescita». A molti non piace: «È brutta!». E può darsi, non usatela, ma forse la sua importanza risiede proprio nella sua difficile appropriabilità (contrariamente a «sostenibilità», «verde», «inclusività», «resilienza», ma anche «socialismo»). La decrescita dà fastidio proprio perché non lascia spazio a dubbi: per la giustizia ambientale e per la vita, la dimensione materiale dell’economia deve diminuire, i beni comuni vanno moltiplicati, il lavoro democratizzato, il tempo liberato, la ricchezza redistribuita. Se faremo tutto questo, è probabile che il Pil diminuisca. Facciamocene una ragione. Anzi, organizziamoci affinché accada nel modo più giusto possibile. La decrescita è questo.

Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin Italia il 5 novembre 2021

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