L’alluvione ha colpito la Romagna e parte dell’Emilia in maniera inaspettata, ma non è che la conferma di alcuni dati di fatto che da tempo conosciamo. Il primo è che gli eventi naturali estremi sono destinati a ripetersi e non sono più eccezionali. La crisi ecologica non è qualcosa che si verifica per poi passare, come altri eventi storici.
È piuttosto la condizione della nostra vita. Se è certamente vero che una riduzione delle emissioni, la trasformazione delle modalità di produzione e riproduzione delle ricchezze e in generale la trasformazione dei nostri sistemi sociali può prevenire l’aggravarsi ulteriore degli effetti della crisi ecologica, è anche vero che tutta una serie di fenomeni continueranno a verificarsi per molti decenni.
La seconda realtà di cui prendere coscienza è che il capitalismo non è cieco davanti alla crisi ecologica, per quanto sia in atto uno scontro violento tra le classi dirigenti globali relativamente alle modalità di gestione di tale crisi. Semplicemente, a questo stadio del suo sviluppo, è costretto sempre più frequentemente a scegliere tra l’accumulazione infinita di ricchezza privata e la salvaguardia dei territori. Il capitale, come è noto, sceglie istintivamente la prima. Oggi, in Occidente, è quasi interamente assente ogni meccanismo di correzione di tale istinto.
Nel caso del susseguirsi di alluvioni in Romagna è evidente come l’unico modo per rendere questo territorio di nuovo abitabile sia il ripensamento e la ricostruzione complessiva delle infrastrutture natural-artificiali che lo attraversano. Questo richiederebbe tuttavia una quantità immensa di risorse, che dovrebbero essere sottratte a chi la ricchezza la possiede davvero. Non è un caso che mentre la Romagna iniziava a tremare aspettando i colpi dell’alluvione, il presidente di Confidustria definiva il Green New Deal, di fronte a una raggiante Giorgia Meloni, un «regalo ai nostri competitor».
D’altra parte, i fatti delle ultime ore rendono evidente che è la stessa forma stato che non riesce o non ha i mezzi per intervenire. Non si tratta solo delle risorse finanziare, ma propriamente delle strutture. La pulizia dei fiumi, ad esempio, è in gran parte appaltata a privati su cui il controllo è spesso labile. Lo scontro, grottesco, tra il ministro Musumeci e la regione Emilia-Romagna rende evidente questa inadeguatezza perché si fonda esclusivamente sulla quantità di soldi versati, lasciando completamente da parte la capacità delle strutture di realizzare con quei soldi degli interventi che trasformino concretamente i territori.
Dunque, anche porre la questione della crisi ecologica solo sulla base della dicotomia Stato/mercato ignora questo fatto fondamentale.
Il terzo dato di fatto con cui fare i conti e che deriva direttamente dai primi due è che solo una trasformazione delle strutture, dei codici e delle priorità attorno a cui organizziamo le nostre società può renderle capaci di abitare la crisi climatica. Se in altre parole non vi è alcuna possibilità di abbandonare quello che alcuni chiamano Antropocene, e se ancora il massimo che può fare il modo di produzione capitalistico per introiettare la crisi ecologica sono i carbon market (il mezzo finanziario di acquistare possibilità di inquinare oltre i limiti), allora non resta che accettare, da un punto di vista generale, che solo la fine di questo modo di produzione della ricchezza può rendere i nostri sistemi sociali adeguati al loro ambiente.
La distanza tra questi sistemi e questo ambiente è oggi larghissima ed evidentemente ingestibile. Si tratta di comprendere al più presto che non è un danno per il pianeta, o per la Natura, che vi sia questa distanza, ma solo per i sistemi sociali – e per noi che ne siamo membri. La ripetitività di tali eventi è evidentemente un’occasione, estrema, per imporre questa trasformazione.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 20 settembre 2024