La sfida di Falcone che tolse ai mafiosi l’antica impunità

di Isaia Sales /
25 Maggio 2021 /

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GIOVANNI FALCONE

Ventinove anni dopo la strage del 23 maggio 1992 che costò la vita al magistrato, alla moglie e ai tre uomini della scorta, l’analisi della strategia attraverso la quale, al fianco di Borsellino, permise al pool antimafia di Palermo di infliggere centinaia di ergastoli ai mafiosi. E che servirebbe ora per sradicare camorra e ‘ndrangheta

Se vogliamo comprendere il ruolo che spetta a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nella storia d’Italia dobbiamo ricordare questo semplice dato: fino alle soglie degli anni ’80 del Novecento, cioè 150 anni dopo la nascita della mafia, il 99% dei processi ai mafiosi si risolveva con l’assoluzione dei capi e con leggere condanne per i subalterni. Secondo i dati forniti dal magistrato Gioacchino Natoli, dall’Unità d’Italia fino al 1992 ci furono solo 10 ergastoli di mafiosi nel distretto giudiziario di Palermo (a fronte di almeno 10.000 delitti) mentre ben 430 ergastoli saranno erogati solo tra il 1993 e il 2006. La rottura dell’impunità storica dei mafiosi siciliani è la più grande azione giudiziaria, civile, sociale, culturale nella lunga storia della lotta alla mafia. Uno spartiacque fondamentale. Una rivoluzione. Anche altri magistrati prima avevano cominciato a condannare mafiosi, ma poi negli altri gradi del processo non si riuscivano a confermare le pene. Falcone portò tenacemente avanti la sua strategia fino a cambiare il ruolo “assolutorio” della Cassazione.

L’impunità dei mafiosi si era trasformata nel tempo in immunità, cioè nella prerogativa feudale di non poter essere toccati dalla legge. Ma i feudatari dovevano questo loro potere alla nascita e allo status sociale, i mafiosi lo dovevano alle relazioni con coloro che dovevano contrastarli e sanzionarli. La loro era una impunità relazionale. Dovuta, cioè, a un atteggiamento comprensivo e accomodante di rappresentanti delle istituzioni.

Mafioso, dunque, diventa agli occhi della popolazione colui che è capace di sfuggire alla pena e alla condanna per i reati che commette, o che fa commettere, grazie alle sue relazioni e al terrore. La reputazione principale del mafioso è legata, dunque, all’impunità e non all’onore. Anzi l’onore è una costruzione basata proprio sulla capacità di sfuggire alla legge. E una volta che si è circondati dall’aureola di impunito arriva anche l’ammirazione popolare per chi riesce a farla franca. Non dimentichiamo che anche fuori dal mondo mafioso, è considerato potente colui che aggira a legge e non chi la segue e l’applica. Insomma, Falcone e Borsellino colpiscono un tratto identitario della mafia e sradicano consolidate convinzioni: una volta che si dimostra che possono essere puniti, i mafiosi si trasformano in delinquenti comuni e cominciano ad essere avvertiti come tali anche dall’opinione pubblica meridionale prodottasi con la scuola di massa, una delle più importanti rivoluzioni culturali del Sud d’Italia. E’ del tutto evidente che se la violenza omicida fosse stata stabilmente punita nel tempo dai magistrati e dalle forze di sicurezza non ci sarebbe stata nessuna mafia.

Che succede nel mondo mafioso dopo la fine dell’impunità di Cosa Nostra? O meglio, come mai la repressione di massa ha effetti così devastanti in Sicilia e non in altri regioni mafiose? Infatti, dalla seconda metà degli anni novanta del Novecento, dopo il maxiprocesso di Palermo, dopo le condanne di massa dei mafiosi siciliani e dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino, le camorre campane e le ‘ndrine calabresi hanno scalzato Cosa Nostra siciliana dal ruolo leader rivestito ininterrottamente dal secondo dopoguerra. Sono cambiate, cioè, da quel momento storico le gerarchie nell’universo mafioso. E nessuna istituzione di contrasto alle mafie aveva mai avanzato una previsione del genere, nessuno studioso della materia aveva ritenuto possibile una scalata simile.

Una spaventosa sottovalutazione ha accompagnato il divenire delle camorre napoletane e della ‘ndrangheta calabrese. Basti qui ricordare che solo nel 1993 la camorra sarà oggetto di una relazione del presidente della Commissione parlamentare antimafia Luciano Violante, mentre bisognerà aspettare addirittura il 2008 per una specifica relazione sulla ‘ndrangheta da parte del presidente Francesco Forgione. Eppure nel periodo 1970-1988, la ’ndrangheta aveva effettuato ben 207 sequestri di persone, di cui 121 in Calabria e gli altri nel Nord dell’Italia, accumulando risorse tali da consentirle di partecipare da protagonista ai lavori per la costruzione (poi abbandonata) del quinto centro siderurgico a Gioia Tauro, poi a quelli dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria e infine a ritagliarsi un ruolo da protagonista nel traffico internazionale di stupefacenti.

E’ dunque tutto da esplorare il nesso tra la strategia (perdente) di attacco allo Stato e ai suoi rappresentanti messa in campo da Riina e quella (finora vincente) delle altre due mafie. Sicuramente c’è un rapporto tra il ridimensionamento di Cosa Nostra e il successo delle altre due mafie. I riscontri di questo cambiamento di gerarchie all’interno dell’universo mafioso sono estremamente chiari: Camorra e ‘ndrangheta cumulano oggi, secondo uno studio del Ministero degli interni, ben il 67% di tutti i ricavi mafiosi. Le ordinanze di custodia cautelare dal 1992 al 31 dicembre del 2020 per il reato di 416 bis riguardano 3219 camorristi (il numero più alto in assoluto), 2800 ‘ndranghetisti (il numero più alto in rapporto alla popolazione), mentre Cosa nostra arriva a 2.193 e la criminalità mafiosa pugliese si ferma a 811. Dei 759 reclusi al 41 bis, cioè al carcere speciale per i mafiosi, 266 sono camorristi, 210 ‘ndranghetisti e 203 appartenenti a Cosa nostra: i calabresi e i campani superano il 60% del totale. Se poi si prendono in considerazione gli omicidi (ufficialmente riconosciuti) dal 1983 al 2018, la camorra ne ha commessi 3026 (ben il 45,4% di tutti gli omicidi di mafia), Cosa nostra 1701 (il 25, 5%) e la ‘ndrangheta 1320 (il 19,85) dato quest’ultimo che se rapportato alla popolazione è di gran lunga il più alto. Significativo anche il numero di scioglimenti dei consigli comunali per mafia: la Calabria è la prima (124), segue la Campania (111) e dopo la Sicilia (86). Nessuna criminalità diventa da un giorno all’altro così potente, se non ha un lungo retroterra storico, un lungo apprendimento, una lunga sedimentazione alle spalle, una lunga disattenzione o sottovalutazione degli ambienti istituzionali, delle forze di sicurezza e svariate agevolazioni da parte di chi doveva contrastarla e combatterla.

Come mai, dunque, due mafie che sembrano secondarie sono diventare primarie? E come mai sono emerse e si sono rafforzate nel mentre l’azione repressiva dello Stato si faceva più forte e abbandonava l’impunità che aveva caratterizzato un lungo passato? Provando a rispondere a questa domanda viene fuori qualcosa di sorprendente, cioè che quelle caratteristiche che sembravano differenziare in negativo camorra e ‘ndrangheta rispetto al modo di operare di Cosa Nostra si sono dimostrate invece più adatte alla sopravvivenza e all’espansione nelle mutate condizioni apertesi dopo la repressione permanente che ha caratterizzato l’ultimo trentennio. L’impressione è che il modello piramidale della mafia siciliana si è dimostrato più esposto a una repressione massiccia dello Stato, mentre i modelli organizzativi della ‘ndrangheta e della camorra, più elastici e reticolari, si sono dimostrati in grado di assorbire meglio i colpi repressivi senza intaccarne la riproducibilità.

Insomma, è indubbio che la catena repressiva è stata agevolata nella sua efficacia dal modello piramidale della mafia siciliana. Colpendo i capi della struttura di comando si è indebolita tutta la catena, cosa che invece non è avvenuto nelle altre due organizzazioni. Nel caso della camorra la frammentarietà e l’assenza di un comando unico si sono dimostrate più adatte a resistere alla repressione, la struttura organizzativa più elastica è stata capace di assorbire meglio la decapitazione dei vertici dei clan. D’altra parte, date le caratteristiche sociali di massa, la camorra difficilmente poteva darsi un modello piramidale. Per la ‘ndrangheta, invece, la struttura organizzativa basata sulla famiglia di sangue ha assorbito più efficacemente i danni delle rivelazioni dei pentiti.

Si aggiunga a ciò che la mafia siciliana è stata vittima della sua aspirazione a egemonizzare le relazioni con il mondo politico e istituzionale, mentre la camorra e la ‘ndrangheta non hanno mai coltivato un’aspirazione simile. La ricerca del monopolio del comando, la bramosia di un potere assoluto ha condotto Cosa Nostra sulla via degli attentati ai vertici delle istituzioni politiche e repressive. Ma quella scia di sangue dei “delitti eccellenti” ha determinato una reazione dello Stato che è andata ben al di là della stessa volontà di coloro che con la mafia siciliana avevano stabilito lunghe e proficue relazioni.

Dunque, Cosa Nostra ha pagato il prezzo della inadeguatezza, nel mutato quadro repressivo dello Stato, del suo modello organizzativo piramidale (di élite criminale) e la sua pretesa di dominio sulla politica, mentre camorra e ‘ndrangheta hanno beneficiato, in diverso modo, della loro modalità organizzativa originale rispetto a Cosa Nostra e della mai manifestata sete di dominio sulla politica, accontentandosi di proficue relazioni alla pari e mai di sfida aperta per l’egemonia. Quando si colpisce una élite criminale che esercita un comando centralizzato e dall’alto in basso, la possibilità di una riproposizione del fenomeno ha bisogno di più tempo per realizzarsi con la stessa pericolosità di prima. Nel modello orizzontale della camorra napoletana, basata sulla disponibilità di massa di manodopera criminale, se si colpiscono i capi non si assesta di per sé un colpo risolutivo all’organizzazione, la quale si rigenera continuamente proprio per la fluidità degli apparati di comando e per la bassa soglia di accesso alle élite. E nella ndrangheta è la famiglia di sangue a riproporrete gerarchie intaccate dalla repressione.

Secondo lo studioso Maurizio Catino i diversi modi di organizzazione tra le mafie influenzano i comportamenti, i conflitti, l’impiego della violenza e la capacità di mimetizzarsi nei mercati legali o di aderire meglio ad essi. I modelli basati su clan senza strutturazione sovraordinate sono più caratterizzati da delitti diffusi e meno da delitti politici. Camorra e ‘ndrangheta adottano un modello organizzativo più reticolare, più duttile e più congeniale a introdursi in quel confine opaco tra impresa legale e attività illegali. Forse anche in ciò consiste il loro attuale successo.

Questo articolo è stato pubblicato su Repubblica il 23 maggio 2021

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