Dall’esperienza di attivismo e insegnamento in carcere, lo studioso afro-nativo-americano John Brown Childs propone il concetto di trans-community per superare i conflitti tra comunità razzializzate attraverso l’autoformazione
Studioso e attivista afroamericano e nativo-americano, John Brown Childs ha insegnato Sociologia all’Università di Santa Cruz, e negli ultimi dieci anni nelle carceri della California. Volontario del «Prison Project» di un’organizzazione di comunità che si chiama Barrios Unidos, attiva nell’empowerment sociale, nella promozione della salute e nell’autoformazione, docente di «Peacemaking» e di «Trans-communal cooperation» nel sistema penale californiano, ha insegnato anche alla Prigione di Stato «Soledad», la prima e più vecchia della California, uno dei luoghi votati alla disciplina e alla correzione. Ma nel mezzo della dura realtà di lunghe condanne ed ergastoli, John Brown Childs vede
energie etiche creative in continua evoluzione e una intensa volontà intellettuale, tra gli uomini incarcerati coi quali lavoro. Ci offrono esempi di speranza per coloro intrappolati in situazioni corrosive di povertà, strade a fondo chiuso, violenza e dislocamento economico che impatta così tante comunità rurali e urbane (Peace teachers in and from California’s Soledad Prison, in A Transcommunal Cooperation News, April 7, 2016).
Conobbi John trent’anni fa, quando era docente alla University of California in Santa Cruz. I suoi avi erano stati schiavi: da una parte africani del Madagascar e dall’altra nativi-americani del Ponkapoag, la tribù della «grande collina e dolce acqua» (Big Hills-Sweet Water) che ancora resiste nel Massachusets e della quale John Brown è membro ufficiale. Come racconta, i fiumi impetuosi di queste due culture, afro-americana e nativa-americana, si incontrano nel suo sangue – come avvenne ancor prima tra le e gli avi della sua genealogia. In Abya Yala – antico nome dell’America del nord oggi impiegato in una prospettiva decoloniale – scavare nella storia delle proprie origini non è una mania da appassionati di araldica o dinastie ma un tema ricorrente fra la popolazione nera; trovare le proprie radici come ha fatto John Brown è un fatto non comune, e ne esce una narrazione affascinante.
Da una ricerca cimiteriale scopre che otto generazioni prima una sua antenata afro-malese conosciuta come «Principessa» prende parte a una delegazione che dal Madagascar è diretta in Francia. Ma la nave viene assalita da pirati inglesi e la preziosa nobildonna venduta come schiava a un membro del governo del North Carolina, Thomas Burke, che la regala alla moglie nel giorno del matrimonio. Qualcosa ci fa supporre che tale dono nunziale, la nonna della nonna della nonna della nonna di John Brown Childs, non si piegò alla servitù domestica: viene pertanto inviata a lavorare nelle piantagioni della Virginia dove le comunità di schiavi la riconoscono come regina. Più avanti sarà trasferita con i suoi figli in Alabama, i e le sue discendenti resteranno in quello stato per sei generazioni. È lì che il nonno di John Brown, James Childs decide di dare a suo figlio come nome di battesimo quello di John Brown, il grande rivoluzionario che donò la vita nella lotta contro la schiavitù. Poi, alla fine della guerra civile, grazie all’abolizione della schiavitù, nonno James e famiglia estesa costruiscono una forneria; e con altri nove schiavi appena liberati mettono in piedi la prima scuola afro-americana del paese, la Lincoln Normal School – i cui insegnanti vengono alloggiati in un edificio espropriato al Ku Klux Klan. Posso solo immaginare l’inaugurazione della scuola: musica, dolci, abiti della festa e un efficace sistema di autodifesa – alquanto necessario in una zona ancora oggi infettata dal suprematismo bianco.
Alexis de Tocqueville (1835) nei suoi famosi scritti sulla Democrazia in America, ancora oggi acriticamente insegnati nelle università, indicava Neri e Indiani d’America come due «razze infelici» mentre nella scrittura di John Brown Childs le sue due eredità afro-americana e nativa-americana, quell’intreccio di duecento anni che lo ha messo al mondo, non è rappresentato solo come propria base genetica, familiare e sociale, ma è anche il metissage di due spiriti: «Io sono un uomo che sta in piedi nel ‘luogo fra due forti correnti’». Tale luogo, ovunque si trovi, si chiama in lingua nativa newichewannock.
Senza quelle due correnti non ci può essere quel luogo – che è reale e completo in sé stesso. Nello stesso modo io emergo non come un essere biforcato ma come un essere integro, compiuto, dalla forza delle due correnti africana e nativa-mericana. È questo newichewannock che marca il luogo del mio spirito e che mi propelle oggi. (Red Clay, Blue Hills. In Honor of My Ancestors, pubblicato sulla rivista Racism e ripubblicato nel suo libro Trans-communality, Temple University Press, 2003).
John Brown Childs ha sempre mantenuto contatti stretti con le proprie radici e lottato contro le ingiustizie già ai tempi della segregazione, quando erano in vigore le leggi Jim Crow che separavano socialmente gli spazi dei bianchi da quelli dei neri. Dal 1960 al 1964 frequenta la University of Massachusetts dove inizia a organizzare gruppi per partecipare alla «March on Washington for Jobs and Freedom» alla fine della quale Martin Luther King pronunciò il suo celebre discorso «I Have a Dream». Fa parte anche di Students for a Democratic Society (Sds) che si mobilita contro la guerra in Vietnam e per la giustizia economica. Da laureato rientra in Alabama per sostenere le azioni del Sncc (lo Student Nonviolent Coordinating Committee) anti-segregazione e per il diritto al voto del popolo afro-americano. Negli anni Settanta ottiene un Ph.D in Urban Anthropology alla State University di New York in Buffalo. Poi inizia la sua carriera insegnando alla Yale University nel dipartimento di Afro-American Studies and Anthropology.
Quando lo incontro, nel 1990, insegna «Teoria e Metodo» al Dottorato di Sociologia della University of California in Santa Cruz, con un approccio molto partecipativo, nel Dipartimento ove era docente anche il fondatore dell’eco-marxismo, James O’Connor mio mentore con il sociologo ebreo Walter Goldfrank, un dipartimento molto bianco, che aveva aperto con grosse resistenze all’approccio intersezionale – allora denominato cross road – che si opponeva alla gerarchizzazione della dimensione di classe sulle altre forme di oppressione, principalmente razza/etnia e genere, considerate secondarie dai marxisti tradizionali accademici. Per John Brown Childs, che aveva sempre combinato lavoro universitario e politico, il passaggio da professore ordinario ad attivista a tempo pieno è l’epilogo naturale del suo percorso. Nel 2010 inizia a insegnare regolarmente nelle carceri, e durante il lockdown, mentre rileggo il suo lavoro, gli pongo alcune domande via e-mail a cui risponde con la consueta solarità, partendo da quali sono stati i concetti più utili nel suo attivismo.
Lessi con interesse i Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. In particolare La questione meridionale ha importanti implicazioni con la situazione degli afroamericani negli Stati uniti. Il concetto di «intellettuale organico» mi aiuta nel lavoro in prigione, dove molti degli uomini incarcerati coi quali lavoro incorporano questo concetto. Mi vedo come un estimatore di Gramsci. Anche il saggio che Martin Luther King scrisse alla fine della sua vita The World House– dove parla della povertà e del militarismo come corrosivi per l’umanità – mi ha influenzato: pensa che venne ucciso proprio quando cominciò ad avere una visione globale e opporsi alla guerra nel Vietnam… E poi mi hanno ispirato Ella Baker, fondatrice e spirito guida del movimento studentesco per i diritti civili e di voto del popolo nero, come pure Frantz Fanon e Kwame Nkrumah, sul versante anticoloniale. Quando tornai in Alabama nel 1965 erano tempi molto pericolosi: i componenti del Sncc e i loro alleati venivano «sparati», le Black Churches erano bersagli per le bombe dei razzisti, e le manifestazioni venivano schiacciate nel sangue. Ma noi abbiamo perseverato e abbiamo ottenuto vittorie costituzionali e il diritto al voto. La battaglia continua ancora oggi (Intervista personale).
Un momento che segna un cambiamento importante nell’impegno politico di John Brown Childs è il 3 marzo 1992 quando scoppia una rivolta a Los Angeles per l’ennesimo caso di brutalità poliziesca contro un afroamericano: Rodney King, autore e attivista, viene fermato e picchiato da uomini in divisa, ma per la prima volta, da un balcone, una videocamera amatoriale riprende la scena proprio in quel momento; e ben prima di Internet, diventa «virale», trasmesso in tutte le televisioni di Abya Yala, e poi del mondo.
Ma nei giorni successivi, durante il riot di Los Angeles, non si assiste a un movimento unitario contro il razzismo, si evidenziano i conflitti tra le diverse comunità; neri, latinos, asiatici non protestavano uniti contro la supremazia bianca e la discriminazione che li opprime: alla fine scaricavano la loro rabbia gli uni sugli altri, contro i negozi dei coreani, contro gli immigrati messicani, contro la gang del quartiere accanto. Quell’evento è un punto di svolta per John Brown Childs che partecipa a forum e incontri, dove propone il concetto e la pratica di «Transcommunality» – accettando la sfida dell’armistizio tra le comunità come una situazione che diventi permanente, per trovare una via di uscita alla guerra fra poveri. Ci deve essere un modo per risolvere i conflitti tra le comunità, le gang giovanili, le diverse etnie e culture che si sono trovate a coesistere forzatamente nello stesso luogo.
Durante l’estate John Brown partecipa anche al Meeting della Tregua, la «Peace and Justice Gang Truce» in Kansas City, un passo importante per il dialogo trans-community e ne scrive un articolo per Z Magazine ( The value of transcommunal identity politics. Trans-communality and the Peace and Justice Gang Truce in Kansas City, Z Magazine 7). All’inizio degli anni Novanta le identity politics andavano molto di moda ma lui forse è tra i primi a percepirne i limiti e le problematiche di cui oggi abbiamo piena contezza – parla di identità collettive fondate su bisogni materiali e sete di giustizia, foriere di alleanze intersezionali trans-etniche, trans-culturali, inter-razziali, fra le diverse tribù o «nazioni» – alleanze che possono coinvolgere anche coloro che nel marxismo tradizionale venivano considerati esterni alla classe, ovvero il sottoproletariato e le sue organizzazioni invisibili.
La rivolta di Los Angeles segna un punto di non ritorno anche nelle relazioni con i bianchi. Alcuni partecipano alle mobilitazioni e vengono indicati da certi media come traditori della razza bianca: Race Traitor è il nome che prende una rivista della sinistra il cui primo numero esce nel 1992 con una foto significativa del riot di Los Angeles che si vede nell’immagine di apertura di quest’articolo. Ma la partecipazione dei bianchi è un fatto ancora marginale, e certamente la guerra tra le cosiddette gang rappresenta il centro del dibattito: ancora una volta davanti alla violenza dei bianchi la risposta era stata quella dell’oppressione interiorizzata, dell’auto-odio fra neri e fra minoranze discriminate, dell’attribuzione di disvalore verso coloro che abbiamo al nostro fianco, invece della ricerca delle cause e di un confronto sincero e pacifico con altre comunità, con le quali è possibile e necessario creare alleanze. Per l’approccio teorico e pratico trans-community di John Brown Childs, nasce nel 1992 un’occasione importante di dibattito, incontro e messa all’opera.
Rodney King, sopravvissuto al pestaggio della Polizia di Los Angeles, si chiedeva: non possiamo andare d’accordo gli uni con gli altri? Questo è il tema del mio lavoro sulla «Transcommunality» che ha avuto molto successo nella prigione di Soledad. Gli uomini con cui lavoro sono Asian-American, African-American, White American, Native Americans (o American-Indians). Vengono da aree urbane dove diverse «gangs» o, come le chiamano, «nations» sono in guerra le une con le altre. Di solito tale tensione si manifesta anche in prigione, e Soledad non è un’eccezione. Ma gli uomini che partecipano ai corsi di Transcommunality hanno superato queste differenze e lavorano insieme con rispetto su progetti educativi positivi (Intervista personale).
Un bellissimo esempio dell’energia positiva e creativa di cui scrive John Brown Childs scaturisce proprio dall’incontro di uomini di diversa appartenenza etnica/razziale, culturale e religiosa che presero l’iniziativa di sviluppare a modo loro il corso di «Peacemaking» formando il Gruppo Culturale «Cemanahuac» – parola indigena messicana di lingua Nahautl che significa «One World» «un mondo», e ci ricorda l’unità degli esseri viventi col pianeta. Molti ex studenti di John Brown nella prigione di Soledad sono diventati insegnanti di un crescente numero di studenti. L’obiettivo delle classi in carcere, per come scritto nel syllabus del programma didattico autogestito, è la pace, ovvero la coesistenza e la cooperazione tra le varie comunità; una pace intesa come «mutuo rispetto e tolleranza», così come è un obiettivo «il riconoscimento e l’apprezzamento del valore delle diverse culture».
Il gruppo «Cemanahuac» lavora sulla nonviolenza e su pratiche di trans-comunità: un sentimento che è cresciuto in questi decenni grazie anche al lavoro di John Brown Childs. «Guerrieri per la Pace» è il modo in cui si autodefiniscono: sia dentro che fuori la prigione, lottano anche contro sé stessi e i propri privilegi di genere, contro il maschio violento che si portano dentro. Infatti il cambiamento, sostiene uno dei detenuti che John Brown cita, «non può succedere solo nella testa degli uomini… dobbiamo avere gender peace in social justice … La violenza degli uomini contro le donne tradisce il vero significato di armonia e giustizia» (Peace teachers in and from California’s Soledad Prison, in A Transcommunal Cooperation News, April 7, 2016).
Uno dei miei studenti di Soledad, uno che osserva il comportamento umano, dice che «dentro ogni prigione ci sono linee di divisione tra coloro che costituiscono la popolazione carceraria. Queste classi [di trans-community] riescono a sfidarci, a rompere questi muri di Berlino fra prigionieri, che sono linee di divisione razziali». Lui attribuisce il periodo di pace a Soledad al cambio di mentalità che queste classi hanno prodotto. Il cambiamento nella coscienza sociale aiuta ad aprire gli spazi a momenti che consentono una interazione costruttiva tra gente diversa che ha affiliazioni e culture diverse (Ibidem).
In carcere si tratta di ragazzi e uomini che hanno ispirato successi letterari come Always Running: La Vida Loca. Gang Days in LA e film come American Me, ma sono sempre stati gli operatori di stato o religiosi a occuparsi di loro al di là delle mura, mentre l’attivismo politico-sociale si fermava alla soglia del carcere offrendo solidarietà ma senza cogliere appieno il valore epistemologico di un’esperienza di studio riappropriata e risignificata, dell’autoformazione, del prendersi cura di sé insieme alle altre soggettività in carcere.
Secondo John Brown Childs, attraverso parole e fatti il gruppo «Cemanahuac» produce risposte positive e rilevanti ai quesiti posti mezzo secolo fa da attiviste come Ella Baker nel 1969, nel pieno della lotta per i diritti civili del popolo afroamericano: «La vera domanda è ‘cosa è la società americana, è il tipo di società che permette alla gente di crescere e svilupparsi a seconda delle proprie capacità, che da un senso di valore non solo per sé stessi ma anche per gli altri esseri umani?» (Ibidem).
La risposta sta nel processo di trasformazione innescato da questi Peace Warriors, continua John Brown Childs, ed è positiva rispetto al quesito posto da Ella Baker: «possiamo contribuire a rendere gli Stati uniti un luogo di questo tipo» perché i corsi che John Brown insegna decostruiscono proprio le «radici bianche della pace» e studiano «la risoluzione dei conflitti per come si attua nelle comunità native-americane, e leggono le idee di Martin Luther King e Ghandi», non certo declinate al pompieraggio dei movimenti sociali, ma come contributi a una politica non-violenta all’interno e trans-community, praticando l’autogestione, l’autogoverno. Si tratta per noi di un esempio diverso di «carcere scuola di rivoluzione», dove non sono coloro che hanno studiato, i prigionieri politici, i laureati, a insegnare ai detenuti comuni, ma sono proprio questi in prima persona ad auto-organizzarsi e prendere in mano il proprio destino sociale e politico.
I Guerrieri per la Pace «Cemanahuac» si assegnano compiti rigorosi, temi e letture per le discussioni di gruppo, dando un esempio concreto di come la diversità di prospettive possa essere praticata in sicurezza e produrre consapevolezza: ogni studente nella classe è responsabile di fare analisi e presentare i propri pensieri su un tema chiave in ogni incontro. Ognuno contribuisce a creare modalità nuove e utili per l’interazione, attraverso il consenso e il dissenso costruttivo – entrambi di grande aiuto per l’apprendimento.
L’entusiasmo per lo studio e una forte etica del lavoro li mette al pari con i migliori studenti che ho avuto a Yale, Harvard, ad Utrecht e alla Università di California. I loro sforzi sconfiggono gli stereotipi negativi e l’impatto della vita di prigione, mentre disegnano nella pratica cammini per la crescita personale e sociale (Intervista personale).
Un ex allievo di John Brown ora vive al confine col Messico e organizza case per dare un primo sostegno a coloro che vengono rilasciati dalle prigioni utilizzando i principi di trans-community per creare relazioni di successo tra ex prigionieri di lingua inglese e spagnola, mentre cercano un lavoro dignitoso. Un altro lavora con gli ex-soldati che rientrano dalle troppe guerre – in gran parte sono black and brown – psicologicamente provati e spesso incapaci di tornare alla vita di prima, al lavoro, alla famiglia, diventano homeless, alcolisti, e finiscono in galere per risse o reati di tipo economico. Un altro ex studente di John Brown oggi lavora come educatore con i giovani delle grandi città che vogliono «fuggire dalla follia delle strade violente» ed evitare la droga e il carcere. «La storia della prigione di Soledad e di molte altre, offre un incoraggiamento al potenziale della gente che si trova in circostanze difficili e pericolose, per costruire ponti nello spirito umano attraverso i quali possono essere create comunità piene di rispetto, ragione e compassione» (Ibidem).
Nel suo libro sulla Trans-communalità, John Brown Childs sostiene che nessun gruppo etnico o sociale, per quanto marginalizzato e oppresso, ha bisogno di forze esterne che lo organizzino e narra del movimento per i diritti civili che fin dal suo inizio ha potuto contare su forme organizzative interne pre-esistenti, facendole crescere nella direzione voluta. Non è auspicabile che attivisti bianchi – che solitamente agiscono, seppur in maniera irriflessa, sulla base di un’assunzione di superiorità – vadano a insegnare come si fa politica, poiché ciò viene percepito come una manifestazione di supremazia. Forme di cross-fertilization o di arricchimento reciproco sono invece necessarie, nel mutuo rispetto e nel riconoscimento delle diversità. John Brown Childs sottolinea come un alto grado di rispetto sia indispensabile per il lavoro trans-community, che può essere intermittente, fatto di momenti di grande impegno e relativo disimpegno (step-in e step-out), ma in alcun modo può rappresentare uno step on, un calpestamento di altre soggettività.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 24 gennaio 2021