Il caso dei giornalisti, padre e figlio, protagonisti della polemichetta tutta al maschile secondo cui il problema non sarebbe il sessismo ma la sua denuncia, ci interroga su quale sia il linguaggio più efficace per contrastare la violenza di genere.
Del caso si è parlato molto: un noto commentatore reazionario scrive, a ridosso della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, un editoriale in cui si insinua che la giovanissima vittima di un recente e particolarmente efferato episodio di violenza sessuale se la sarebbe cercata. Un’esponente politica nota per le sue campagne contro la violenza sulle donne e per essere stata anch’ella vittima di infiniti attacchi verbali sessisti scrive un post per il blog che tiene da quasi un decennio sul sito di un quotidiano online, includendo un breve riferimento critico, peraltro piuttosto pacato, all’editoriale citato. Il direttore della testata online, figlio del commentatore di cui sopra, le domanda di omettere il riferimento per non creargli problemi familiari, pena la mancata pubblicazione del post. La deputata si rifiuta, la testata online non pubblica il contributo e lei rende nota la vicenda.
Poteva finire così, ma il figlio del commentatore sostiene di essere stato trattato scorrettamente, aggiungendo che la deputata non avrebbe nulla di cui lamentarsi perché i direttori di testata decidono da sempre cosa pubblicare e cosa no. Colleghe e colleghi influenti si schierano con lui, alcune e alcuni lo criticano, il presidente dell’Ordine dei Giornalisti prende le distanze dal suo comportamento e viene per tutta risposta attaccato con fare canzonatorio dal di lui padre e da testate a questi vicine.
Nel caso dell’attuale commentatore reazionario un approccio che provi a confutarne le premesse o il modo di argomentare sarebbe sommamente inefficace, se non controproducente: le sue prese di posizione sono note non per contenere qualcosa che somigli alla difesa di una tesi, ma sono ciò che potremmo definire come una sorta di analogo verbale della smorfia, del gestaccio, del fischio rivolto a una ragazza che passeggia per strada. Chi le legge abitualmente non credo lo faccia per ricevere notizie o analisi illuminanti – piuttosto immagino ne ricavi la sensazione rassicurante che deriva dall’ascolto di un motivetto familiare, o dal suono della risata sguaiata di un amico. Opporre a questo peculiare tipo di comunicazione una falsificazione che faccia riferimento a dati empirici o verificarne la coerenza logica sarebbe come rispondere con una sonata al latrato di un cane: produrrebbe uno straniamento, un’incomprensione buffa e magari pericolosa, ma niente di più. In un certo senso, si tratta del punto di forza di una tale modalità espressiva: non si può dire della pernacchia di un bambino che violi il principio di non contraddizione, o dell’urlo della curva di uno stadio dopo un gol che non rispetti determinati canoni lirici.
Come se non bastasse, la possibilità di obiettare nel merito viene messa ulteriormente fuori gioco anche da una exit strategy sempre disponibile, che il nostro commentatore non mancava di mostrarci concretamente all’indomani dell’intervento incriminato: sostenere che si è stati fraintesi, che si è voluto leggere nelle proprie parole un sottotesto che non c’era. Peccato che poche ore prima avesse egli stesso difeso sui social network la sua posizione iniziale, rincarando anzi la dose: «Se una ragazza va tre volte a casa e nella camera da letto di un drogato maniaco sessuale cosa si aspetta? Il premio della bontà?». L’inversione di causa ed effetto è palese (il «maniaco» si sarebbe scoperto tale dopo la violenza subita, non prima), così come lo è l’estraneità di tutto il discorso alla giurisdizione della logica.
A rendere le parole ermetiche, prima ancora dell’autore, è il destinatario: il gesto del commentatore acquisisce una compiuta decifrabilità se è rivolto a un ricevente che in qualche modo lo raccoglie – ciò che rende molesto il fischio indirizzato a una passante è proprio l’arroganza del presupporre una reattività da parte sua, un’interpretazione specifica che trasformi quel suono in una manifestazione a lei gradita di interesse sessuale o perlomeno visuale.
Il nostro commentatore, come da copione, sembra quasi non capire la sua stessa tecnica: «Quanto alla povera ragazza mi domando: entrando nella camera da letto dell’abbiente ospite, cosa pensava di andare a fare, recitare il rosario?». L’interrogativo, a ben vedere, non è rivolto né a sé stesso né alla ragazza – semplicemente perché quest’ultima, diversi giorni prima, aveva già risposto per il tramite del proprio avvocato. Era già stata due volte a delle feste nell’appartamento dove si sarebbe poi consumata la violenza (il commentatore stesso dimostrava qui sopra di saperlo), senza però avvertire segnali di pericolo (nelle medesime occasioni sarebbero peraltro stati presenti alcuni personaggi celebri per motivi non strettamente legati alla recitazione di rosari, come lo chef Carlo Cracco). Quindi no, non si attendeva delle orazioni, ma neanche di essere drogata, immobilizzata e seviziata per circa venti ore. A scanso di equivoci, dichiarava: «Di certo non me la sono andata a cercare» – anche perché il sesso in mancanza di consenso, per definizione, non si può andare a cercare (una nozione talmente banale che persino certi editorialisti dovrebbero conoscerla). Un ultimo elemento: da quanto espresso dal suo legale, la giovane ha manifestato la propria rabbia per la copertura ossessiva, e talvolta colpevolizzante nei suoi confronti, che la storia ha ricevuto dai media. Dettaglio che evidentemente non ha fermato qualcuno dal fare battutine da ultimo banco sulla sua presunta «ingenuità».
La domanda retorica dell’editorialista, tramutatasi in occhiolino complice, risulta comprensibile soltanto al suo pubblico. Al totale fraintendimento del fatto di cronaca in oggetto si accompagna come un cenno del capo che prende la forma di un «a parte». Parlo di forma perché le intenzioni del commentatore nel caso dell’articolo in questione sono del tutto irrilevanti, dato che si pongono all’interno di una struttura retorica che reitera inevitabilmente una tipica dinamica sessista. La struttura retorica a cui mi riferisco è una variazione di quella che Du Bois vedeva all’opera nel salario della bianchezza, cioè in quella forma di compenso indiretto, di natura sia pubblica che psicologica, che i lavoratori «autoctoni» ricevevano negli Stati uniti del diciannovesimo secolo in contrapposizione a quelli ritenuti non-bianchi (il salario propriamente detto poteva essere misero, ma l’orgoglio di sentirsi superiori ai neri o agli immigrati italiani lo accresceva sul piano simbolico). Potremmo parlare, analogamente, di un salario della maschilità – del quale la semplice identificazione come maschi assicuri il godimento.
Rientrano in tale salario un certo numero di convincimenti, come quello che la violenza di genere non sia un vero problema sociale – o che perlomeno non lo sarebbe se le donne non fossero più «ingenue» o naturalmente vulnerabili degli uomini. Non è un caso che in una sua recente apparizione televisiva il nostro commentatore avesse dichiarato che un uomo che partecipi a un rapporto sessuale non potrebbe mai farlo in modo non consenziente, in virtù delle caratteristiche dei propri genitali (avallando così una credenza che è stata dimostrata completamente falsa da lungo tempo). In quella situazione, il salario della maschilità finiva per diventare una variante particolarmente grottesca del vecchio convincimento sull’«anatomia come destino», obsoleto già ai tempi di Simone de Beauvoir.
Sarebbe tuttavia un errore, dicevamo, pensare di poter intervenire in questo dibattito principalmente al livello del sapere scientifico: come ci suggerisce Paula Ioanide, la politica emotiva del sessismo, non meno di quella del razzismo, tende a non venire scalfita dalla mera presentazione di evidenze di segno opposto. Il meccanismo del salario psicologico rende infatti certe convinzioni discriminatorie oggetto di un considerevole investimento identitario, senza il quale chi le detiene si troverebbe del tutto disorientato. Provate a togliere il maschilismo a un uomo che lo esercita regolarmente, dicendogli che tutto a un tratto venire identificato come maschio non è più un elemento intrinsecamente positivo, ma neutro: quanto dovrebbe mutare la sua percezione di sé stesso e del mondo, se volesse darvi retta?
Contrastare quella che da decenni viene chiamata mitologia dello stupro (l’insieme delle false credenze etero-patriarcali diffuse sulla violenza sessuale) mostrando che appunto di miti si tratta, che la loro diffusione rende più complessa l’applicazione delle norme contro la violenza sessuale e meno facile la percezione e il superamento da parte delle vittime del crimine subito è perciò necessario, ma assolutamente non sufficiente. Tanto più che chi è convinto della veridicità della mitologia dello stupro tende ad applicare pregiudizi analoghi anche ad altri ambiti (razza, classe, età), cosa che rende la loro repentina sparizione ancor più improbabile. Come muoversi per contrastare retoriche di questo tipo, allora? Dobbiamo rassegnarci alla presenza nel dibattito pubblico di urla immonde, o illuderci che non possano avere alcuna influenza sulla società?
Credo che un primo passo potrebbe consistere nel porre la sfida sul loro stesso terreno, quello di un linguaggio che non si dia come immediatamente argomentativo – stavolta non per scavalcare la dimensione empirica o logica di una discussione, ma per restituire la fatica dei segni linguistici nel definire l’esperienza profondamente traumatica che è spesso uno stupro. Parlare della violenza, verbalizzarla, interrogarla non sono processi semplici, o automatici. Si confrontano sempre con uno scarto, un resto di indicibilità che ci riporta al fatto per cui, se pure molte espressioni di violenza patriarcale sono tragicamente simili fra loro, nessuna è del tutto uguale a un’altra. La poetessa Cynthia Cruz scrive in proposito della differenza fra parlare di qualcosa (about) e parlare intorno a qualcosa (around) – un’eterna rotazione attorno al cuore del discorso, anziché l’illusione di potersene appropriare una volta per tutte.
Nei suoi Saggi sul silenzio, Cruz prende l’avvio da un ricordo personale: il gesto di un bambino che teneva la bocca perennemente spalancata ma non proferiva parola, all’interno dell’orfanotrofio di una città sotto assedio. Camminava muto per le stanze della struttura, «il volto congelato in una maschera di orrore». Era probabilmente quella l’espressione che aveva assunto di fronte a un evento traumatico, che non riusciva ancora ad articolare verbalmente. L’intuizione di fondo è che l’incapacità di prendere parola in situazioni del genere sia non assenza di linguaggio, ma una parte di un linguaggio separato che tende a esprimersi in forma somatica – per esempio tramite balbettii, disordini alimentari, dipendenze. I saggi di Cruz costituiscono una riflessione intorno a simili esperienze e al contempo un mai del tutto compiuto moto circolare di avvicinamento verso quelle che ha vissuto in prima persona.
Nell’ultimo capitolo l’autrice rivela di essere stata stuprata più volte quando aveva undici anni. Lo fa con la consapevolezza della vittima ma senza mai interpretare il torto subito alla stregua di un’eterna condanna – affermando anzi a un certo punto che i piccoli ma costanti episodi di umiliazione vissuti perché cresciuta in povertà hanno influenzato la sua esistenza più degli abusi sessuali, conclusisi in un breve lasso di tempo. In entrambi i casi, occorsero molti anni per iniziare a trovare le parole – la prima reazione fu un gesto, un discorso silenzioso che si iscriveva sul corpo. L’anoressia fu per Cruz un modo per creare una distanza fra sé stessa e l’uomo che l’aveva violentata, così come fra sé stessa e il mondo che la disprezzava perché povera: quello spazio «era una specie di segnaposto nel quale ciò che [desiderava] davvero risiedeva». L’analisi impietosa della sua anoressia impressiona perché racconta come essa sia stata al tempo stesso e in maniera inscindibile una reazione potenzialmente autodistruttiva in cui non c’era assolutamente niente di romantico e una forma di resistenza, un grido muto ma non per questo meno assordante. Quella di Cruz nei Saggi sul silenzio è in ultima istanza la ricerca di una politica del gesto che sia il meno dannosa possibile per chi la pone in atto – una politica della quale la sua scrittura abrasiva è già un primo esempio.
Assistere, da lettore maschio cisgenere, alla lotta con il linguaggio ingaggiata (e mai del tutto vinta) da Cruz per dare ragione di quanto di più irragionevole si possa immaginare, degli abusi subiti da ragazzina, è come ricevere uno schiaffo che sposta di alcuni gradi il proprio campo visivo, facendo apparire dettagli che ci si era allenati a non mettere mai a fuoco. Il gesto – biografico e letterario – della poetessa risulta così immensamente più ampio e umano dei gestacci e del lessico da orinatoio di chi sminuisce determinati vissuti di sofferenza nel dibattito pubblico che viene da domandarsi se i due fenomeni coesistano davvero nello stesso mondo. Dare spazio alle infinite testimonianze, ai racconti di donne intorno a violenze tutte irriducibilmente uniche eppure scaturite da modalità di oppressione tanto simili, sollevandole dalla necessità di scavare quello spazio dentro o su di sé: mi sembra questo il modo migliore per contrastare la studiata assenza di argomenti di un certo sessismo contemporaneo.
Di fronte a tutto questo, l’aspirazione a volersi risparmiare una discussione in famiglia (lo stesso contesto dove avviene la maggior parte delle violenze sulle donne) appare per quello che è: comica. I figli, si sa, hanno la legittima aspirazione di fare meglio dei padri – in questo caso, di usare delle argomentazioni. Argomenti però fragili: la linea editoriale per cui un direttore dichiara «non parlo mai in pubblico di mio padre e non voglio che se ne parli sul mio giornale» produrrebbe, se applicata sul serio, conseguenze assurde. Il padre in questione è stato in lizza per la presidenza della repubblica, qualche anno fa: se lo fosse di nuovo in futuro, il quotidiano non darebbe la notizia? In modo più sottile, la premessa di un ragionamento simile è che il genitore in oggetto non possa mai fare nulla di grave – quale plausibilità avrebbe il medesimo approccio se si scoprisse che il padre di un direttore è stato parte di una grossa organizzazione criminale? Difese non solo deboli, ma tendenziose: come notava Jennifer Guerra, su quel quotidiano affermazioni elogiative dell’anziano commentatore sono state riportate senza problemi anche sotto la direzione del figlio, mentre a quanto pare le critiche hanno vita più difficile.
L’aspetto personale, da polemichetta tutta al maschile, è qui più che mai trascurabile – il tema è la violenza patriarcale e il suo ruolo strutturale nella società. Si rilassi pure il direttore-figlio: nessuna accusa per lui oggi (anche perché le accuse di sessismo, dice con il lessico bellico tipico di chi le guerre ha la fortuna di non averle combattute, «sono il napalm dei nostri tempi»). Lasciamogli piuttosto il tempo di ragionare sulle proprie metafore, secondo le quali l’arma di distruzione di massa sarebbe non il sessismo, ma la sua denuncia. Inondiamo educatamente la sua redazione e la sfera pubblica delle testimonianze di Cynthia Cruz e delle innumerevoli donne che hanno raccontato, anche solo con un gesto. Pratichiamo, soprattutto, l’alternativa, riscoprendo l’arte del litigare su temi politici nelle nostre famiglie (con chi si dovrebbe litigare, se non con le persone a cui si tiene?). Si tratta non a caso, ci ricorda Sara Ahmed, di un’arte tutta femminista: le femministe non accettano di conformarsi al galateo dell’oppressione che le vorrebbe discriminate e sorridenti, ma guastano la festa, mettono in dubbio l’idea stessa che in un luogo sessista possa esserci qualcosa che valga la pena festeggiare.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 3 dicembre 2020