Se la polizia evita ancora una volta di fare i conti con l’eredità del G8 di Genova

di Lorenzo Guadagnucci /
5 Novembre 2020 /

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Due funzionari condannati per le torture alla Diaz sarebbero stati promossi dal capo della polizia Gabrielli e dalla ministra dell’Interno Lamorgese. La decisione conferma un triste passato: l’Italia continua a non applicare le prescrizioni della Corte di Strasburgo e non ha affatto superato lo choc del luglio 2001. Il commento di Lorenzo Guadagnucci, giornalista, vittima delle torture alla Diaz.

Amnesty International, esprimendo sdegno, ci informa  che due funzionari di polizia condannati nel processo Diaz sono stati promossi al ruolo di vice questore. Non ci sono altre notizie disponibili: né comunicati ufficiali, né informative ufficiose tramite la stampa “amica”. La polizia di Stato, ancora una volta, preferisce l’opacità. Ed evita di fare davvero i conti con la pesante eredità del G8 di Genova, quando la credibilità delle nostre forze dell’ordine è precipitata in un abisso di abusi e menzogne senza più risollevarsi.

Il processo Diaz, è bene ricordarlo, è costato all’Italia pesanti condanne davanti alla Corte europea dei diritti umani. Nel 2015 i giudici di Strasburgo hanno scritto parole chiare e umilianti: alla Diaz fu praticata la tortura e lo Stato italiano non ha saputo dare una risposta adeguata a tale caduta di legalità né in termini giudiziari, nonostante la condanna di 25 funzionari e dirigenti, né sul piano professionale e amministrativo. È mancato, secondo i giudici, un vero sforzo di prevenzione. La Corte, in particolare, ha ricordato all’Italia la necessità di sospendere gli imputati durante la fase processuale e di rimuoverli in caso di condanna. Sul punto l’Italia è gravemente inadempiente. Non ha sospeso a suo tempo gli imputati, garantendo anzi a processi in corso inopinate promozioni ai dirigenti di grado più alto, e tanto meno ha rimosso i condannati.

Queste nuove promozioni, se confermate, marcano una scelta di continuità: l’Italia del capo della polizia di Stato Franco Gabrielli e del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, come l’Italia di altri capi di polizia e altri ministri dell’Interno dal 2001 in poi, non ritiene di dover applicare le prescrizioni della Corte di Strasburgo. In qualche modo, senza dichiararlo, si pone fuori dal perimetro della Convenzione europea per i diritti umani, approvata solennemente nel 1950 e sottoscritta da 49 Paesi.

Tre anni fa lo stesso Gabrielli, con Marco Minniti al Viminale, nominò vice direttore della Direzione investigativa antimafia -un ruolo quindi di grande prestigio ed enorme responsabilità- un altro dei condannati nel processo Diaz, Gilberto Caldarozzi, al termine dei cinque anni di sospensione dai pubblici uffici e dopo otto mesi di arresti domiciliari. Spiegò di avere rispettato tutte le procedure di legge ma l’Italia non ha mai dato una risposta alla Corte di Strasburgo sulle mancate rimozioni e sui mancati procedimenti disciplinari. E in quel caso, visto il ruolo assunto da Caldarozzi, si poneva anche un’evidente questione di opportunità, che Gabrielli finse di non comprendere.

Nell’estate del 2017 il capo della polizia, in una reclamizzata intervista, definì la gestione del G8 di Genova una “catastrofe” e disse che al posto di Gianni De Gennaro, capo della polizia in quella tragica estate del 2001, si sarebbe subito dimesso. Gabrielli pensava in questo modo di “mettere un punto” al caso Genova G8 ma le sue decisioni, come le sue reticenze, vanno in direzione contraria e confermano le scelte compiute in precedenza. L’Italia del 2020 non ha affatto superato lo choc del luglio 2001 e le forze dell’ordine non hanno recuperato la credibilità perduta nelle strade, nelle caserme e nelle scuole di Genova.

Questo articolo è stato pubblicato su Altreconomia il 3 novembre 2020

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