Quei riti che ci aiutano a non finire in un buco nero

di Nicola Lagioia /
1 Novembre 2020 /

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Sfiderei all’occorrenza l’Unione europea, ma non consiglierei di fare la stessa cosa con Sofocle, che di tragedie e pestilenze se ne intendeva. La decisione governativa di chiudere indiscriminatamente cinema, teatri, sale da concerto e tanti luoghi di cultura questa volta credo sia sbagliata e mi fa paura. Mi fa paura perché sembra lontana dal pieno controllo della razionalità che dovrebbe risplendere su queste soluzioni, e mi sembra sbagliata per almeno tre ragioni importanti. Ho apprezzato l’operato del governo fino a prima dell’estate: garantire la coesione sociale, evitare il disastro sanitario, non perdere una battaglia complicata in Europa. Non era semplice. Ma è il secondo tempo che rischia di portare disgregazione lì dove il primo l’aveva valorosamente arginata. Cominciamo dal principio di ragione. I numeri. Secondo un’indagine dell’Agis, su 347.262 spettatori in 2.782 spettacoli monitorati tra lirica, prosa, danza e concerti, nel periodo che va dal 15 giugno ai primi giorni di ottobre, si è registrato un solo caso di contagio da Covid 19. Ho partecipato qualche mese fa alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia. L’area del festival mi sembrava tra le più sicure al mondo in un contesto pubblico. Gli addetti alla manifestazione ti prendevano la temperatura ovunque fossi, controllavano il distanziamento sociale in modo che definiremmo ossessivo se non sapessimo qual è la posta in gioco, bar e ristoranti venivano controllati come fuori dall’area della Mostra non accadeva, né a Venezia né al Lido. Nel buio della sala, non capisco nemmeno come facessero, arrivavano a rimproverarti se ti abbassavi la mascherina per più di due secondi consecutivi. Risultato: a sentire la Biennale, nessun contagio.

Cento persone in una sala che ne contiene cinquecento o mille, tutte con la mascherina, a bocca chiusa, distanziate anche di due o tre metri, immobili a vedere un film o un attore in carne e ossa. Il grado di sicurezza che abbiamo potuto riscontrare in teatri, cinema, sale da concerto mi sembra incomparabile rispetto a quello di tanti altri luoghi, molti dei quali continueranno a funzionare. Personalmente, se decido di uscire di casa, so che le probabilità di prendermi il coronavirus guardando Edipo Re sono meno che andandomi a fare una pizza con gli amici.

Il secondo motivo per cui ritengo questa decisione discutibile, riguarda proprio la coesione sociale. La gente cammina per strada invelenita, risentita, infuriata. Non c’è più il clima solidale – persistenza della paura e del dolore a parte – dello scorso marzo. Non sto dicendo che l’arte debba svolgere un ruolo puramente consolatorio, o che peggio debba essere il sonnifero per le nostre turbolenze. L’arte, però, rifonda continuamente la comunità, problematizza il nostro vivere insieme e dunque lo ricompatta, mette in discussione il rapporto tra capo e popolo, rappresentante e rappresentato, tra chi ha potere e chi ne ha meno e, in questo modo, mettendola retoricamente in crisi, evita che la città sprofondi su se stessa.

Il terzo e ultimo punto riguarda l’aspetto simbolico, che non sottovaluterei. Condividere e ritualizzare i problemi, e ancor più le tragedie, è importante. Senza rito né condivisione non c’è elaborazione, senza elaborazione si precipita in un buco nero. Questo lo sa bene il mondo religioso: ricordiamo la preghiera (quasi) solitaria di papa Francesco lo scorso marzo a San Pietro. Ora, nel mondo laico, sul piano simbolico e rituale, questa funzione da sempre la svolgono i teatri. Senza polis non si dà il teatro. Ma senza teatro – fosse anche un attore, davanti a tre spettatori, distanziati dieci metri – la polis comincia a disgregarsi. Se questo governo crede che la cultura sia solo spettacolo e intrattenimento («i nostri artisti che ci fanno divertire», fu lo scivolone di Conte dello scorso maggio), o che perfino l’intrattenimento non sia legato a qualcosa di più antico e fondante, allora si capisce bene la decisione di chiudere tutto senza distinzione. Si intravede però così anche una mancanza di visione, quella che servirà – passata la tempesta – per costruire un futuro diverso.

Questo articolo è stato pubblicato su Repubblica il 26 ottobre 2020

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