La retorica novecentesca della madre polacca patriottica e stakanovista ha lasciato un’eredità ambivalente. Il governo ultra-conservatore continua a negare i diritti delle donne, protagoniste però negli ultimi anni di un grande movimento
Alungo ho convissuto con la frase «la donna polacca è una donna forte, gestisce la famiglia e il marito». Ai miei occhi era un’evidenza e pertanto non sono mai andata a cercarne le origini: quando mia madre ha lasciato Roma per andare a vivere in Umbria, la gente del paese ha iniziato con il chiamarla «la polacca», ha finito per chiamarla «l’ingegnere». Nel giro di un anno di vita in campagna ha imparato a fare tutto: usa la motosega, gira con il trattore, pota gli ulivi, produce il vino, ha progettato la caldaia di casa, riparato la piscina, cucito le lenzuola, tenuto a bada un marito in preda a mille paturnie.
Mia nonna, che ingegnere lo era per davvero (laureata nel ’61 in ingegneria meccanica), ha guidato la locomotiva, lavorato per la British petrol dove analizzava gli oli conduttori, fatto contrabbando di macchine fotografiche, orologi e vodka sul mercato nero per riuscire a racimolare qualche spicciolo in più al mese perché, nonostante avessero assieme a mio nonno impieghi altolocati (mio nonno era il direttore dell’officina di riparazioni dei trasporti pubblici di Cracovia), nessuno dei due era iscritto al partito e i loro stipendi erano molto magri (negli anni Settanta, quello di mia nonna era meno di dieci dollari al mese).
Tornando ancora più indietro nel tempo, la mia bisnonna, classe 1907, che ho avuto la fortuna di conoscere perché ha vissuto fino alla modica età di 103 anni, è riuscita a recuperare mio nonno, arrestato dai nazisti per aver aiutato degli ebrei a nascondersi. Stava per essere inviato ad Auschwitz quando mia nonna si è adoperata a entrare in contatto con le donne tedesche che venivano a rinfrescarsi nel suo villaggio e ha organizzato una grande festa chiedendo in cambio il marito. Hanno perso tutto, il mio bis-nonno però è tornato a casa.
Provenienze multiple: in cerca delle origini
Se fossi cresciuta anch’io in Polonia, mi sarebbe forse stato più facile capire da dove venisse questa forza, perché si parlasse così spesso di Matka-Polska, la Madre-Polonia. Sono però approdata in Italia che avevo tre anni e mezzo: i miei genitori hanno attraversato l’Europa con una centoventisei bianca e mi sono ritrovata in un campo profughi per esiliati politici alle porte di Roma. Il nostro doveva essere un passaggio temporaneo prima di essere spediti in Canada, ma poco dopo è crollato il muro, mio padre è tornato in Polonia, noi invece siamo rimaste in Italia. Mia madre aveva sviluppato all’epoca un vero e proprio rifiuto verso il suo paese, mi sono perciò dovuta limitare a studiare e assimilare solo la storia e la cultura italiana. Lei non voleva più parlare polacco né cucinare polacco, eravamo in Italia e dovevamo comportarci come italiane, nonostante fossimo bionde e slavate e i nostri nomi suonassero strani, se non perlopiù impronunciabili, a causa della rigida successione di consonanti.
Con l’età adulta, però, andare a riesumare la storia delle origini è diventata un’esigenza personale. Troppe volte mi sentivo in preda a nevrosi che poi scoprivo essere un tratto di carattere ereditato dalla mia madre patria. Per smettere di versare ingenti somme alla mia psicanalista per problemi che in realtà erano sismi collettivi trasmessi da generazioni, ho iniziato a interessarmi ai libri di storia del mio paese, focalizzandomi soprattutto sulla questione femminile.
La problematica domina del resto un’ampia fetta del discorso politico odierno, come mostra il recente annuncio del ministro della giustizia Zbigniew Ziobro, secondo il quale la Polonia vuole uscire dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. Il governo ultra-conservatore al potere, che da poco è stato rieletto, porta avanti una battaglia in nome della famiglia patriarcale a scapito delle minorità. L’arresto di una giovane militante trans a Varsavia il 7 agosto scorso ha evidenziato ancora una volta l’astio che il PiS, il partito libertà e giustizia, nutre nei confronti delle donne e della comunità Lgbt. Si tratta di uno degli innumerevoli attentati che il governo sferra contro le donne soprattutto da quando un comitato chiamato «stop aborto» ha proposto, nel 2016, una legge per vietare completamente l’aborto. Oggi questa pratica è legale in Polonia solo in caso di malformazione grave del feto, di pericolo per la vita della donna oppure di stupro. Le giovani ragazze che vogliono abortire sono obbligate a recarsi all’estero e, quelle che non hanno i mezzi e i contatti necessari, ricorrono a cliniche clandestine oppure a medicine che trovano su internet, pratiche che mettono in grave pericolo la loro salute. La proposta di legge formulata dal comitato «stop aborto» voleva addirittura punire le donne che non erano in grado di provare che avessero subito un aborto spontaneo con cinque anni di prigione, vietare l’accesso alla contraccezione medicale e all’educazione sessuale. Secondo i «prolife», ogni bambino ha il diritto di nascere e vivere: il feto ha pieni poteri, la donna nessuno. «Perché ogni giorno in Europa sono uccisi migliaia di bambini? In nome di che cosa, dell’irresponsabilità?», chiedeva Marek Jurek, deputato del partito cristiano conservatore durante un’intervista sulla radio France culture e, secondo il presidente del partito Kaczynski (mai sposato e criticato dall’opposizione per essere il portavoce di un modello familiare che lontanamente conosce, lui che vive solo con dei gatti in casa), un bambino deve nascere anche in caso di gravidanze difficili, perché bisogna battezzarlo e fargli un funerale cristiano.
La risposta non è tardata ad arrivare da parte dell’organizzazione «Salviamo le donne», diretta da Barbara Nowacka. Per la prima volta da vent’anni il milieu femminista è riuscito a riunire 250.000 firme che chiedevano il diritto all’aborto. I due progetti di legge sono entrati in discussione al parlamento contemporaneamente. Nel frattempo, diverse manifestazioni sono state organizzate in tutto il paese contro l’ordine morale dettato dal potere e hanno dato vita alla «protesta nera» (czarny protest), movimento rivoluzionario d’impronta femminile comparabile solamente alle manifestazioni contro il comunismo degli anni Ottanta, che hanno portato alla caduta del regime. Migliaia di donne, sia nelle grandi città che nei villaggi, hanno manifestato vestite di nero. Dietro a questa scelta si celava un riferimento storico: nel diciannovesimo secolo, durante la grande partizione che ha visto la Polonia scomparire dalla mappa geografica a profitto dei tre paesi vicini, le donne si sono vestite di nero per manifestare il lutto verso il paese.
La proposta di legge è stata ritirata poco dopo, ma in Polonia la donna continua a non avere una via legale per decidere di sé e del proprio corpo.
Matka-Polska. La madre Polonia
Durante il diciannovesimo secolo, l’iconografia polacca è stata dominata dalla figura della madre polacca, la donna forte che si occupa dei figli soldati, mentre i padri sono sul campo di battaglia. Il cliché è un’arma a doppio taglio: se da un lato sembra dare pieni poteri alla donna, dall’altro le toglie ogni libertà, perché la riduce alla madre sacrificale che prende il posto del marito, si occupa dei figli e salva la patria, senza minimamente occuparsi di sé stessa. Ciò non toglie che le autorità erano terrorizzate dalla donna polacca e dal potere che stava acquisendo. Nel 1860, lo scrittore russo Nikolai Vasylyevitch Berg commentava: «la donna polacca è un’eterna, implacabile e incurabile cospiratrice», e lo zar Nicola I scriveva: «Ho paura delle donne! Questa nazione demoniaca ha sempre funzionato per il loro tramite». Il passaggio dal patriarcato al matriarcato, in questo periodo, è molto sottile, e dovuto all’instabilità e alle numerose insurrezioni nel paese: molti uomini sono morti, emigrati o esiliati in Siberia. Le donne hanno così preso il loro ruolo e innestato un movimento femminista in Polonia. Sono diventate diplomatici, terroristi o soldati, vestite con uniformi da uomo. Durante l’era nella quale la Polonia è stata divisa, hanno combattuto una doppia battaglia: quella per l’indipendenza del paese, e quella per la loro emancipazione.
Secondo lo storico Andrej Szwarc, la professione più femminile durante la Russia zarista era quella della rivoluzionaria. Anche in Polonia, dove la proporzione di donne implicate era minore, la partecipazione femminile alle insurrezioni è stata comunque notevole: l’organizzazione militante del partito Pps, per esempio, era composta da circa 478 donne, e le loro azioni consistevano nel far circolare le armi e la propaganda clandestina.
Quando la Polonia è rinata nel 1918 come Seconda Repubblica Polacca, alcune delle figure più celebri nella battaglia per l’indipendenza hanno fatto carriera in politica, sono diventate deputate o senatori, come l’attivista Irena Kosmowska, e hanno fondato delle associazioni educative per le donne che, durante tutto il diciannovesimo secolo, non godevano né del diritto di voto e neppure di quello all’istruzione. Altre, come Wanda Gerts, hanno fatto carriera nel settore militare. Si tratta però di eccezioni, e bisognerà attendere l’arrivo del comunismo per assistere a un cambiamento (provvisorio) di ruoli. Stalin – che di difetti e torti ne ha avuti parecchi – cerca di istituire un modello femminile paritario in cambio di una totale adesione politica al partito. L’iconografia dell’epoca ritrae una donna seduta su un trattore che lavora in tutti i settori prima riservati agli uomini: nelle fabbriche, come meccanico, conduttore di tram e di trattori in campagna.
Questa svolta però infastidisce gli alti ranghi del partito e, tanto in Russia quanto in Polonia, non appena annunciata la sua morte, la donna viene fatta retrocedere nella gerarchia e deve tornare a occuparsi di questioni femminili: dacché lavorava in officina, ora è costretta a fare lavori considerati «femminili»: l’impiegata, la segretaria, oppure la sarta-operaia in una fabbrica di vestiti.
È però soprattutto con l’arrivo della democrazia che la donna perde i pochi diritti acquisiti. Nel 1989, la Polonia si libera dal peso del regime comunista ma sono le donne a pagarne il prezzo con la loro libertà. Nel 1993, una legge restrittiva contro l’aborto entra in vigore, si tratta di un compromesso entro i politici e la chiesa. Altro paradosso: è la sinistra che ha votato la legge e perorato l’immagine di una donna che deve occuparsi, da sola, della contraccezione, perché a loro dire il preservativo è troppo fastidioso per gli uomini.
La rivoluzione femminista in Polonia
Le recenti elezioni hanno messo in luce due mondi che si oppongono in Polonia. Basta vedere i risultati dello scrutinio delle ultime elezioni: le donne hanno votato per l’ex sindaco di Varsavia, il liberale Rafal Trzaskowski, mentre la maggioranza degli uomini ha votato a destra, per il premier uscente Andrzej Duda.
Forti dei dieci milioni di elettori che li hanno sostenuti, temendo gli altri dieci che gli sono contrari, i conservatori hanno inaugurato il nuovo mandato sotto il segno dell’ennesima provocazione contro le donne con l’annuncio del ritiro della Polonia dalla convenzione di Istanbul. Dietro a questa rivoluzione conservatrice, oltre al PiS, si cela la Chiesa cattolica e la Ong Ordo Iuris. Entrambe le istituzioni sono particolarmente potenti: la Chiesa possiede la sua scuola di giornalismo, la televisione e la radio. L’Ong Ordo Iuris fa parte di Agenda Europa, una rete internazionale di estremisti religiosi che si battono per diminuire i diritti sessuali e riproduttivi e hanno sempre più potere in Polonia: Aleksander Stepkowski, cofondatore e primo presidente, fa oggi parte della Corte suprema e altri membri detengono posti nei ministeri. Sono stati loro a proporre la legge contro l’aborto nel 2016 e a istituire le «zone senza ideologia Lgbt», quartieri e intere città che si reclamano dichiaratamente omofobe.
Oggi le due tribù incarnano un paese geograficamente e culturalmente diviso in due, tra un 48,79% che ha votato a sinistra proveniente dalle grandi città e dall’ovest, e un 51,21% che ha scelto i nazionalisti, proveniente dalle campagne e dall’est. Non è un caso che prima e subito dopo lo scrutinio, il PiS sia tornato all’attacco contro le donne e la comunità Lgbt, che considera una minaccia per la Polonia. Lo si può verificare durante ogni campagna elettorale: il governo ha bisogno di designare un nemico. Prima era stato il turno dei rifugiati, adesso quello delle donne e delle minoranze. Per il momento, non si sa se la Polonia uscirà effettivamente dalla convenzione di Istanbul, forse si tratta solamente di un attacco mediatico che serve a far rumore e attirare l’attenzione sul partito conservatore, mentre le donne polacche reclamano i propri diritti ed esigono che i ginecologi si occupino della loro salute, non della loro coscienza.
Mia madre e Stalin
Prima di immergermi nella storia del mio paese, spesso davo a mia madre della staliniana senza veramente soppesare le mie parole. Non era una critica collaborazionista, la mia famiglia non si è mai iscritta al partito, ha perso parte delle terre che possedeva sulle quali i comunisti hanno costruito delle case popolari e che pertanto, dopo il crollo del muro, non abbiamo mai recuperato, il nostro telefono era sempre sotto controllo e mio nonno assieme a mio zio si erano fatti crescere la barba in segno di solidarietà con il movimento operaio di Solidarnosc. Lo dicevo perché, nonostante tutto, aveva assorbito, forse anche senza volerlo, buona parte dei precetti che poi avrei ritrovato nell’ideologia dominante degli anni Cinquanta e Sessanta nei paesi del blocco sovietico. La sua rigidità, l’accanimento sul lavoro con una ferocia prettamente stacanovista (piccolo promemoria, la parola viene da Stachanov, un operaio russo che, nel 1935, estrasse in meno di sei ore più di cento tonnellate di carbone) la proibizione di sentimentalismi, il bando della fragilità in famiglia erano tutti tratti di carattere che non sembravano appartenerle direttamente, ma che erano stati acquisiti culturalmente. Anche adesso che sono madre, si stupisce quando le dico che ho bisogno di una babysitter. «Ma come, esclama, non riesci a occuparti di tuo figlio, a lavorare e cucinare allo stesso tempo? Guarda che io con te ero da sola!». In questo panorama, ovviamente l’uomo è esente da ogni dovere, mentre la responsabilità della crescita e accudimento di un figlio viene relegata unicamente alla donna. Qualora essa lavori, si fa appello a una baby-sitter, anch’essa donna, spesso sottopagata per svolgere quel lavoro che, agli occhi di molti, risulta invisibile. Nella battaglia per l’equità dei generi, la donna è sempre in perdita: il capitalismo impone a entrambi di essere delle vere e proprie macchine produttive (in Francia, per esempio, non si incita la donna all’allattamento perché deve tornare rapidamente al lavoro), alla donna si chiedono però anche gli straordinari – non retribuiti – per il lavoro domestico.
Per tornare a mia madre e alle sue tendenze dittatoriali, cerco di farle notare che ha inglobato a sua volta l’immagine della Matka-Polska, della madre-Polonia: quella di una donna forte, che si occupa di tutto, ma che finisce per essere completamente dimenticata dalla storia e vedere sacrificare i propri diritti e libertà in nome dei figli, della famiglia e, all’occorrenza, come ancora capita oggi in Polonia, della patria.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin Italia il 25 settembre 2020