Il neolibersimo sta uccidendo la Terra

di Lelio de Michelis /
24 Luglio 2020 /

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La pandemia doveva essere occasione per comprendere l’importanza di una “riconversione ecologica e sociale” del sistema tecnico ed economico. Ma il mondo spinge per ripartire come prima. Senza una riflessione profonda sulle inefficienze e le irrazionalità strutturali dell’attuale capitalismo

Stiamo forse perdendo la nostra ultima grande occasione per uscire non solo dalla pandemia, ma dalla ben più grave e drammatica crisi ambientale (che stiamo dimenticando, ma che è sempre lì, attorno e davanti a noi)? Davvero possiamo dire che la pandemia è stata un “inciampo della storia”, facendo come Benedetto Croce che diceva: “Heri dicebamus“, così salutando la fine del fascismo?

“Ieri dicevamo” voleva significare, per il filosofo, che il discorso collettivo, politico e sociale andava ripreso esattamente dal punto dove lo aveva interrotto la “parentesi” mussoliniana, dimenticando che il fascismo non era stata una “parentesi”, ma qualcosa di assai più profondo (Piero Gobetti aveva scritto, vent’anni prima, che era “l’autobiografia della nazione”; oggi possiamo anche dire che è l’autobiografia non solo dell’Italia). Davvero oggi possiamo riprendere il discorso dell’economia e della tecnica esattamente dal punto dove lo ha interrotto il coronavirus?

Invece di una continuità, ci servirebbe una discontinuità con il passato. La pandemia – lo abbiamo scritto più volte anche su queste “pagine” – poteva (anzi: doveva) essere l’occasione per ripensare profondamente e radicalmente il nostro sistema produttivo e consumistico che dura ormai da tre secoli, che sembra sempre diverso ma che è sempre uguale a se stesso, che è capace di trasformarsi incessantemente trasformando incessantemente uomini e società (purché non lo si metta in discussione), ma che è incapace di uscire dalle proprie contraddizioni. Che non risolveremo certo con un “heri dicebamus”.

Ciò che “non doveva succedere”, invece succede

Potevamo/dovevamo cogliere l’occasione della pandemia come il momento topico per una riflessione collettiva su “cosa stiamo facendo” e “dove stiamo andando”. Potevamo/dovevamo cogliere l’occasione della pandemia – con i lutti e i drammi conseguenti, “ma anche” con i processi di socialità che stava ricreando, con la consapevolezza che un minore consumo e sfruttamento della Terra e una nostra minore impronta ecologica “facevano bene” al pianeta e quindi anche a noi – per capire che la “tecno-sfera” (tecnica e capitalismo in sinergia nichilistica/disruptiva tra loro) è in conflitto “strutturale” con la “bio-sfera’. Rivedere le meduse a Venezia e i cieli puliti per l’inquinamento che calava era infatti la prova provata che “questo” modello economico e consumistico è irrazionale e insostenibile in sé e per sé. O, come dicevano i francofortesi già settant’anni fa, “è la razionalizzazione dell’irrazionale”.

Potevamo soprattutto capire che la vera “innovazione” non è tanto l’Industria 4.0 (che di fatto è il taylorismo diventato digitale), non è l’IA, ma la “riconversione ecologica e sociale” del sistema tecnico ed economico. Cioè “innovare” andrebbe oggi ri-declinato nel senso di “creare cultura e buone pratiche di cura sociale e ambientale” per “conservare” il pianeta – e farlo prima di arrivare a un punto di non ritorno. Dovevamo quindi superare la “critica marxiana dell’economia politica capitalistica” (quella “scienza”, diceva Marx, “che si occupa delle cose e non degli esseri umani; e che valorizzando il mondo delle cose svalorizza il mondo dell’uomo”) e integrarla con una “critica ecologica dell’economia politica capitalistica e della tecnica” e – prima ancora – della “razionalità solo strumentale/calcolante-industriale” che la domina da ormai tre secoli.

Cercando quindi un’economia che si occupi non delle cose/merci, ma degli uomini e dell’ambiente, uscendo da una razionalità fatta solo di produttività e ancora produttività, di produzione e ancora produzione, di consumismo e ancora consumismo, di divisione del lavoro e ancora divisione del lavoro (oggi nella rete diventata la “fabbrica integrata globale tecno-capitalista’), di irresponsabilità e ancora irresponsabilità verso il futuro, di pluslavoro crescente di tutti per il plusvalore di pochi. E dovevamo farlo – la sua “necessità e urgenza” era sotto i nostri occhi da tempo – in nome appunto di una “giustizia sociale redistributiva e intergenerazionale” da riattivare; e di una “giustizia ambientale” (anch’essa intergenerazionale) da costruire. Perché non basta una “riverniciatura” di “green” o di “circolarità” – utili comunque – per trasformare davvero un sistema profondamente iniquo e disuguagliante e che considera la natura solo come merce o come “miniera da sfruttare”.

E invece, tutto il sistema sempre più spinge (tranne poche, ma comunque lodevoli eccezioni) per ripartire “come prima”; e quindi, “peggio di prima” – proprio perché manca una riflessione profonda sulle inefficienze e le irrazionalità “strutturali” del sistema. Tutti vogliono attirare turisti (quota importante del Pil), senza domandarsi “quale turismo”; tutte le pubblicità ci incitano/spronano a ripartire con i consumi “di prima” presentandoci però un mondo nuovo, bello e solidale/familistico e amico dei bambini perché la pandemia ci avrebbe cambiato in meglio…; tutti vogliono tornare a produrre (e a far consumare) “come prima”. Certo, i movimenti ecologisti crescono elettoralmente in molti paesi, ma il capitalismo e la tecnica sono ormai una “forma di vita”, sono la nostra omologata e omologante “way of life”. Più diventa necessario (attivando una dis-continuità e una nostra de-coincidenza antropologica con il sistema) e più diventa urgente trasformare “questo” modello economico e tecnico, più il sistema sa integrarci, sussumerci ancora di più in sé e per sé (per farlo ha inventato anche i social), togliendoci la capacità (è molto abile nel “vendersi” come libertà, autonomia, creatività, “nuovo che avanza e che non si deve fermare”) di “immaginare altro”.

La “gabbia” di Max Weber

Uno dei massimi sociologi di sempre, Max Weber, chiamava tutto questo – già centoventi anni fa – la “gabbia d’acciaio” del capitalismo, ovvero: “L’odierno ordinamento capitalistico impone a ciascuno, in quanto è costretto dalla connessione del mercato, le “norme” della sua azione economica. Il fabbricante, che costantemente contravviene a queste norme, viene senza fallo eliminato economicamente, così come l’operaio, che non può o non vuole ad esse “adattarsi”, viene gettato in istrada come disoccupato. (…)”.

Il capitalismo, ha portato cioè “alla costruzione di un potente ordinamento economico moderno, legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica [oggi diciamo digitale, perché cambia la “forma” ma non la “sostanza” del capitalismo-rivoluzione industriale], che determina con strapotente costrizione, e forse continuerà a determinare finché non sia stato consumato l’ultimo quintale di carbon fossile [ieri di petrolio, oggi di dati], lo “stile della vita” di ogni individuo che nasce in questo ingranaggio e non soltanto di chi prende parte all’attività puramente economica. (…) Nessuno sa ancora chi nell’avvenire vivrà in questa “gabbia” e se alla fine di questo enorme svolgimento sorgeranno nuovi profeti o una rinascita di antichi pensieri e ideali o, qualora non avvenga né l’una cosa né l’altra, se avrà luogo una specie di “impietramento nella meccanizzazione” [oggi nella digitalizzazione], che pretenda di ornarsi di un’importanza che essa stessa nella sua febbrilità si attribuisce. Allora, in ogni caso, per gli ultimi uomini di questa “evoluzione” della civiltà potrà essere vera la parola: “Specialisti senza intelligenza, gaudenti senza cuore’” (M. Weber, “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” – Bompiani).

E appunto, oggi siamo “specialisti senza intelligenza” perché deleghiamo alle macchine anche l’intelligenza e la conoscenza e la consapevolezza del fare (però siamo “specialisti” nello smanettare sullo smartphone e nel “dipendere” da una app per sapere cosa fare nella nostra vita o nel “servire” l’algoritmo dell’Industria 4.0), perché dominati appunto da una razionalità esclusivamente strumentale/calcolante-industriale. Per la quale è “razionale” in termini di profitto (di “calcolo” del denaro/profitto da accrescere), sfruttare lo scioglimento dei ghiacci artici per cercare gas e petrolio nel mare o per abbreviare i tempi di trasporto delle merci tra Europa e Asia; o usare le piattaforme/algoritmi per accrescere ancora di più la produttività e il pluslavoro e l’auto-sfruttamento delle persone (nell’Industria 4.0, come nel caporalato della gig economy), per produrre sempre di più, per cui poi occorre però “far consumare” sempre di più. Una razionalità “razionale” appunto solo in termini tecnici e capitalistici, ma del tutto irrazionale in termini umanistici e ambientali: figlia della rivoluzione scientifica del ‘600 e di un industrialismo-positivismo “alla Saint-Simon e alla Comte”, sociologi del XIX secolo e che è diventato sempre più l’ideologia della modernità come della post-modernità (non viviamo forse nelle retoriche del learning by doing e del problem solving, del “doversi adattare”: sempre agendo “a valle” e mai “a monte” dei problemi – il problema “a monte” essendo appunto il capitalismo più la tecnica e la sua conflittualità strutturale con la bio-sfera e la società); un positivismo che “lungi dal nutrire dubbi su di sé, condivide tacitamente con la teologia la convinzione che si debba essere per l’appunto positivi. La teologia dice: alla fine ci sarà giustizia; il positivismo dice: le cose andranno sempre meglio. Entrambi finiscono per accettare l’esistente come loro presupposto logico” (Max Horkheimer, nel 1959, in Taccuini, Marietti).

Accettare l’esistente, non cercare alternative, non immaginare altrimenti, non uscire dalla “gabbia” weberiana. Perché stupirsi se oggi gli industriali e il loro “industrialismo ottocentesco-novecentesco” (anche se digitale) ci impongono di ripartire “come prima’? Perché stupirsi se tutti – formattati dall’industrialismo e da questa razionalità solo strumentale/calcolante-industriale – vogliono ripartire “come prima’? Siamo stati “ingegnerizzati” per questo, l’economia comportamentale a questo ci porta: difficile uscire da questa antropologia/’way of life’.

Uscire dalla gabbia

Molti stanno riflettendo sulla “crisi sistemica” del “sistema tecno-capitalista”. È da poco uscito il nuovo saggio di Thomas Piketty, “Capitale e ideologia” (La nave di Teseo) – séguito del famoso “Il capitale nel XXI secolo”, un best seller tradotto in 40 lingue con oltre 2,5 milioni di copie vendute. È un nuovo e altrettanto corposo saggio (1200 pagine), dove Piketty dimostra come elementi decisivi del progresso umano e dello sviluppo economico siano la lotta per l’uguaglianza e l’educazione; aggiungendo che occorre però anche rimettere in discussione il “mito della proprietà privata” a tutti i costi. Piketty propone di abbandonare il fatalismo che ci pervade e che ci viene insegnato, immaginando un nuovo sistema partecipativo, basato sulla “proprietà sociale”, l’educazione e la conoscenza e la condivisione dei saperi e del potere. A sua volta l’economista e Premio Nobel per l’economia nel 2001, Joseph Stiglitz – nel recentissimo “Popolo, potere e profitti”, Einaudi – parla di disuguaglianze crescenti e di profitti per pochi, e quindi di un “dovere” di domare le forze del mercato, piegandole all’interesse collettivo.

A sua volta, ma già nel 2015, Luciano Gallino scriveva di una “doppia crisi” dominante in questi ultimi decenni: quella ambientale e quella del capitalismo. Un libro amaro, quello di Gallino (e uscito un mese prima della sua morte), perché, scriveva, “quel che vorrei provare a raccontarvi è per certi versi la storia di una sconfitta politica, sociale e morale. Abbiamo visto scomparire due idee e relative pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza; e quella di pensiero critico”. E aggiungeva: “Causa fondamentale della sconfitta dell’uguaglianza è stata, dagli anni Ottanta in poi, la doppia crisi, del capitalismo e del sistema ecologico, quest’ultima strettamente collegata con la prima”. Perché alla sua crisi degli anni “70, il capitalismo ha reagito “accrescendo lo sfruttamento irresponsabile dei sistemi che sostengono la vita, nonché ostacolando in tutti i modi gli interventi che sarebbe necessario adottare prima che sia troppo tardi. Il tutto con il ferreo sostegno di un’ideologia, il neoliberalismo, che riducendo tutto e tutti a mere “macchine contabili” dà corpo a una povertà del pensiero e dell’azione politica quale non si era forse mai vista nella storia” (“Il denaro, il debito e la doppia crisi” – Einaudi).

La terra brucia

Tuttavia, poiché la questione climatica e ambientale “non è di oggi” (pensiamo al Rapporto al Club di Roma, “I limiti della crescita” – anno 1972), preferiamo – come sempre facciamo – andare alle fonti, tornando indietro di qualche decennio e riprendendo il pensiero di un grande economista e ambientalista come Giorgio Nebbia, uno dei massimi studiosi internazionali del “ciclo delle merci”, morto un anno fa. Un “pensiero critico” – il suo – ri-attualizzato grazie a un libro appena uscito: G. Nebbia, “La Terra brucia”, Jaca Book.

Scriveva Giorgio Nebbia: “L’ecologia, per un intero secolo, dagli anni Sessanta dell’Ottocento è rimasta severa disciplina scientifica rivolta a comprendere e descrivere i rapporti degli esseri viventi fra loro e con l’ambiente circostante. Negli anni Sessanta del Novecento è diventata popolare con la constatazione che l’animale “uomo”, con le sue scoperte e le sue attività, stava modificando prepotentemente le condizioni di vita degli altri esseri viventi e dell’ambiente naturale, con effetti diventati planetari. L’ecologia indicava anche alcuni rimedi che presupponevano maggiori conoscenze sui cicli della materia e dell’energia e azioni politiche: pubblici controlli e divieti e imposte.

E qui il discorso è diventato economico e politico; le riforme “ecologiche” disturbavano gli affari e i relativi potenti interessi. (…)” Tuttavia, ne sono seguiti anche successi, come “la contestazione (vittoriosa) delle centrali nucleari, seguita però a sua volta da una normalizzazione in cui le parole “ecologia, ambiente, naturale, biologico, sostenibile”, sono entrate nel linguaggio comune, [anche se] distorte ai fini della crescita economica e assorbite dalla pubblicità che le ha applicate proprio a quelle merci e macchine che sono le vere fonti dei guasti ambientali. È così continuato il “glorioso cammino” verso un inevitabile disastro ecologico (…) [Perché] il capitalismo “deve”, per le sue leggi, sfruttare la natura [e potremmo aggiornare il pensiero di Nebbia dicendo che anche oggi, dove i dati e le informazioni sono la nuova “materia prima” da cui estrarre valore, appartenendo all’uomo, sono anch’essi “natura”, “natura umana”, sfruttata dal capitalismo], natura che è fonte di materie prime e nella cui trasformazione in merci trae il proprio profitto e, nello stesso tempo, genera le nocività ambientali. Una genuina difesa della natura e dell’ambiente (…) richiede un controllo e una pianificazione della produzione agricola e industriale, degli insediamenti, la difesa dell’aria, delle acque e delle risorse naturali in quanto beni collettivi”.

E ancora: “I grandi recenti “successi” umani – la globalizzazione degli scambi di soldi e di merci, l’ideologia del possesso dei beni materiali e del successo individuale, una nuova “raffinata” forma della lotta per la sopravvivenza del più forte – hanno fatto mettere da parte vecchie ideologie, come quella della solidarietà fra gli esseri umani della presente e della futura generazione e della solidarietà con la natura. I cattivi risultati, rappresentati dalla moltiplicazione dei conflitti, delle crisi economiche, del divario fra ricchi e poveri, ma anche dei segni della “ribellione” della natura, inducono a pensare che forse la salvezza è rappresentata proprio dal recupero dei valori accantonati, a cominciare dalla solidarietà”. E sul capitalismo e il suo confliggere con la Terra, scriveva: “Nessuna soluzione tecnico-scientifica sarà efficace se non si mette in discussione il meccanismo che lo alimenta, cioè la legge del profitto fine a sé stesso”.

Ovvero: se la Terra è il presupposto per la vita dell’uomo – oltre che per il funzionamento di un’economia – la cura responsabile della Terra è premessa di tutto. Ma questa “cura” non la può dare il capitalismo, perché contraddirebbe sé stesso e il suo cupio dissolvi – che ama però tradurre con “smart” e “innovazione”, a prescindere dalla sua utilità sociale e dalla sua sostenibilità ambientale.

Questo articolo è stato pubblicato su Agenda Digitale il 20 luglio 2020

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