La prima Italia unitaria
Nelle famiglie meridionali che si ritrovano a Pasqua o a Natale c’è quasi sempre un figlio o una figlia emigranti che tornano da una città del Centro-Nord o dall’estero, o genitori che li raggiungono nei luoghi dove svolgono la loro attività lavorativa. I treni ad alta velocità e i voli low cost permettono di incontrarsi più spesso rispetto a ciò che avveniva anche nel recente passato, quando poteva capitare di rivedere un familiare emigrato a distanza di anni. In ogni famiglia meridionale c’è un parente, un bisnonno, un padre, un figlio, una zia, una nipote, una cugina, un amico che sono stati o sono emigranti.
Eppure non sempre è stato così nella nostra storia nazionale, che cioè l’emigrazione in Italia e dall’Italia fosse un problema quasi esclusivamente delle famiglie meridionali. Anzi. Fino agli anni settanta del Novecento almeno una regione del Nord, il Veneto, è stata terra di emigrazione per eccellenza in almeno tre delle quattro ondate emigratorie che hanno riguardato l’Italia dopo la sua unione, e cioè quella tra fine Ottocento e inizio del Novecento, quella del periodo fascista, quella apertasi nel secondo dopoguerra tra gli anni Cinquanta e Settanta (quando comincia nettamente a meridionalizzarsi l’emigrazione italiana) mentre quella cominciata a ridosso degli anni Duemila è quasi esclusivamente composta da meridionali, con una componente anche di laureati del Nord che si indirizzano all’estero. Fino agli anni Quaranta del Novecento è il Veneto la regione in testa alle statistiche dell’emigrazione, seguita da Sicilia, Campania e Calabria. Dal 1876 al 1913 dal Veneto partono 1.822.000 persone, ed è il Piemonte – cosa a prima vista sorprendente – al secondo posto di questa classifica del primo cinquantennio unitario con 1.540.000 partenti (tra cui il papà e i nonni di papa Bergoglio) seguiti dalla Campania (1.475.000), dalla Venezia Giulia (1.407.000), dalla Sicilia (1.352.000) e dalla Lombardia (1.342.000). Dalle altre regioni italiane del Nord (la Liguria, il Friuli, il Trentino) e di quelle del Centro e del Sud (Marche, Calabria, Basilicata, Abruzzo e Puglia) vanno via un altro milione di persone. Tra il 1875 e il 1925 un terzo della popolazione del Molise emigra. E in rapporto al numero di abitanti, l’emigrazione calabrese, abruzzese e lucana è davvero impressionante.
Lo spopolamento cronico dei comuni diventa così una costante nell’appennino meridionale da un secolo e mezzo. Una poesia di Franco Arminio rende l’idea perfettamente. “Nel 1901 Miche Fede partì per gli Stati Uniti/ con un abito impeccabile che lui stesso aveva cucito./ Nel 1929 Florindo Fede partì per il Brasile/con un abito impeccabile che lui stesso aveva cucito./Nel 1947 Agostino Fede partì per la Francia/ con un abito impeccabile che lui stesso aveva cucito./ Nel 1960 Salvatore Fede partì per la Svizzera/ con un abito impeccabile che lui stesso aveva cucito./ Oggi al paese nessuno sa più cucire/ e l’emigrazione dei sarti è finita.” Dell’emigrazione calabrese ha parlato in alcuni suoi romanzi Mimmo Gangemi (come nello splendido La Signora di Ellis Island). Singolare la diversità tra le due grandi isole italiane, con la Sicilia che nel corso di un secolo e mezzo è in testa alla classifica italiana dell’emigrazione all’estero, mentre la Sardegna è l’ultima. Se fino alla metà dell’Ottocento pochissimi emigravano dalla Sicilia, si verifica un cambiamento radicale alla fine dell’Ottocento. Saranno in gran parte i siciliani tra il 1880 e il 1910 a sostituire temporaneamente la manodopera africana e asiatica nelle piantagioni della Louisiana, del Brasile e dell’Australia. E molti provenienti dalle solfatare siciliane in crisi andranno a lavorare nelle miniere dell’Alabama e nel West Virginia. È molto probabile che questo esodo di massa sia una conseguenza della sconfitta dei Fasci siciliani, di quel movimento di radicale contestazione dei feudali rapporti nelle campagne che l’Unità d’Italia non aveva affatto scalfito come invece si era illuso il mondo contadino dell’isola.
Una influenza avrà anche la riduzione del costo del viaggio nelle Americhe grazie ai bastimenti a vapore che partivano dal porto di Palermo. Così come era forte la spinta a sottrarsi alla coscrizione militare obbligatoria. Invece l’emigrazione degli anni Cinquanta segue la sconfitta della occupazione delle terre e i massacri di capi lega contadini e bracciantili da parte della mafia. Nello stimolare la partenza dal Nord Italia per le Americhe, oltre alle condizioni di disagio economico nelle campagne, inciderà anche la vicinanza con il porto di Genova. Se poi si analizzano anche i dati di una regione che è poco citata nelle ricostruzioni storiche sull’emigrazione quale l’Emilia Romagna, si scopre che dal 1876 al 1976, cioè nel giro di un secolo, ben 1.200.000 persone sono partite da quei territori.
Dunque, nel primo cinquantennio della storia unitaria l’emigrazione ha avuto connotati fortemente settentrionali, mentre nel cinquantennio successivo essenzialmente meridionali. E tra le due guerre le cifre ripartite tra regioni sono ancora più sbalorditive: primo è il Piemonte con 533.000 partenze, segue la Lombardia con 498.000, poi la Sicilia con 449.000, il Veneto con 392.000, il Friuli Venezia Giulia con 378.000 e la Campania con 319.000. Tra le regioni dell’Italia centrale spicca il ruolo delle Marche per un numero consistente di partenze nelle prime delle due ondate. I marchigiani sono oggi ben l’11% della presenza italiana in Argentina; e da Recanati partì nel 1883 il trisavolo di Leo Messi. All’epoca l’Argentina era uno dei paesi più ricchi al mondo.
Una migrazione diffusa
Ma non solo nei primi 50 anni della nostra storia unitaria l’emigrazione è stata un’esperienza diffusa dalle Alpi alla Sicilia, lo era già prima del 1861. L’emigrazione italiana è stato un problema plurisecolare che è esploso in maniera dirompente solo dopo l’Unità d’Italia. La presenza di ben sette Stati all’interno di un territorio abbastanza ristretto imponeva lo spostamento di manodopera tra una parte all’altra, lungo l’arco alpino e appenninico, lungo le pianure, lungo le coste, lungo il corso dei fiumi, e ciò obbligava a passare da uno Stato all’altro, di oltrepassare dei confini anche se le distanze geografiche erano tutto sommato limitate.
Non va sottovalutata anche l’emigrazione per ragioni politiche a causa delle guerre permanenti tra le città-Stato e quella per cause religiose, che non assunse comunque la tragicità dello scontro tra cattolici e protestanti e della persecuzione degli ebrei, causa di diaspore di massa in altri territori europei. Nel Regno delle Due Sicilie gli spostamenti si limitavano all’interno dello stesso Stato data la sua maggiore estensione geografica (era il più grande tra quelli preunitari) ed erano caratterizzati dalla transumanza dei pastori dalle montagne alle pianure, dai lavori stagionali soprattutto nelle piane e dalla grande attrazione che esercitava in tutto il Regno la sua capitale, Napoli, la città di gran lunga più popolata d’Italia fino al 1931 e per diversi secoli terza città d’Europa dopo Londra e Parigi. Gli spostamenti erano anche più lunghi e si indirizzavano verso nazioni più grandi: per i liguri e i piemontesi l’attrazione si rivolgeva verso la Francia e il Belgio, per i lombardi verso la Svizzera e il Centro-Europa, per i veneti, i trentini e i friulani verso l’impero austro-ungarico e i territori tedeschi, con i porti di Genova, Venezia, Napoli e Palermo che già si erano aperti agli spostamenti transoceanici da alcuni decenni prima dell’Unità d’Italia. Poi arriverà, appena dopo l’unificazione, la grande attrazione di massa verso le Americhe del Nord e del Sud (all’indomani dell’abolizione della schiavitù e della fine della guerra civile americana) seguita da quella per l’Australia e il Canada, e negli ultimi decenni verso l’Inghilterra (prima della Brexit).
Le quattro fasi dell’emigrazione italiana
Nelle quattro grandi ondate di emigrazione della storia italiana, uno specifico luogo geografico di volta in volta ha fatto da magnete, con condizioni, aspettative e motivazioni di chi partiva del tutto diverse. Gli italiani nel mondo erano conosciuti soprattutto come abili braccianti e come ottimi manovali nell’edilizia, e nel secondo dopoguerra soprattutto come esperti minatori e come bravi operai alle catene di montaggio, mentre le italiane erano considerate abili tessitrici.
A fine Ottocento e fino agli anni venti del Novecento furono le Americhe la grande calamita dell’emigrazione italiana, mentre prima del 1870 erano stati gli irlandesi e i tedeschi a monopolizzare le partenze dall’Europa verso gli Usa. Dal 1820 al 1860 solo 12.700 italiani erano emigrati negli Usa, in particolare siciliani e liguri, mentre i liguri furono i primi ad essere presenti in America latina a partire dalle città portuali sui fiumi. Durante il fascismo furono le colonie all’estero e le zone bonificate all’interno della penisola a fare da attrazione, mentre tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento fu il triangolo industriale del Nord-Italia insieme alla Germania occidentale e alla Svizzera (e in misura minore, ma con cifre di tutto rispetto, la Francia e il Belgio). Dopo un calo tra gli anni Ottanta e Novanta l’emigrazione è ripresa tornando a cifre di nuovo statisticamente interessanti anche senza raggiungere quelle delle ondate precedenti. Insomma, i cicli migratori dall’Italia verso altre nazioni e continenti (e gli spostamenti al suo interno) sono anche una fotografia economica e sociale delle varie fasi del suo sviluppo.
La settentrionalizzazione dell’emigrazione del primo cinquantennio post-unitario verrà superata appena si apre e si consolida lo sviluppo industriale nel triangolo Torino-Genova-Milano, mentre per il decollo economico del Veneto (e la conseguente riduzione drastica dei suoi flussi in uscita) bisognerà aspettare gli anni sessanta-settanta del Novecento. Il Sud invece rappresenta l’elemento di continuità nei quattro cicli dell’emigrazione italiana, con una riduzione solo dal 1975 alla fine definitiva dell’Intervento straordinario del 1992. Ed è proprio con il consolidarsi delle Regioni e con l’accantonamento delle politiche nazionali verso il Sud (sostituite dai fondi comunitari) che si riapre una nuova fase di emigrazione meridionale dalle caratteristiche del tutto nuove, come vedremo. I meridionali saranno il 13% degli espatri nel 1876-1880, il 27% nel periodo 1881-1890, il 33% tra il 1891 e il 1900 e ben il 47% nel decennio 1901-1910. Dal 1876 al 1900 è il Nord a detenere il primato dell’emigrazione all’estero (veneti, piemontesi e friulani soprattutto) dal 1901 in poi saranno le regioni del Sud (siciliani, campani e calabresi soprattutto). E se in linea di massima si può dire che i settentrionali puntavano più verso le altre nazioni europee, i meridionali più verso le Americhe.
Quella meridionale, quindi, rappresenta l’elemento di continuità di questa rapida storia dell’emigrazione italiana, perché non succederà niente di così strutturale nella sua economia da annullare il bisogno di partire per chi non trova occasioni per realizzare le proprie aspirazioni lavorative e di vita.
35 milioni di emigrati dall’Italia e in Italia
In questa ricostruzione delle cifre dell’emigrazione italiana all’estero e al suo interno ho consultato gli scritti di Michele Colucci, in particolare la Guida allo studio della emigrazione italiana scritto con Matteo Sanfilippo e da L’emigrazione italiana. Storia e documenti scritto con Stefano Gallo. Tra il 1871 e il 1914 circa 14 milioni di italiani sono emigrati all’estero. L’80% di chi partiva era di sesso maschile, più della metà aveva tra i 15 e i 34 anni, i tre quarti viaggiavano da soli e senza essere accompagnati dalla famiglia. Il soggiorno durava dai 3 ai 4 anni, a volte si protraeva per 8-10 anni e spesso si tramutava in emigrazione senza ritorno. Si è trattato, dunque, di una lunga rivoluzione silenziosa, che ha visto in gran parte protagonisti i contadini, forse dell’unica rivoluzione contadina riuscita in Italia, o come scrisse giustamente Gioacchino Volpe del “Risorgimento dal basso e spontaneo dei ceti popolari”.
Un fenomeno, quello dell’emigrazione italiana, di lungo periodo se è vero che durante il fascismo altri milioni si spostano (interessante il fatto che in questo periodo storico, dal 1919 al 1939, emigrano o si spostano più centro-settentrionali che meridionali, rispettivamente 2 milioni e mezzo dal Centro-Nord e un milione e mezzo dal Sud). Dal 1955 al 1970 altri 9 milioni di abitanti si trasferiranno dal Sud al Nord e nel quindicennio 2002/2017 emigrano dal Mezzogiorno due milioni di persone per la stragrande parte giovani sotto i 35 anni e per un terzo laureati o altamente qualificati. Il decennio 1970-1980 sancirà la fine dell’emigrazione di massa con il 1973 a fare da spartiacque in quanto in quell’anno per la prima volta dopo decenni e decenni ci sarà un saldo positivo nel movimento migratorio, con i rientri dai luoghi di espatrio che superano le partenze. Dunque, se calcoliamo solo quelli che si recano all’estero nel corso di un secolo (1870-1970) si può parlare di 25 milioni di persone che hanno lasciato il nostro Paese per lavorare in altri continenti o in altre nazioni europee facendo dell’Italia il Paese occidentale che ha il primato assoluto nell’aver “esportato” il maggior numero dei suoi concittadini.
È un dato sorprendente perché corrisponde esattamente al numero complessivo che l’Italia aveva all’atto della sua unificazione nel 1861, come ricorda Donna R. Gabaccia. Tra questi 25 milioni di partenti si debbono considerare quelli che rientravano e poi ripartivano e ciò poteva avvenire più volte nel corso della vita. Dietro l’Italia c’è la Gran Bretagna con 11 milioni di emigranti, ma in questo dato incide l’emigrazione di massa degli irlandesi (ben 4 milioni) e le possibilità offerte dalle colonie per gli inglesi. In ogni caso gli inglesi non hanno subito discriminazioni dai paesi in cui emigravano. Se poi aggiungiamo gli spostamenti all’interno dell’Italia, in particolare quelli lungo l’asse Nord -Sud, si può parlare tranquillamente di una popolazione di 35 milioni che complessivamente si è trasferita in luoghi diversi da dove è nata e cresciuta, con una maggioranza schiacciante di meridionali.
La peculiarità dell’Italia nella storia dell’emigrazione europea è il primato degli spostamenti all’estero o interni, la graduale meridionalizzazione di quelli esteri e poi l’esclusività della direzione Sud-Nord tra quelli interni, cosa diversa dalle caratteristiche assunte in altre nazioni dove non si è verificata una così massiccia partenza da una specifica e ampia zona geografica e dove negli spostamenti interni le direzioni di marcia sono multidirezionali e non unidirezionali come in Italia. I Paesi dove oggi si concentra la maggiore presenza di italiani all’estero sono nell’ordine l’Argentina (884.187) la Germania (801.082) la Svizzera (639.508) il Brasile (501.482) la Francia (444.113), il Regno Unito (412.382) Gli Stati Uniti (289.685) il Belgio (275.948) la Spagna (203.268) l’Australia (154.532) il Canada (142.980) il Venezuela (106.447) e l’Uruguay (106.460) su di un totale di 5.652.089, comprese altre nazione qui non segnalate. Mentre le regioni italiane dove ci si sposta di più da parte dei meridionali negli ultimi anni sono l’Emilia-Romagna, il Lazio (soprattutto Roma), la Lombardia, il Veneto.
Nel Sud l’emigrazione supera l’immigrazione
Ma la cosa più significativa della quarta ondata migratoria è il fatto che essa si è svolta e si sta svolgendo mentre la nostra è diventata nazione di immigrazione dall’estero, in particolare di quella proveniente dall’Est Europa (dopo la fine dei regimi comunisti) dall’Africa, dalla Cina e dall’America latina. Ed è assurdo che in una nazione segnata profondamente da chi partiva e da chi parte ancora oggi, abbia assunto centralità politica solo il tema di chi arriva da altre parti del mondo, come se ci fosse stata un’opera di totale rimozione storica. È un fenomeno questo da studiare, che ci può dire dell’Italia degli ultimi anni molto più di tanti saggi politici. Gian Antonio Stella ha dedicato due libri all’argomento (L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi e Odissee), altri autori vi hanno scritto romanzi e saggi e la cinematografia ha prodotto bellissimi film, ma il tema non riesce ad imporsi rispetto alla centralità che ha assunto l’immigrazione. Ma, è noto, ciò che avviene al Sud fa poca opinione se non riguarda la criminalità. Eppure si tratta di cifre complessive preoccupanti.
Le rimesse
Nell’emigrazione si mischia il dolore dell’abbandono con l’aspettativa di migliorare la propria vita e quella dei propri cari lasciati nei luoghi natii. E l’offesa delle discriminazioni che gli italiani. hanno conosciuto nelle loro peregrinazioni, negli Usa più che in America latina, Canada e Australia, in Svizzera e Germania più che in Francia, alla pari degli africani e degli asiatici. Discriminazioni che poi i meridionali conosceranno nell’emigrazione nel Nord Italia. L’emigrante è un addolorato speranzoso e motivato, ha una grande voglia di cambiare radicalmente la propria vita e questa sua carica emotiva e fisica si riflette sia nell’economia del Paese dove emigra sia in quello che lascia attraverso le rimesse. Chi è disposto a tutto per uscire dalla miseria (e per diventare qualcuno attraverso il lavoro) si trasforma in un capitale prezioso per le società che lo sanno ben utilizzare. L’enorme peso che le rimesse degli emigranti hanno svolto per le famiglie rimaste nei paesi (e in genere per l’economia italiana) è stata anch’essa sottovalutata.
Nell’emigrazione accanto alle motivazioni personali di chi parte, bisogna valutare anche quelle di coloro che all’epoca governavano l’Italia, che si riassumevano in una essenzialmente: alleggerire la pressione del mondo del lavoro che non trovava sbocchi e allentare le tensioni sociali. Grazie a queste due esigenze (personali e politico-sociali) l’Italia è potuta crescere nei due momenti decisivi della sua storia, a fine Ottocento e dopo la Seconda guerra mondiale. Se la nostra è diventata economicamente una delle nazioni più sviluppate in Occidente lo deve anche ai suoi emigranti.
Solo nel 1970 le loro rimesse (cioè i soldi che essi trasferivano nelle banche o direttamente ai loro familiari) ammontavano a un miliardo di dollari, una cifra enorme, fondamentale per la nostra bilancia dei pagamenti e indispensabile per la tenuta economica dei territori da cui erano partiti. Nel 1980 solo in Sicilia le rimesse furono di 213.027 milioni di lire. E non va dimenticato che tra il 1896 e il 1912 le riserve auree si triplicarono grazie alle rimesse soprattutto degli “americani”. Si può dire tranquillamente che l’emigrazione è stata alla base del decollo economico di fine Ottocento/inizio Novecento del triangolo industriale del Nord ed è stato alla base del miracolo economico italiano tra gli anni Cinquanta/Settanta del Novecento.
Secondo diversi storici ed economisti furono le rimesse degli emigranti a fornire i mezzi finanziari per l’avvio della industrializzazione italiana. Franco Barbagallo lo ha ricordato nel suo libro La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860. Riportando studi di Franco Bonelli lo storico napoletano ricorda come il salvataggio della Fiat nel 1907, colpita da una crisi di liquidità, fu operata dalla Banca d’Italia utilizzando le rimesse spedite tramite il Banco di Napoli dagli emigrati meridionali delle Americhe. Senza quelle risorse la Fiat forse non avrebbe poi assunto un ruolo centrale nell’economia italiana. La Fiat salvata dagli emigranti meridionali è un pezzo di storia che andrebbe ricordato per ribadire le interconnessioni che ci sono sempre state tra la crescita del Nord e il contributo del Sud. Ma l’emigrazione fu importante anche dal punto di vista culturale e del cambiamento di costumi di vita in molti luoghi d’Italia, in particolare nel Sud.
La “mentalità” dei diritti e dei doveri che i lavoratori avevano acquisito all’estero ruppe la subordinazione feudale e creò un clima di autonomia personale e familiare e soprattutto un’apertura di orizzonti che quelle società chiuse non conoscevano da secoli. Un proverbio della Basilicata dice molto di questa novità economica/sociale/culturale: “Li mugliere dell’americane nun mangiane cchiù patane” (le mogli degli americani non mangiano più patate).
Questione meridionale ed emigrazione
L’emigrazione è la vicenda umana che ha più ha segnato la storia “civile” dell’Italia; nel Sud ancora più marcatamente perché si è trattato di un elemento di assoluta continuità, non un’eccezione di un periodo economico difficile, non un fatto limitato nel tempo, ma dato strutturale, un metodo di sopravvivenza e al tempo stesso di riuscita sociale dalla seconda metà dell’Ottocento ad oggi.
La questione meridionale si è manifestata e resa evidente nella storia italiana grazie all’emigrazione permanente dei suoi abitanti. Secondo un dato recente, metà degli italiani all’estero sono meridionali, un terzo del Nord e un decimo del Centro. Su 10 italiani all’estero 2 sono di origine siciliana, 1 campana, 1 pugliese, e 1 calabrese con una discreta presenza di abruzzesi, molisani e lucani. Dei settentrionali, la maggior parte sono veneti, trentini e friulani, mentre elevati sono stati i rientri di piemontesi, lombardi e liguri; tra le regioni dell’Italia centrale, i marchigiani sono i più numerosi all’estero. E in una nazione in cui da decenni la questione dell’immigrazione ha accantonato o rimosso il lungo passato di emigrazione dei suoi abitanti, in particolare nel Sud i numeri degli emigranti (quelli che partono) continua a superare il numero degli immigrati stranieri che vengono a risiedervi. Cioè, chi se ne va non è sostituito da flussi migratori di stranieri negli stessi territori che si spopolano, in quanto, com’è noto e facilmente comprensibile, gli immigrati stranieri scelgono le regioni del Centro-Nord per insediarsi stabilmente perché attratti dalle maggiori possibilità di lavoro.
Lo spopolamento del Sud
Secondo la Svimez, il Sud nel 2065 perderà nel complesso 5 milioni di abitanti, cioè per la prima volta nella sua storia l’emigrazione non sarà compensata né da un alto tasso di natività, come è avvenuto nei cicli emigratori precedenti, né da afflussi di popolazione proveniente dall’esterno. Se a questi dati aggiungiamo quelli relativi al graduale spopolamento delle università meridionali dovuto al fatto che ci sposta verso quelle sedi collocate in territori in grado di dare possibilità lavorative immediate a chi vi si laurea, il quadro è completo. Su 685.000 studenti universitari meridionali in Italia (dati del 2020) ben il 25,6% studia nelle università del Centro-Nord. In numeri assoluti, parliamo di 175.000 ragazzi. Dal Sud ci si sposta sia per lavorare sia per studiare, cioè va via “la meglio gioventù” con un costo sociale, economico, civile incalcolabile. Sempre secondo la Svimez, questo spostamento di popolazione universitaria dal Sud al Centro-Nord nel periodo 2007-2018 ha comportato una riduzione del tasso di crescita del Pil meridionale di quasi 2 punti e mezzo, pari a una media annuale dello 0,20%. Tenendo conto che in tale periodo nel Sud si è registrata una caduta del Pil di quasi il 10%, appare chiaro che se tutti gli studenti meridionali studiassero in università del posto ciò avrebbe dimezzato la perdita di Pil. Ecco cosa vuol dire l’emigrazione universitaria, che è l’ultima aggiornata e inedita versione della tradizionale emigrazione meridionale. Insomma, se vanno via i laureati vuol dire che ci si priva di una parte della potenziale classe dirigente di domani, una sottrazione di possibilità e uno spreco di futuro davvero grave. Dal Sud sta andando via ora una parte della sua élite professionale e culturale.
Mobilità unidirezionale
Si dirà: ma è normale nelle società sviluppate un processo di mobilità così ampio sia per gli studi sia per il lavoro; ciò è tipico delle società aperte e delle economie dinamiche. Certo, sarebbe normale se ci si spostasse in tutta la nazione allo stesso modo, da una parte e dall’altra, dal Sud verso il Nord e dal Nord verso il Sud, dall’Adriatico al Tirreno e viceversa, dalla pianura padana al Tavoliere delle Puglie, dai paesi alpini alla Piana di Gioia Tauro, dal Trentino in Sicilia. Ma purtroppo il problema italiano è la monodirezionalità dei percorsi di mobilità e dei processi di insediamento delle migrazioni interne e non la reciprocità. Si emigra all’interno dell’Italia in senso unico sia se si studia, sia se si è laureati, sia se si cerca lavoro. L’ultimo spostamento dal Nord verso il Sud ha riguardato i veneti nel periodo fascista e nell’immediato secondo dopoguerra verso le paludi pontine e verso la Sardegna, e poi l’attrazione che Roma ha esercitato per gli abruzzesi, i molisani e alcune frange di settentrionali per gli impieghi ministeriali.
Migrare in Italia da ormai troppo tempo è un processo unidirezionale. Negli ultimi decenni è stato segnalato anche uno spostamento di laureati di origine settentrionale verso l’estero, che non ha però la stessa intensità dei meridionali che si spostano nel centro-Nord dell’Italia. È un fenomeno interessante e da non sottovalutare, ma che esprime una chance di realizzazione all’estero per chi già potrebbe farlo nel proprio territorio ed è sicuramente motivata dalle possibilità di guadagnare di più; invece, per i meridionali che si spostano, o da laureati o da lavoratori specializzati, la scelta è quasi obbligata in quanto non avrebbero possibilità di avviarsi al lavoro se restassero nei luoghi dove sono nati e cresciuti. L’Italia ha conosciuto l’emigrazione nei periodi di miseria successivi alla sua unificazione, ha poi conosciuto l’emigrazione anche nel periodo di boom economico che l’ha proiettata tra le prime nazioni più industrializzate del mondo.
Con la differenza che quando c’è stato il boom economico esso ha riguardato solo una sua parte, il Centro-Nord, trovando al suo interno, nel Sud, il suo serbatoio di manodopera, così come l’America l’aveva trovato a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento negli europei. Il Sud ha contribuito a rendere l’Italia un paese competitivo nell’economia globalizzata, ma non è ancora venuto il suo momento storico, quel momento in cui tutta l’esperienza migratoria accumulata nel passato da diverse generazioni possa trasformarsi in capitale per il suo autonomo sviluppo come è avvenuto ultimamente per i veneti, i trentini e i friulani e prima ancora per i piemontesi, i liguri, i lombardi, gli emiliani e di tutti gli altri abitanti dell’Italia che, dopo una esperienza di emigrazione all’estero o all’interno, hanno poi conosciuto uno sviluppo economico notevole. Solo per il Sud l’emigrazione è un’esperienza costante e non una premessa per un radicale cambiamento della sua economia.
Pescatori al lavoro, Trani, 2015. Foto di Giulio Andreini/UCG/Universal Images
L’emigrazione asimmetrica
Come abbiamo visto prima, mentre nel resto d’Italia già gli anni Sessanta vedono diminuire le emigrazioni dalle regioni del Centro-Nord, per poi quasi arrestarsi alla fine degli anni Ottanta del Novecento, quella del Sud ha conosciuto sì un forte rallentamento per un decennio, salvo poi riprendersi tra la fine del Novecento e l’inizio degli anni Duemila. E a proposito di questa ultima fase dell’emigrazione meridionale va segnalato il suo carattere “asimmetrico”. Per emigrazione asimmetrica intendo il fatto che questa è la prima emigrazione che impoverisce i posti da cui si parte, perché non ci sono rimesse che arrivano dagli emigranti ma, al contrario, le famiglie debbono integrare con i loro risparmi il mantenimento dei figli o dei parenti. Una emigrazione, dunque, che diversamente da quelle precedenti non è fonte di “ricchezza compensativa” per il Mezzogiorno.
A causa dei livelli retributivi per lo più bassi che normalmente si percepiscono nelle regioni di arrivo, e a causa della precarietà dei lavori in cui si è impegnati, questa emigrazione ha un costo economico per chi resta, spesso pesante. Le famiglie sono costrette a finanziarla, almeno in parte. Si determina così un triplice impoverimento per il Sud: quello demografico, quello delle famiglie, e quello della bilancia delle partite correnti. È una emorragia che avviene senza prospettive. A differenza della prima emigrazione di massa, quando chi tornava nei paesi di origine era anche in qualche modo portatore di una civiltà “diversa”, straordinariamente diversa da quella di partenza (e portava con sé anche soldi) oggi non ci sono le stesse ricadute economiche né sociali, né culturali.
Stiamo assistendo alla quarta ondata migratoria di massa dal Mezzogiorno d’Italia nel giro di quasi un secolo e mezzo dalla prima. A fine Ottocento partivano i bisnonni, negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento i nonni e i padri, oggi partono i figli e i nipoti. Vanno via le risorse umane più fresche, più giovani, più acculturate e formate del Mezzogiorno. Va via “la meglio gioventù”.
Una emigrazione essenzialmente giovanile, scolarizzata che però trova davanti a sé una precarietà dell’occupazione anche laddove si trasferisce e retribuzioni non adeguate a far fronte alle spese e meno che mai a inviare dei soldi a casa. Con un netto prevalere di lavoro a tempo parziale rispetto a quello a tempo indeterminato. Per dirla in breve: i costi di questa emigrazione superano i ricavi sia per chi parte sia per chi resta. Ieri chi emigrava era caratterizzato da una aspettativa di grandi cambiamenti per sé, per la sua famiglia e in prospettiva per i luoghi che lasciava, in cui sperava di tornare più ricco e più utile per trasformarli secondo le conoscenze e le esperienze acquisite. Oggi non c’è minimamente questa speranza di arricchimento, né la certezza di poter tornare per migliorare i luoghi da cui si è partiti. Un disincanto caratterizza l’emigrazione di oggi. E per di più, questa emigrazione non fa opinione, è senza pathos e umana partecipazione, accompagnata dall’indifferenza della politica, della stampa e delle forze artistiche e culturali. Il senso dell’epopea questa quarta ondata non ce l’ha, e quindi non ha neanche quella stessa capacità di emozionare. In fondo non partono i diseredati, non partono con le valigie di cartone, non incontrano un mondo che non conoscono e da cui sono spaventati e attratti al tempo stesso. Quelli di oggi parlano un perfetto italiano e non il dialetto, non hanno costumi e abitudini diversi dai loro coetanei centro-settentrionali. E viaggiano non su navi o ferrovie che impiegano una vita per trasferirli. Si tratta di una vera e propria spoliazione senza compensazione. Perché questa emigrazione si colloca in un cambiamento epocale di alcuni tratti degli stili di vita dei meridionali. I giovani si sposano tardissimo, fanno pochissimi figli, uno, uno e mezzo in media rispetto ai quattro della generazione precedente. È una generazione spaventata dall’idea di fare figli per non trasmettere loro la precarietà da cui si sentono circondati. Si può dare loro torto?
Siamo di fronte a un vero e proprio cambio culturale, a una concezione della vita molto distante da quella dei padri e dei nonni. Insomma, c’è una crisi di natalità che ha interrotto storicamente una delle caratteristiche dell’identità meridionale, cioè fare più figli e vivere in famiglie numerose. L’emigrazione meridionale di oggi, dunque, si inserisce in un processo di radicale modifica della struttura demografica e non è compensato da un parallelo flusso di immigrati. Oggi più emigrazione e meno nascite, nel futuro più disoccupati, più vecchi e meno giovani nelle piazze e nelle case del Sud. Resta, insomma, a chi emigra oggi il doppio rammarico di non potersi rendere totalmente autonomo né di fare qualcosa per migliorare i luoghi da cui si va via. Avvertono di poter essere più utili restando, ma non se lo possono permettere. Per tutti questi motivi, l’ultima fase della storia della emigrazione meridionale la possiamo definire “emigrazione a perdere” rispetto a tutte quelle del passato. A meno che non succeda qualcosa negli orientamenti delle classi dirigenti della nazione da ribaltare radicalmente questo impotente disincanto.
Questo articolo è stato pubblicato su Repubblica il 28 aprile 2022