Tempo, narrazione e politica

di Gian Andrea Franchi /
16 Gennaio 2023 /

Condividi su

La qualità temporale di ciò che chiamiamo epoca o periodo storico dipende dalla capacità di costruire una narrazione con cui percepire, elaborare e affrontare il mistero del tempo, che contiene la nascita e la morte. La narrazione è il modo in cui affrontiamo il tempo e insieme ne nascondiamo il mistero che sempre sfugge: miti, religioni, poi narrazioni storiche propriamente dette.

Le grandi religioni del libro sono l’esempio più evidente e più forte di affrontare il mistero del tempo, della vita, con grandi narrazioni intorno a cui si costruiscono intere culture. Nella cultura greca possiamo leggere un processo lineare: dalle narrazione mitologiche sull’origine degli esseri umani ai grandi poemi, L’Iliade, l’Odissea, alla tragedia, alle storie di Erodoto e Tucidide.

Istoréo in greco vuol dire investigo, esploro, osservo, indago, ricerco; istoría, quindi, indagine, investigazione e poi relazione orale o scritta, narrazione (vocabolario Rocci).

Narrazione significa stabilire una connessione temporale (e spaziale), una dicibilità del tempo, una direzione, un senso, in cui ciò che nominiamo “presente” è connesso a un “passato” e in qualche misura immagina, prevede ciò che chiamiamo futuro. Narrare implica il tentativo, sempre destinato ad avvolgersi nell’immaginario collettivo più vago, di risalire alle origini, di far tacere o addormentare l’angoscia del non sapere chi siamo, donde veniamo e dove andiamo. Sono in gioco le fasi essenziali della vita: la nascita e la morte. Narrare vuol dire costruire una genealogia. Le grandi religioni ci indicano un padre assoluto che dovrebbe far tacere l’angoscia del non sapere donde veniamo e dove andiamo. La narrazione, il racconto, è dunque il modo d’esistere dell’essere umano per ordinare il tempo e lo spazio, per affrontare l’ignoto della vita.

Il bambino si affida all’adulto per una narrazione che gli consenta di vincere l’angoscia tramite il gioco che è appunto una forma elementare e profonda di narrazione che gli permette di fare esperienza, di narrare in qualche modo le emozioni profonde. Se c’è un “malinteso” con l’adulto nasce il trauma infantile della perdita di fiducia, l’identificazione con l’adulto scompare e nasce una fuga verso l’irrappresentabile, “fuori dal tempo”.

Il carattere insopportabile di una situazione conduce a uno stato psichico simile al sonno dove ogni eventualità può essere trasfigurata come nel sogno” (S. Ferenczi, in M. Cabrè, “La temporalità e il trauma” in Il tempo incantato. Riflessioni psicanalitiche sulla temporalità della vita, Franco Angeli ed. Milano 2017, pp. 58, 60).

Anche per l’adulto

un dolore molto grande è un dolore senza rappresentazione nel quale il soggetto è fuori dal tempo cronologico, dal tempo della storia” (A. De Coro, “Fantasia e delirio nei pazienti gravi: la declinazione del tempo” in Il tempo incantato, cit., p. 107).

Freud aveva parlato di una ”esigenza di eternità” (“Caducità”, 1915, Opere, VIII, p.174) come effetto dell’angoscia per la morte, quindi di un inconscio desiderio d’immortalità da parte degli esseri umani. Diversi psicanalisti ritengono che la schizofrenia sia un’estrema difesa di fronte “al fatto che la vita è mortale” (Searles, 1961). Freud e poi Winnicott avevano anche osservato in alcuni giochi e abitudini infantili (il gioco del rocchetto, gli oggetti transizionali) le forme simboliche per rendere sopportabile fino a un certo tempo l’assenza della madre, del “caregiver”, la mancanza: forme di narrazione oggettuale, forse alla base dell’arte figurativa.

Individuare, nominare e qualificare una fase storica implica una narrazione. La narrazione, insomma, nelle sue varie forme, è il modo fondamentale con cui gli esseri umani cercano di dar senso e di poter fare esperienza del tessuto temporale (e spaziale) della vita. Come è noto, Walter Benjamin elabora la sua importante meditazione sulla diffusa incapacità di fare esperienza dopo i massacri della Prima guerra mondiale che avevano alterato la capacità simbolica, narrativa, della gente provata da anni di quotidiana morte di massa: il gioco collettivo adulto del rocchetto freudiano si era interrotto.

La mia lunga vita mi consente di fare esperienza di un grande cambio o perdita di narrazione. Confronto gli anni Sessanta-Settanta del Ventesimo secolo con il periodo attuale, con questo ormai avanzato debutto del ventunesimo secolo.

Allora erano attive diverse narrazioni in durissimo contrasto. Da una parte, le narrazioni di potere: quella degli Stati, ciascuno con la sua storia patriottica e nazionale di rimando a una catena patriarcale di nascite, che generano più o meno evidente razzismo; e quella dell’Economia di mercato dominante che, in varia misura, le controllava. Ma era inoltre molto attiva un’altra narrazione, molto articolata, che risaliva all’illuminismo radicale della seconda metà del XVIII secolo, ad esempio Rousseau, e soprattutto alla Rivoluzione francese, modello di ciò che si chiamava “rivoluzione”. In seguito, ci fu uno sviluppo ricchissimo sociale e intellettuale, estremamente complesso e drammatico: dalla Rivoluzione francese al 1848, alla Comune di Parigi del 1871, allo sviluppo del marxismo – o forse meglio: dei marxismi – e dell’anarchismo, alla Rivoluzione sovietica, che perde il suo impeto migliore con la repressione della comune di Kronstadt (1921), alla rivoluzione cinese (1946-’49) e via via fino all’involuzione finale dell’URSS nel 1991.

Entro questo vastissimo, tumultuoso filone storico, nato in Europa, ma divenuto mondiale, estremamente complesso e con una ricchissima letteratura, si inseriscono nell’Italia degli anni Sessanta-Settanta, in cui agiva il più forte partito comunista filosovietico d’Occidente, una serie di lotte operaie, anche molto forti e diffuse e poi, alla fine degli anni Sessanta, il movimento degli studenti. Verso la metà degli anni Sessanta cominciano a nascere anche tutta una serie di sviluppi organizzativi e un vasto complesso di narrazioni e pratiche politiche, che si articolano in gruppi ben definiti di attivisti: da Lotta Continua al Manifesto – un manipolo di intellettuali uscito dal PCI -, da Potere Operaio all’Autonomia operaia. Vi emergono diversi intellettuali e leader di spicco. Più tardi, dalla metà degli anni Settanta, sorgono anche gruppi che praticano forme di lotta armata. A tutto ciò lo Stato, il cui apparato era rimasto quello prebellico e che aveva consentito la nascita di un partito di evidente matrice fascista fin dal 1946, risponde, anche attraverso le sue mani illegali, in modi di estrema violenza, fin dal dicembre del 1969: la strage della banca dell’Agricoltura di Milano.

In quegli anni si era dunque sviluppato un filone narrativo, in diversi e anche contrastanti racconti, ma tutti riconducibili alla grande scansione storica Rivoluzione francese-Rivoluzione sovietica, entro cui movimenti sociali e gruppi più o meno organizzati elaboravano, con la critica del presente, immaginari e rappresentazioni di un futuro alternativo. Ciò avveniva in un diffuso clima emotivo e culturale, in tutta Europa e in molte parti del mondo, attraversato dalla viva speranza di cambiamenti radicali.

Nel quarantennio successivo, a cominciare dagli anni Ottanta, conclusi con il forte impatto simbolico del collasso dell’Unione Sovietica, questo attivo patrimonio storico sembra essersi consumato nella sua spinta al cambiamento sociale, di cui ormai restano soltanto residui.

Il grande fiume di narrazioni rivoluzionarie, che ha attraversato due secoli, si è inaridito. Oggi manca una narrazione collettiva storica e politica diffusa, che consenta di narrare il tempo. Ciò produce angoscia e quindi rimozione. Prevale il tempo del potere, il tempo astratto dell’economia, con la sua ossessiva narrazione sterile e violenta, a lungo andare chiaramente mortifera. Questo dominio, apparentemente incontrastato, sta producendo ormai da tempo, una crisi irreversibile dell’equilibrio biologico e geologico della vita, cui consegue l’estrema difficoltà a immaginare il futuro. La perdita dell’immaginario e della concettualizzazione storica della rivoluzione e la distruzione ambientale sembrano portare a una sorta di paralisi.

Possiamo dire che negli anni Sessanta-Settanta del Novecento, l’azione politica radicale aveva un atteggiamento deduttivo, partiva cioè da narrazioni in atto che si ritenevano consolidate, da cui deduceva di volta in volta i modi di azione concreta. Oggi invece dobbiamo indurre dall’esperienza della situazione concreta in cui ci troviamo a esistere elementi di narratività del futuro, quindi di molto relativa prevedibilità. Questo si accompagna a una de-occidentalizzazione del pensiero politico, all’attenzione verso esperienze di resistenza e lotta che affondano in culture extraeuropee che l’Occidente ha violentato e disprezzato, nelle Americhe, in India, in Africa e altrove.

Quando parlo di situazioni concrete, mi riferisco, per esperienza diretta, al caso esemplare delle migrazioni attuali: dal Medioriente, dall’Africa, ma anche dal Sudamerica verso il Nord. Queste sono prevalentemente migrazioni di profughi, dovute alla distruzione indotta dal dominio globale economico-politico, nella sua complessa articolazione fra grandi potenze “imperiali”, come Usa e Cina e insieme dall’assurda riduzione del potere economico a pochissimi centri, come i fondi d’investimento, grandi banche, borse e poco altro.

I migranti sono la voce del futuro che sicuramente – una delle poche certezze – sarà un futuro di grandi migrazioni dai moltissimi luoghi della terra dove la vita sarà impossibile o quasi o comunque durissima. I migranti inoltre portano, ben oltre la loro consapevolezza, una critica dell’identità statale, del controllo statale della produzione di soggettività, oggi così evidente nella riduzione delle società ad agglomerati passivi di individui isolati e contrapposti. I migranti, al di là delle loro intenzioni, sono senza patria, senza Stato, sono nuda vita umana, uomini nudi di istituzioni di controllo, che ci propongono con il loro esserci nuove forme di solidarietà, di speranza, di vita collettiva priva di identità statali: ci propongono nuove possibilità di narrazione…

Il migrante infatti mette in gioco ogni giorno il tempo e lo spazio, viene-da-e-va-verso, in un tempo di fuga inciso nel corpo, in uno spazio ostile. La parola inglese “game”, che tutti i migranti usano per indicare il loro tempo-spazio, esprime perfettamente la loro esperienza: il migrante è fuori di sé, privo di mondo, sempre altrove, non è più donde viene, non sarà mai dove va, come scrive il grande scrittore afghano Atiq Rahimi.

E oggi la manifestazione di “un diritto ad avere diritti”, come scriveva Hannah Arendt sulla sua esperienza di apolide perseguitata, si trova di fronte a un futuro in cui riguarderà un parte degli esseri umani, senza più la speranza di nuove patrie violente, come tutte le patrie, come tristemente avvenne in seguito per gli ebrei dopo la Seconda guerra mondiale, nella disperata violenta ricerca di una patria immaginaria. Il diritto fondamentale, il diritto a vivere una vita degna di essere vissuta, non può esser riconosciuto da nessuna forma di potere, perché il potere consiste proprio nel poter decidere se riconoscere o meno a qualcuno la dignità di vivere.

Il discorso, inoltre, deve oggi allargarsi anche ad altre forme di vita. Ma sono tante le situazioni in cui è possibile iniziare pratiche pensanti di resistenza, lotta e cura dell’altro come base dell’essere sociale – tutta la società ne è costellata: il mondo del lavoro, penso al caso della fabbrica GKN; penso alla Val di Susa; qualunque situazione di sofferenza, ingiustizia, disagio può dare lo spunto in società dominate da quello che è stato chiamato “fascismo sociale”: oggi è diffuso ovunque, con la fine della democrazia rappresentativa, conclusa quando classi e movimenti sociali hanno perso la capacità di costringere gli Stati e i centri di potere economico ad accogliere, sia pur parzialmente, alcune esigenze di fondo, ad esempio, per la salute pubblica e l’istruzione, la condizione familiare… – fascismo sociale in Italia oggi fin troppo evidente.

Il punto è non restare isolati, chiusi nella propria azione ma, fin dall’inizio, tessere tela politica, reti, ricostruire la società dal basso, fuori e contro lo Stato, non più cercando di localizzare una grande narrazione già data, ma costruendo una nuova narrazione plurale, cioè un tempo-spazio dotato di senso, partendo dalla situazione in cui ci si trova. In qualche modo, con i limiti di una situazione che scivola sempre nella complicità umanitaria, la Piazza del Mondo (riferimento a Piazza della Libertà di Trieste, dove l’associazione Linea d’ombra accoglie i profughi della “rotta Balcanica”) ne può essere un piccolo esempio, con la sua rete di solidarietà che la mantiene in vita da tre anni…

Questo articolo è sato pubblicato su Comune il 13 gennaio 2023. Immagine di copertina, migranti della rotta Balcanica a Trieste, di Lorenza Fornasir

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati