Comunità maya ai tempi del Covid-19

23 Giugno 2020 /

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di Alessandro Bricco

 

Mentre da Città del Messico il sottosegretario alla salute annuncia la fase tre, in Yucatán alcune comunità maya si ribellano alle misure sanitarie imposte dal governo

 

Oriente dello Yucatán, Uspibil, 3 maggio 2020. Gli altoparlanti e le campane avvisano gli abitanti di una riunione nella piazza principale: il commissario municipale[1] comunicherà le nuove misure per combattere il virus. Sembra che ci sia un caso sospetto di Covid-19 nella comunità vicina: per 14 giorni nessuno potrà entrare o uscire dal paese.  È la goccia che fa traboccare il vaso.

Da un mese, come in molte altre comunità maya della penisola yucateca, sono stati creati posti di blocco all’ingresso di ogni centro abitato e nessuno può entrare a meno che non abbia un documento che comprovi la sua residenza nel paese. Alcune banconote nelle mani giuste possono però aprire molte porte e i camion della grande distribuzione entrano ed escono dai centri abitati senza problemi. I piccoli negozi familiari hanno alzato i prezzi e si giustificano spargendo la voce che è l’unica maniera per recuperare il rincaro imposto dai camionisti.

La gente però non ha più soldi, ha perso il lavoro nel settore turistico da più di un mese.  Mentre quelli che si dedicano anche all’agricoltura tradizionale –con l’ aiuto di agro-chimici venduti a basso costo dal governo– potrebbero vendere i prodotti della milpa[2] se non fosse per l’impossibilita di entrare nei centri abitati limitrofi. Gli aiuti economici del governo non arrivano e si vocifera che il commissario li distribuisca tra amici e familiari: chi non è d’accordo con questa politica e si è visto arrivare in casa la polizia che, con la scusa di sequestrare alcol clandestino, ha portato via o distrutto ciò che ha trovato nelle case. L’ambulatorio comunitario non vede arrivare personale sanitario da mesi, non parliamo di tamponi o informazioni su cosa sia il Covid-19.

Al comunicato del commissario gli abitanti rispondono con pietre e bastoni. Viene chiamata la polizia che, dopo alcuni scontri e uno scudo rotto, è costretta a ripiegare, facendo notare al commissario che convocare una riunione di 500 persone in piena pandemia è pura follia.

È ormai passata una settimana quando mi arriva la notizia dei fatti tramite l’articolo di un giornale locale inviatomi da Jesus, il maestro della scuola indigena di Uspibil, nonché rappresentante della CNTE[3].

Letto l’articolo, chiamo immediatamente un amico del villaggio che mi dice che la polizia ha provato a portare via un anziano e che la gente insorta lo ha difeso e nascosto nelle proprie case. Chiedo com’è ora la situazione e mi risponde che non c’è da preoccuparsi: la mancanza di alcol, di mascherine e di informazioni non è un gran problema; la pandemia era stata prevista nella Bibbia e annuncia grandi cambiamenti. La mancanza di lavoro e il pessimo raccolto dell’anno passato preoccupano molto di più. Quando gli chiedo che fine hanno fatto i posti di blocco, risponde ridacchiando: “credo che stamattina li abbiano rimessi ma oggi pomeriggio andiamo a disfarcene”.

Dal 23 marzo, quando il governo federale ha cominciato ad implementare misure per far fronte alla pandemia ai governi locali è stato più volte raccomandato di applicarle nel rispetto dei diritti umani.

In Yucatán però diversi presidenti municipali si sono dimostrati alquanto “creativi”: attraverso un video-messaggio, il sindaco di Sukilá ha fatto sapere che solo chi non presenta ritardi nei pagamenti dell’acqua potabile potrà acquistare un flacone di gel e una bottiglia di alcol per famiglia. A Izamal è stato istituito il coprifuoco dopo le 21 da quando una residente è morta a causa del Covid-19. A Human il sindaco ha annunciato che arresterà chi non rispetta il coprifuoco, specialmente bambini, giovani e i loro genitori, se si lamenteranno delle misure di sicurezza.

In altri casi l’esasperazione e la poca o nulla informazione in lingua maya yucateca hanno causato risposte estreme da parte della popolazione. È il caso della località turistica di San Crisanto dove a due anziani residenti canadesi è stato impedito di entrare a casa propria, o del villaggio di Muná, dove gli abitanti hanno minacciato di bruciare le case delle persone infette. Sembra che nella maggior parte dei paesi il Covid-19 sia visto come uno stigma: il solo sospetto può determinare l’isolamento sociale del possibile infettato e della sua famiglia. In alcune comunità sono stati creati addirittura gruppi Facebook dove si fanno nomi e cognomi dei sospetti infettati.

“Non c’è informazione, la gente segue le notizie in televisione ma fino ad ora non sono stai fatti comunicati in lingua maya” mi dice Juanek[4], impiegato della sanità pubblica e nato a Quisteil, una comunità che sorge a pochi chilometri da Mérida e che ha dato i natali al ribelle maya del XIX secolo, Jacinto Canek. “Lavoro nel villaggio di Tahdziu e per ora non è stata fatta nessuna riunione con gli abitanti. Ci hanno dato alcuni cartelli in maya yucateco e li abbiamo appesi all’entrata dei negozi, molti però non li sanno leggere”, spiega Juanek.

Dalla disinformazione e da 500 anni di colonialismo nasce la paura. Quella paura che secondo un’altra lavoratrice della sanità fa rifiutare il tampone alle famiglie della comunità in cui lavora. “Temono di essere additati come untori ed essere tagliati fuori dalle relazioni sociali basiche del villaggio”. La maggior parte dei contagi, aggiunge, avviene nelle strutture sanitarie dove i dispositivi di protezione personale devono essere comprati dagli stessi lavoratori e dove gli abitanti evitano di recarsi per timore di essere infettati.

E la paura è la stessa che ha fomentato il sindaco di Peto quando è apparso in conferenza stampa dicendo che Bernardino Canul, abitante della frazione di Xoy, è deceduto con sintomi di Covid-19 e che la colpa è dei suoi figli che sono tornati da Cancún e hanno portato il morbo.

La morte di don Bernardino è stata un duro colpo per tutto l’attivismo peninsulare: era un integrante fondamentale di Guardianes de las Semillas (Guardiani dei Semi), un’associazione che si dedica alla salvaguardia e al ripristino delle sementi originarie che stanno scomparendo a causa della agro-industria.

La negligenza sanitaria ha marcato le ultime ore di vita di don Bernardino. Nel pomeriggio del 28 aprile Bernardino Canul è arrivato all’ambulatorio di Peto con sintomi di insufficienza respiratoria; il personale medico, sospettando un possibile caso di Covid-19, ha ordinato il suo trasferimento a Mérida —a circa 135 chilometri di distanza— nonostante il centro più vicino, Tekax, fosse ad appena 10 chilometri. Arrivato a Mérida i medici lo hanno rimandato a Tekax, perché non corrispondeva al loro distretto, ma la mattina dopo è stato ritrasferito a Mérida in condizioni critiche e senza avvisare i parenti.

É in serata quando il sindaco di Peto fa il suo annuncio nella piazza della comunità di Xoy: don Bernardino é deceduto per Covid-19. La famiglia arriverà a Mérida durante la notte per prelevare il corpo e portarlo alla comunità senza nessuna precauzione, il certificato di morte parla di polmonite comunitaria. Gli abitanti di Xoy, terrorizzati dalle parole del sindaco, faranno pressione sulla famiglia affinché se ne vada dalla comunità.

Juanek, che era amico di don Bernardino, insieme all’organizzazione Múuch Xíimbal[5] accusa il sindaco di non aver rispettato il diritto alla privacy e denuncia le gravi negligenze del sistema sanitario. Juanek è anche vicino alla famiglia che si é ritrovata in una posizione delicata, soprattutto quando gli abitanti di Xoy sono stati fermati al posto di blocco di Peto perché provenivano da un villaggio infetto.

Approfitto della telefonata per chiedere a Juanek cosa pensa dei posti di blocco e della limitazione della mobilità personale: “Rispetto la scelta quando la prendono gli abitanti, significa che capiscono la gravità del problema, che si riuniscono, che prendono una decisione e la mettono in pratica. Il lato negativo è che non si fanno entrare le persone delle altre comunità ma si lascia libero transito ai camion che portano bibite e snack di imprese che stanno avvelenando la nostra gente. Come sempre: apriamo le case agli stranieri invasori e non ai nostri vicini”.

Nel 2018 più del 75% della popolazione messicana soffriva di obesità o sovrappeso; più del 18% soffriva di ipertensione e più del 10% era affetta da diabete mellitus[6]. I numeri sono così preoccupanti che già nel 2016 il governo aveva dichiarato l’emergenza nazionale epidemiologica di diabete: in quell’anno ci furono più di 105.000 decessi per malattie relazionate a questa patologia. Rispetto al sovrappeso e all’obesità, il Messico si gioca tutti gli anni il record con gli Stati Uniti ma vince decisamente rispetto al resto dell’America Latina, posizionandosi al primo posto per consumo di alimenti e bevande ultra-processate. Il risultato sono 400.000 morti l’anno per patologie relazionate con l’obesità e il sovrappeso. Ad oggi, 17 giugno, le morti per Covid-19 hanno raggiunto la cifra di 18.310, solo il 26% dei defunti non presentava nessuna comorbilità come obesità, diabete e ipertensione.

I problemi però non nascono solo a causa degli stranieri e non si riducono alle pessime abitudini alimentari. Juanek mi racconta che il ritorno alle comunità di chi, per lavoro, è emigrato a Mérida, Cancún o Playa del Carmen ha generato tensioni.  Licenziati o messi in lista d’attesa per impieghi sottopagati nel turismo e nella costruzione, migliaia di lavoratori e lavoratrici si ritrovano ora senza mezzi per guadagnare denaro e senza conoscenze per coltivare la milpa. In molti hanno cominciato a disboscare per produrre e vendere carbone in attesa che di ritornare alla loro normalità. “Urge organizzarsi con una visione maya, produrre per mangiare e non produrre per vendere”, mi spiega e con queste parole. Ci salutiamo aspettando di poterci rincontrare di persona, in una normalità che sarà realmente nuova solo se riusciremo a praticare paradigmi lavorativi, alimentari e sanitari meno funzionali al capitale e più vicini al territorio e ai suoi abitanti.


*Foto di copertina di Alessandro Bricco, Messico (2020)

[1] Massimo rappresentante dello stato nella comunità

[2] Campo seminato secondo un sistema agro-ecologico anteriore all’invasione spagnola. In esso si seminano il maíz insieme a pomodori, zucche, fagioli, peperoncini ed altri prodotti sinergici dal punto di vista agricolo, nutrizionale ed economico.

[3] Coordinadora Nacional de Trabajadores de la Educación (Coordinatrice Nazionale dei Lavoratori dell’Educazione): sindacato dissidente e alternativo al SNTE (Sindicato Nacional de Trabajadores de la Educación), fondato nel 1979. Da sempre denuncia la cooptazione della SNTE, la poca democrazia al suo interno e sostiene le lotte più dure del settore educativo, come quella che avvenne nel 2016 nello stato di Oaxaca.

[4] Pseudonimo scelto dall’intervistato per proteggersi da eventuali ripercussioni lavorative.

[5] Assemblea dei Difensori del Territorio Maya, si occupa prevalentemente della difesa dei diritti umani e ambientali della popolazione maya yucateca. Negli ultimi anni si é dedicata a diffondere informazioni e lottare contro il megaprogetto denominato Tren Maya (Treno Maya).

[6] I dati citati sono tratti dalla Encuesta Nacional de Salud y Nutrición e dall’articolo Covid-19, diabetes e hipertensión: el cruce mortal en México di Verónica Espinosa.

 

Questo articolo è stato pubblicato su l’America Latina il 22 giugno 2020

 

 

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