1. La cd. fase 2 e le misure poste in essere dal Governo a sostegno dei genitori che lavorano
Nella prospettiva della graduale uscita del Paese dal lockdown è partita, dallo scorso 4 maggio, la c.d. fase 2: la ripresa ha inizialmente riguardato – in aggiunta alle attività essenziali mai interessate dal blocco -, le attività dell’industria manifatturiera, dell’edilizia e del commercio all’ingrosso[1], oltre che alcune attività del commercio al dettaglio ritenute essenziali[2]. A partire dal 18 maggio è stata, poi, disposta la riapertura – scadenzata – delle ulteriori attività economiche nel rispetto dei protocolli e linee guida, idonei a prevenire o ridurre il rischio di contagio nei diversi settori, adottati dalle regioni (o dalla Conferenza delle Regioni e delle province autonome) sulla base dei principi contenuti nei protocolli e nelle linee guida nazionali[3].
Per quanto qui di interesse, una recente indagine statistica condotta in ambiente interuniversitario[4] – i cui dati peraltro sembrano confermati dall’ultimo focus «Mamme e lavoro al tempo dell’emergenza Covid-19» della Fondazione dei Consulenti del Lavoro[5] -, aveva già evidenziato l’esistenza di un rilevante squilibrio di genere nella distribuzione della forza lavoro tornata attiva dopo le riaperture del 4 maggio, composta per ben il 72% da uomini. Il dato non stupisce se si considera che il genere maschile è quello di fatto predominante nell’industria manifatturiera e nel settore edile, tra i primi a ripartire.
Lo squilibrio di genere è stato assente nella composizione della forza lavoro sempre rimasta attiva durante il lockdown: nell’ambito delle “attività essenziali”, in modo particolare nei servizi socio-sanitari e nelle attività intellettuali libero-professionali, le donne infatti non hanno mai smesso di lavorare e sono state presenti in misura più o meno pari agli uomini (50,8% uomini e 49,2 % donne).
Tale squilibrio tuttavia, pur in parte ricomposto sulla carta a seguito delle riaperture del 18 maggio[6], rischia di aggravarsi nei prossimi mesi avuto riguardo alla effettività della partecipazione delle lavoratrici e, in particolare delle lavoratrici madri, al mondo del lavoro.
La chiusura delle scuole di ogni ordine e grado disposta dal Governo a partire dal 2 marzo, in uno con l’aumento esponenziale dei compiti di cura, accudimento e istruzione della prole, ha infatti riproposto alle lavoratrici madri la scelta ancestrale tra la cura dei figli e il lavoro, rievocando, come in ogni crisi economica che si rispetti, il fantasma di un “ritorno al passato” neppure troppo lontano.
Se è pur vero che le misure adottate dal Governo per fornire sostegno alle famiglie, a fronte della sospensione dei servizi scolastici, sono state riconosciute in favore di entrambi «i genitori lavoratori», vi è il rischio concreto che le stesse non risultino idonee a garantire una reale parificazione di genere nella gestione delle nuove esigenze familiari, determinate dalla pandemia in atto.
Non è, in effetti, prevista alcuna misura che incentivi i padri, rispetto alle madri, ad usufruire del c.d. “congedo covid”: si pensi, ad esempio, alle premialità previste da alcuni paesi Europei nel riconoscere un maggior numero di giornate di congedo parentale ai genitori che lo condividono in modo paritario; o, ancora, alla recente raccomandazione rivolta dal Parlamento Europeo agli Stati membri di prevedere, nelle legislazioni nazionali, misure volte a stabilire che almeno una parte del congedo parentale debba essere goduta in via esclusiva da ciascun genitore[7].
Né l’indennizzo del “congedo covid” garantisce al genitore che se ne avvale la retribuzione piena: per tale motivo è presumibile ritenere che ad usufruire del congedo saranno in percentuale maggiore le lavoratrici madri, soprattutto in quei contesti lavorativi nei quali già esiste un gap retributivo tra uomini e donne a parità di mansioni svolte.
Si consideri, infatti, che il congedo previsto per i lavoratori subordinati del settore privato, genitori di figli minori di anni 12 (limite di età che non opera per i figli disabili/portatori di handicap) – la cui durata massima, inizialmente prevista dal “decreto Cura Italia”[8] in 15 giorni (da godere anche in via frazionata), è stata estesa fino a 30 giorni dal “decreto Rilancio”[9] (con conferma della possibilità di frazionamento, estesa al periodo dal 5 marzo al 31 luglio 2020) -, è tuttora compensato con un’indennità pari al 50% della retribuzione di riferimento.
Lo stesso congedo, con la medesima durata massima, è previsto per i genitori lavoratori iscritti alla Gestione Separata INPS: il congedo risulta, tuttavia, compensato con una diversa indennità calcolata in misura percentuale sui rispettivi redditi.
La durata massima del congedo parrebbe, invece, a tutt’oggi estendersi “sine die” (per tutta la durata del periodo di sospensione dell’attività scolastica) per i genitori con figli fino a 16 anni: per tale congedo non è prevista, tuttavia, la corresponsione di alcuna indennità, né la copertura con contribuzione figurativa, pure a fronte della previsione espressa – come se ce ne fosse davvero bisogno (!) – del divieto di licenziamento e del diritto alla conservazione del posto per i lavoratori che ne fruiscono.
Anche per i genitori lavoratori dipendenti del settore pubblico è confermato dal “decreto Rilancio” il congedo già previsto dal “Cura Italia”, da fruire per tutta la durata del periodo di sospensione dell’attività scolastica e con compensazione della medesima indennità prevista per il settore privato, con la sostanziale differenza che è rimessa all’amministrazione pubblica «l’indicazione delle modalità di fruizione del congedo».
Si consideri, poi, che neppure lo strumento previsto in alternativa al “congedo covid”, il c.d. “bonus” in voucher da euro 10 ciascuno erogati tramite il libretto famiglia, sembra idoneo a sollevare le famiglie dal rischio di dover sopportare maggiori costi per la cura e l’assistenza dei figli minori, non garantendo la copertura dell’intero orario lavorativo del genitore che ne usufruisce.
Ciò, neppure a seguito delle novità introdotte dal “decreto Rilancio”, che ha innalzato l’ammontare massimo del bonus – inizialmente previsto in euro 600 per i lavoratori privati e in euro 1.000 per i lavoratori pubblici – rispettivamente, fino a euro 1.200 e 2.000, altresì estendendone la possibilità di utilizzo, oltre che per l’acquisto di servizi di baby sitting, anche per l’iscrizione ai servizi integrativi per l’infanzia e la prima infanzia (per la cui riapertura sono state emanate dal Governo le relative linee guida, di cui all’all. 8 del “decreto Rilancio”).
L’inefficacia delle misure sopra riportate è più evidente per le lavoratrici autonome[10] le quali, già in un contesto ordinario, non beneficiano della medesima tutela della maternità prevista per le lavoratrici dipendenti. Nell’attuale fase emergenziale, tali lavoratrici risultano ancor più penalizzate, se si considera che – a fronte della mancata percezione di un reddito fisso e garantito – le stesse non beneficiano di alcuna misura di sostegno del reddito che le garantisca da un’assenza prolungata dall’attività, per dedicarsi alla cura dei figli (se si eccettua il bonus autonomi previsto per il mese di aprile dal “decreto Cura Italia” e confermato dal “decreto Rilancio” anche per il mese di maggio).
2. Il rischio della fuoriuscita delle lavoratrici madri dal mondo del lavoro
Il prospettato rischio della progressiva fuoriuscita delle lavoratrici madri dal mercato del lavoro sembra trovare una prima conferma nei dati provvisori relativi agli occupati e disoccupati diffusi dall’Istat nel mese di aprile. I dati confermano che, rispetto al mese di febbraio, nel mese di marzo 2020 l’occupazione è in lieve calo (-0,1% pari a -27mila): il calo, tuttavia, coinvolge le donne (-0,2%, pari a -18mila) in misura pari al doppio rispetto agli uomini (-0,1%, pari a -9mila)[11].
In un recente articolo pubblicato dal Cnr-Iriss[12] si dà conto della preoccupazione espressa in tal senso dallo stesso Segretario Generale delle Nazioni Unite in occasione della presentazione, in data 9 aprile 2020, del «policy brief relativo all’impatto del Covid-19 sulle donne. Nel documento sono individuati cinque diversi ambiti in cui la pandemia produrrà un impatto specifico sulle donne, aggravando disuguaglianze di genere preesistenti e generando nuovi problemi. La premessa alla base di questa analisi è che gli effetti della pandemia in corso saranno particolarmente gravi per le donne «simply by virtue of their sex» (v. p. 2 del policy brief). In particolare, l’impatto del Covid-19 sulle donne viene commentato con riferimento all’ambito economico, alla salute, al lavoro di cura non retribuito, alla violenza di genere e a particolari contesti di fragilità, conflitto o altre emergenze».
E in effetti, tale rischio si inserisce in una situazione già fortemente compromessa dalla crisi che ha colpito il mercato del lavoro negli ultimi anni.
L’ultimo rapporto Istat riferito ai dati dell’occupazione femminile nel 2018, infatti, evidenzia l’esistenza in Italia di un divario di genere nei tassi di occupazione tra i più alti d’Europa (circa 18 punti su una media europea di 10)[13].
In Italia, la partecipazione delle donne al mondo del lavoro risulta ancora molto legata ai carichi familiari: nel 2018 tasso di occupazione delle madri (da 25 a 49 anni) con figli in età prescolare è più basso del 26% rispetto a quello delle donne senza figli.
La conciliazione dei tempi di lavoro con quelli di vita familiare risulta difficile per più di un terzo degli occupati (entrambi i genitori) (35,1%) che hanno responsabilità di cura nei confronti di figli, in particolare quando i figli sono più di uno (36,8% dei genitori) o in età prescolare (37,8%). Ma sono soprattutto le donne ad aver modificato qualche aspetto della propria attività lavorativa per combinare meglio il lavoro con le esigenze di cura dei figli. Le principali modifiche apportate riguardano la riduzione o il cambiamento dell’orario di lavoro: il 38,3% delle madri occupate ha dichiarato di aver apportato almeno una modifica, contro l’11,9% dei padri occupati. Percentuale che per le madri occupate di bambini tra 0 e 2 anni sale al 44,9%, mentre per i padri con figli nella stessa classe di età è di poco inferiore al 13%.
L’Istat rileva che la disparità di genere riguarda anche la condivisione dei carichi familiari: la percentuale del carico di lavoro familiare svolto dalla donna (25-44 anni) sul totale del carico di lavoro familiare è del 67%, con sovraccarico tra impegni lavorativi e familiari tale per cui più della metà delle donne occupate (54,1%) svolge oltre 60 ore settimanali di lavoro retribuito e/o familiare (46,6% gli uomini).
I nonni, e in particolare le nonne, risultano essere “il pilastro” del supporto alle lavoratrici madri con figli fino a 10 anni. Quando entrambi i genitori sono occupati, se ne prendono cura nel 60,4% dei casi, se il bimbo più piccolo ha fino a 2 anni, nel 61,3% se ha da 3 a 5 anni e nel 47,1% se più grande.
I grandi assenti di questi mesi – per essere tra i soggetti esposti al più alto rischio di contagio da Covid-19 – risultano quindi ancora rappresentare, nella fotografia più recente dell’occupazione femminile fatta nel nostro paese, le fondamenta di quel particolare “welfare familiare” all’italiana, completamente messo in crisi dal dilagare della pandemia in atto.
3. La rincorsa tra smartworking e smartschooling
L’emergenza sanitaria, la grave crisi economica che ne è derivata e le misure adottate dal Governo per fronteggiarle entrambe, hanno determinato una extra-ordinaria rimodulazione degli strumenti e delle normative legali in uso. In uno con il distanziamento sociale e la costrizione abitativa nel perimetro delle mura domestiche, si sono imposte modalità di organizzazione del lavoro (lo smartworking) e forme di gestione della didattica (lo smartschooling), accomunate dal requisito della “distanza” dai luoghi in cui tradizionalmente si svolgono l’attività lavorativa e di istruzione, nonché dalla indiscussa finalità di riuscire a prevenire la diffusione del contagio assicurando, al tempo stesso, la tutela della salute pubblica e la parziale continuità della produttività aziendale.
In tale scenario, le lavoratrici madri si sono trovate improvvisamente costrette a districarsi, nell’ambiente domestico, tra l’improvviso aumento dell’attività di cura, istruzione ed educazione dei figli e una nuova modalità di organizzazione del lavoro che – pur definita “agile” in ossequio alla disciplina legislativa da cui è stata mutuata (la legge n. 81/2017) -, nella forma deregolamentata introdotta dalla legislazione dell’emergenza, ha di fatto finito col tradire l’originaria ratio dell’istituto, consistente nel favorire la conciliazione dei tempi di vita con quelli di lavoro, nel contempo elevando la performance lavorativa.
La caratteristica principale della particolare forma di “lavoro agile” prevista sin dal dpcm 23 febbraio 2020 (e sostanzialmente ripetuta e rimasta invariata in tutta la normativa emergenziale succedutasi sino ad oggi) sta, infatti, nella possibilità di ricorrere a tale modalità di esecuzione della prestazione lavorativa «anche in assenza degli accordi individuali» previsti dalla disciplina legale, ovvero dagli artt. 18 e ss della legge n. 81/2017. L’art. 90 del “decreto Rilancio” ha trasformato tale possibilità in «diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali», per i lavoratori genitori di figli minori di anni 14.
Eppure gli “accordi individuali” cui è consentito derogare (da redigere per iscritto ai fini della regolarità amministrativa e della prova) hanno la fondamentale funzione di regolamentare gli aspetti pratici della prestazione agile: dalla disciplina dell’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali (non necessariamente nella sua interezza), anche avuto riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro e alla messa a disposizione/utilizzo degli strumenti informatici da parte del lavoratore; alla previsione delle misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare, in primis, la tutela della salute e della sicurezza del lavoratore (attraverso l’individuazione dei tempi di riposo del lavoratore, delle corrette modalità di postura e illuminazione, dei tempi di connessione/disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro); alla individuazione delle modalità di esercizio del potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali, nel rispetto di quanto disposto dall’art. 4 St. Lav. (artt. 19-20).
La deroga alla disciplina normativa introduce, quindi, con tutta evidenza, una forma di lavoro snaturata di tutti i principali elementi di agilità previsti dal tipo legale, nei fatti “arrangiata” – anche nell’attuale fase – attraverso l’utilizzo di strumenti informatici spesso obsoleti e già nella disponibilità delle famiglie, nella maggior parte dei casi pure condivisi con i figli che, contemporaneamente, si trovano a dover seguire le video-lezioni da remoto.
Una oramai acclarata situazione stressogena e stressante, dalla quale potrebbero originare, in un futuro prossimo, danni alla salute e all’integrità psico-fisica delle lavoratrici colpite dal “sovraccarico” di una continua rincorsa tra l’essere meritevoli di un avanzamento di carriera e l’essere brave madri, frustrate dal dover garantire elevati standard di performance individuale, nonostante le aumentate esigenze di cura, assistenza ed istruzione dei figli.
Vi è, poi, da considerare che un’ampia platea di lavoratrici, circa il 48,9% (stando ai dati della ricerca di cui alla nota 6), continua a restare esclusa dalla possibilità di ricorrere al lavoro agile per svolgere mansioni che non possono prescindere dalla presenza fisica nel luogo di lavoro: così è, ad esempio, per le addette alle vendite, per le artigiane, operaie e, in genere, per le addette a professioni a bassa qualificazione. Tali categorie risultano, quindi, ad alto rischio di fuoriuscita dal mondo del lavoro.
4. Qualche spunto di riflessione … per possibili soluzioni
Riportare tutto all’ordine, anche sistemico, è compito arduo.
Si potrebbe, tuttavia, cominciare dall’inizio, rammentando che il «Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro» sottoscritto dal Governo e dalle parti sociali il 14 marzo 2020 e rinnovato, con alcune modifiche, il 24 aprile 2020, al punto 8 («organizzazione aziendale») prevede che le principali misure organizzative quali turnazioni, trasferte e smart working, rimodulazione dei livelli produttivi, utilizzo della banca ore e delle ferie, siano adottate dall’azienda «mediante intese con le rappresentanze sindacali».
Sul versante della tutela del lavoro delle lavoratrici madri, l’azione delle rappresentanze sindacali potrebbe essere d’impulso ad una regolamentazione del lavoro agile che tenga maggiormente conto delle istanze della componente femminile della forza lavoro connesse, da una parte, al ruolo ancora predominante delle donne e delle madri nelle attività di assistenza e cura dei figli e, dall’altra, alla volontà di superare la visione che vorrebbe riproporre oggi un ritorno al passato nell’imposizione di uno dei più invisi stereotipi di genere: la scelta tra figli e lavoro.
Allo stesso modo dovrebbero essere introdotte misure – anche di premialità – volte a favorire la reale parificazione di genere nella fruizione del “congedo covid”, ma pure investite maggiori risorse economiche per la sua remunerazione che siano idonee a neutralizzare la riduzione del gap retributivo di genere.
Pure a fronte dell’aumento degli importi massimi erogabili, anche le misure dei “bonus” sembrano ancora insufficienti a garantire le famiglie dal dover sopportare maggiori rischi economici insiti nella crisi: con probabili ripercussioni sulla scelta delle lavoratrici madri – che guadagnando statisticamente meno dei padri – di abbandonare il mondo del lavoro.
Non può, inoltre, non evidenziarsi che quello dei “bonus” e dei congedi parentali rappresenta un sistema d’emergenza, difficilmente strutturabile in una logica di lungo periodo, nella quale è il tema dei servizi educativi e scolastici – dalla prima infanzia a quelli per l’adolescenza – a rappresentare un fattore decisivo.
Alla medesima logica emergenziale sembra, d’altra parte, rispondere la prospettata riapertura dei centri estivi a partire dal 15 giugno (per i bambini di età superiore ai 6 anni) e dal 30 giugno (per i bambini di età compresa tra i tre e i sei anni), secondo quanto previsto dalle linee guida emanate dal Governo[14]: della concreta attuazione dei servizi “estivi” – rimessa all’autonomia regionale – non è, tuttavia, ad oggi dato conoscere tempistiche e modalità, né tantomeno sono stati chiariti i relativi costi.
Pur essendo apprezzabile lo sforzo di garantire un sostegno alle famiglie attraverso la ri-attivazione dei servizi educativi integrativi e il potenziamento delle politiche di welfare, non può non rilevarsi che, nell’ottica di un confronto serio ed onesto sul futuro del Paese, sul ruolo e sul lavoro – in particolare delle madri -, a risultare imprescindibile è la pronta e immediata riattivazione del sistema scolastico.
Non solo perché il diritto allo studio e all’istruzione è, tra i diritti costituzionali ancora compressi dall’emergenza sanitaria in atto, uno dei più “delicati”, custodendo in sé, soprattutto per i bambini in più tenera età – gli stessi che necessitano di uno stabile supporto da parte dei genitori e, in particolare, delle madri – anche altri fondamentali diritti quali quelli alla socialità, al sano sviluppo pedagogico, relazionale ed emotivo e, più in generale, alla salute psico-fisica. Il che costituisce per le famiglie – e, in particolare per le madri -, ulteriore causa di disagio emotivo e di preoccupazione, anche per le conseguenze che la prolungata interruzione dei servizi scolastici, didattici ed educativi potrebbe determinare sullo sviluppo dei propri figli.
Ma anche perché, tale soluzione è la sola in grado di determinare un reale alleggerimento dei carichi di lavoro delle madri all’interno dei nuclei familiari, nell’ottica di una efficace conciliazione dei tempi di vita con quelli di lavoro che impedisca un ritorno al passato sulle tematiche della parità di genere e dei diritti delle donne, al contempo salvaguardandone l’occupazione.
Sul versante della tutela dell’occupazione, anche femminile, non può non farsi un cenno conclusivo alle riflessioni di recente tornate alla ribalta in ordine alla possibile rimodulazione dell’orario di lavoro, a parità di salario, in ossequio al vecchio motto “lavorare meno, lavorare tutti”.
L’idea, fortemente rievocativa dei c.d. contratti di solidarietà espansiva[15], è quella che una riduzione importante dell’orario lavorativo settimanale a parità di salario possa consentire, da un lato, di fare spazio a nuove assunzioni e, dall’altro, di migliorare le condizioni dei lavoratori già occupati – e in particolare delle lavoratrici madri – sotto il profilo della conciliazione dei “tempi di vita” rispetto ai “tempi di lavoro”[16].
La medesima finalità potrebbe essere perseguita attraverso il c.d. “Sure” (Support to mitigate unemployment risks in an emergency, anche detto cassa integrazione europea)[17], strumento ideato dalla Commissione UE per combattere la disoccupazione collegata all’emergenza Covid-19 negli stati membri più colpiti. La sua funzione è quella di fornire un ulteriore sostegno all’occupazione e al reddito – rispetto a quelli già previsti nei singoli Stati membri (quali ad esempio, in Italia, la Cigo, la Cassa in deroga o il FIS) – attraverso la messa a disposizione di circa 100 miliardi di euro, garantiti da tutti gli Stati membri e destinati a salvaguardare i posti di lavoro dal rischio di licenziamento e della perdita di reddito, tramite regimi di riduzione dell’orario lavorativo, secondo la formula dello short time work (riduzione tempo di lavoro/parità di salario/formazione professionale/maggiore conciliazione dei tempi di vita e di lavoro).
Ciò appare tanto più attuale in considerazione del monito, ancora di recente ribadito a livello comunitario con la Direttiva n. 1158/2019, che individua nella «difficoltà di conciliare l’attività professionale con gli impegni familiari» il principale motivo della «sottorappresentazione» delle donne nel mercato del lavoro: «quando hanno figli, le donne sono propense a dedicare meno ore al lavoro retribuito e a dedicare più tempo all’adempimento di responsabilità di assistenza non retribuite», tra cui si inseriscono d’imperio – nell’attuale situazione emergenziale – anche quelle di delega dell’attività didattica da parte del servizio scolastico pubblico.
E tuttavia, la raccomandazione fatta agli Stati membri nel dare attuazione alla Direttiva comunitaria appena citata è nel senso che gli stessi «dovrebbero considerare il fatto che una pari fruizione dei congedi per motivi familiari tra uomini e donne dipende anche da altre misure appropriate, quali l’offerta di servizi accessibili e a prezzi contenuti per la custodia dei bambini e l’assistenza a lungo termine, che sono cruciali per consentire ai genitori e alle altre persone con responsabilità di assistenza di entrare, rimanere o ritornare nel mercato del lavoro. L’eliminazione dei disincentivi economici può anche incoraggiare i percettori di reddito secondario, nella maggior parte dei casi donne, a partecipare pienamente al mercato del lavoro»[18].
Sembra necessario agire in fretta se si vuole evitare che le prossime fasi dell’emergenza sanitaria in atto, riproponendo vecchi schemi, producano un ritorno al passato, piuttosto che un salto verso il futuro.
[1] Quelle di cui all’all. 3 del dpcm 26 aprile 2020
[2] Quelle di cui all’all. 1 del dpcm 26 aprile 2020
[3] Vds. in tal senso art. 1 comma 14 del dl n. 33/2020, nonché le «linee guida per la riapertura delle attività economiche e produttive» approvate dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome nella riunione del 16 maggio (su http://www.regioni.it/newsletter/n-3844/del-19-05-2020/linee-guida-per-la-riapertura-delle-attivita-economiche-21233), citate nelle premesse e allegate al successivo dpcm del 17 maggio (vds. anche www.Regioni.it).
[4] Condotta da Alessandra Casarico – professoressa di Scienza delle Finanze all’Università Bocconi – e Salvatore Lattanzio – ricercatore in economia all’Università di Cambridge: pubblicata su www.lavoce.info
[5] Reperibile sul sito https://friulisera.it/wp-content/uploads/2020/05/Focus-mamme-lavoro.pdf
[6] Il focus della Fondazione Consulenti del Lavoro nell’esaminare la condizione occupazionale delle mamme con almeno un figlio con meno di 15 anni durante l’emergenza Covid-19 rileva – sulla base dei dati «forze lavoro Istat (media annua 2019)» – i seguenti dati: dei circa 3 milioni di mamme che hanno almeno un figlio con meno di 15 anni, l’82,8% ha un lavoro subordinato nel segmento medio-alto della piramide professionale. Nel 22,2% dei casi svolgono professioni intellettuali e scientifiche, nel 18,8% professioni tecniche, nel 18,1% professioni esecutive del lavoro d’ufficio mentre nel 23,3% professioni qualificate nelle attività commerciali e di vendita. La gran parte è occupata nei servizi (83%), a partire dal commercio (14,4%), servizi sanitari e di assistenza sociale (13,8%), istruzione (11,9%), attività professionali, scientifiche e tecniche (8,6%).
[7] Vds. in tal senso il Considerando n. 20 della Direttiva UE n. 1158/2019 relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza
[8] dl 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni dalla l. 24 aprile 2020, n. 27
[9] dl 19 maggio 2020, n. 34.
[10] E, comunque, tutte le lavoratrici i cui rapporti di lavoro “parasubordinati” non siano assistiti da tutele equiparabili a quelle del lavoro subordinato: vds. art. 2 d.lgs n. 81/2015.
[11] Su www.istat.it/it/archivio/occupati+e+disoccupati
[12] L’articolo, di Fulvia Staiano, è reperibile al link www.sidiblog.org/2020/05/03/limpatto-della-pandemia-da-covid-19-sulle-donne-considerazioni-sul-policy-brief-del-segretario-generale-dellonu-del-9-aprile-2020
[13] Vds. il testo dell’audizione dell’Istat presso la XI Commissione della Camera dei deputati, al fine di «fornire materiali utili nella discussione delle proposte di legge AA.C. 522, 615, 1320, 1345, 1675, 1732, 1925 in materia di partecipazione femminile al mercato del lavoro e conciliazione dei tempi di vita». Su: www.istat.it/it/archivio/239003
[14] Quale all. 8 al dpcm 17 maggio 2020
[15] Di recente riformati dall’art. 41 del d.lgs 14 settembre 2015, n. 148, nell’ambito del riordino nella normativa in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro
[16] Si rinvia sul tema a un’interessante proposta di legge della Regione Emilia Romagna “Misure per la promozione dei contratti di solidarietà espansiva e utilizzo del reddito di cittadinanza” presentata alle Camere il 10 ottobre 2019 reperibile su: http://documenti.camera.it/leg18/pdl/pdf/leg.18.pdl.camera.2164.18PDL0078060.pdf
[17] Lo strumento – già sperimentato durante la crisi del 2008 – definitivamente approvato dall’Ecofin lo scorso 19 maggio, sarà in funzione non appena tutti gli Stati membri avranno espletato i diversi iter nazionali e resterà in vigore fino al 31 dicembre 2022
[18] Vds. per un’analisi della tematica M. Vitaletti, Equilibrio tra attività lavorativa e vita familiare nell’emergenza Coronavirus, Giustizia civile.com del 19 marzo 2020 (su http://giustiziacivile.com/lavoro/articoli/equilibrio-tra-attivita-lavorativa-e-vita-familiare-nellemergenza-coronavirus)
Questo articolo è stato pubblicato su Questione Giustiza l’8 giugno 2020