Intervento svolto al convegno del 18/01/2020 “Guardare indietro per guardare avanti”

3 Giugno 2020 /

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di Massimo Serafini
 
Trovo molto convincenti, sicuramente da assumere come terreni del lavoro futuro, le cose dette da Mottura. Soprattutto il suo invito alle sinistre, quindi anche a noi che ci riuniamo qui, a fare rapidamente quel cambio di passo che ci consenta di superare la evidente e dura inadeguatezza rispetto ai problemi e alle contraddizioni che la società evidenzia. Insomma la richiesta che ci viene fatta è di darsi rapidamente un’identità precisa che giustamente lui e molti degli intervenuti fanno fatica a vedere nelle sinistre, sia moderate sia radicali. Ha ragione a suggerirci e a proporci il terreno delle migrazioni come priorità politica della nostra ricerca e augurabile di azione. I grandi flussi migratori rappresentano la cartina di tornasole dei ritardi accumulati, il punto chiave delle difficoltà di egemonia che tutte le sinistre incontrano oggi. Su questo grande e visibile dramma umano, che la società capitalistica provoca, è difficilmente confutabile l’egemonia culturale delle destre. Diciamolo con franchezza la nostra, intendo della sinistra radicale, difesa delle ONG che operano nel mediterraneo, non è andata oltre una dovuta generosità, ma non è riuscita a conquistare l’egemonia nelle sinistre, nelle quali è prevalsa invece una linea perdente e subalterna, che ha contribuito a criminalizzare le organizzazioni di soccorso in mare dei migranti e delle migranti. In buona sostanza ci si è limitati a inseguire, cercando di moderarla, le scelte delle destre. Questo, dei flussi migratori, sarà il tema centrale dei prossimi anni.
Ormai è evidente l’esplodere del problema ambientale, che per quanto negato dalla politica, già sta affiancando alle guerre il cambio climatico che indurrà milioni di persone a fuggire dalle loro terre. Sono previsti oltre 150 milioni di persone in fuga verso l’Europa, per mancanza di acqua o per le conseguenze degli eventi estremi che con sempre maggior frequenza colpiranno la terra, prevalentemente le sue parti più povere, colpevolmente lasciate totalmente indifese dai paesi ricchi. In assenza di una strategia non possiamo farcela a sconfiggere la forza del discorso di Salvini e delle destre che come sempre, nei momenti di crisi strutturale del sistema, radicalizzano le proprie posizioni e soprattutto offrono a chi è colpito dalla crisi, una soluzione, diciamo assolutoria del sistema: al disoccupato/a, al precario/a, all’emarginato/a, si indica il negro migrante e non il sistema come responsabile delle sue difficoltà o tragedie. Questo discorso conquista e vince perché è truffaldino ma però facile oltre che elettoralmente redditizio. Talmente redditizio che la parte maggioritaria delle sinistre è subalterna allo schema escludente delle destre, come dimostra l’accettazione del teorema che possa essere possibile dividere i migranti economici, ovviamente da respingere, dagli altri, da soccorrere, possibilmente a casa loro.
Se l’orizzonte su cui lavorare è questo della strategia e io credo che questo è il livello su cui dobbiamo collocarci, mi chiedo se può aiutare guardare indietro, al nostro passato, come chiede il titolo di questo convegno. Io credo di si. Farlo può aiutare a progettare un futuro diverso da quello che oggi vedo prevalere, cioè la vittoria delle destre, fasciste ed autoritarie. Ma per essere efficaci, bisogna dirigere lo sguardo nei punti giusti, liberandolo da ogni nostalgia e concentrandolo sulle cose essenziali del passato. Il punto decisivo di quel formidabile periodo storico che deve interessarci è uno solo e cioè indagare su come fu possibile scatenare una diffusa insubordinazione collettiva, un rifiuto del comando e delle regole della società capitalistica. Una disobbedienza che conquistò prima gli studenti e studentesse, non solo universitari, per poi estendersi alla classe operaia. D quindi per scontato che ci sono stati cambiamenti profondi, quali il ridimensionamento della classe operaia, la trasformazione stessa che il capitale ha saputo fare del lavoro, le cose di cui ci ha parlato l’assessore al lavoro del comune di Bologna. Li do per scontati, anche se non lo sono affatto, perché credo che il problema su cui lavorare sia la costruzione di un movimento di massa per il lavoro. E nel dirlo dobbiamo sapere che ancora non abbiamo chiaro chi siano i nuovi soggetti, né come stimolarne una riflessione collettiva sulla loro condizione.
Navighiamo cioè a vista. Molti interventi, prima di me, hanno parlato delle difficoltà che si incontrano a mobilitare i nuovi soggetti, i giovani precari e precarie. Traspare negli interventi una certa rassegnazione perché si considera quasi impossibile mobilitarli, renderli protagonisti di una vertenza, di un conflitto collettivo. Vedete prima dell’esplosione del 68 studentesco e del 69 operaio abbiamo vissuto le stesse difficoltà e anche allora ci si
interrogava se il proletariato di fabbrica fosse o no disponibile a lottare contro le ingiustizie e contro lo sfruttamento a cui il capitale li costringeva; per tutto il 65, 66, 67 del secolo scorso si pensava che gran parte della classe operaia occidentale fosse integrata, conquistata dalla società dei consumi, che la campagna, quelli che Franz Fanon chiamava i dannati della terra, dovesse circondare la città per riuscire a liberare la società dal capitalismo. Poi di colpo tutto fu spazzato via dal 68 e cominciò quel decennio di conquiste in cui prese forma una grande occasione di liberare, con le lotte di massa, una società nuova. Spesso ritrovo lo stesso scetticismo e lo stesso dibattito di allora quando sento parlare delle difficoltà di oggi, quando ci sentiamo respinti dai soggetti che cerchiamo di mobilitare contro il nuovo sistema di sfruttamento, quando ci scoraggiamo di fronte al fatto che non c’è più la fabbrica, simbolo evidente di qualcosa di collettivo, facilmente raggiungibile ed invece ora abbiamo a che fare con una massa di individui sfruttati, che pensiamo non mobilitabili perché obiettivamente faticano a vedere l’altro a unirsi all’altro. Vorrei dire all’assessore al lavoro del comune di bologna di cui ho apprezzato l’intervento, trovandolo molto stimolante, che quando ci ha parlato dei lavoratori invisibili e della difficoltà a organizzarli, coglie un dato reale, sapendo però che i primi a non riconoscersi sono proprio loro, questi lavoratori. Però l’accordo che è riuscito a far firmare alla controparte, cioè una piattaforma, dimostra le possibilità reali di rompere quell’insieme di risposte individuali che alimenta rassegnazione in questi individui. Giustamente si è detto che quell’accordo è figlio di una assunzione di responsabilità dell’assessorato che ha posto la questione delle condizioni di lavoro di questi lavoratori e lavoratrici come un dato sociale su cui l’ente locale decide di intervenire, facendosi politicamente responsabile della ricomposizione collettiva di questi soggetti. Vorrei anche allargare il discorso e dire che sarà pure vero che non esiste più la fabbrica, ma però c’è ancora un mondo del lavoro assai visibile che va riunificato. Voglio dire che questa parte di cui ci ha parlato l’assessore è solo una piccola porzione del mondo del lavoro e che quindi dobbiamo allargare lo sguardo e elaborare un progetto attorno al lavoro, alla sua quantità e qualità, che parli a tutti/e. Questa è per me la chiave per ricreare quella ribellione collettiva che ci animò nel 68 e 69, che seppe durare un decennio, fino alla sconfitta dei 35 giorni della Fiat.
Insomma resto convinto che il lavoro resti un diritto fondamentale di cittadinanza e che la piena occupazione debba essere la chiave del progetto di cambiamento sociale che va proposto. A me non convince che il massimo a cui aspirare è una società in cui a decidere come, quando e quanto lavorare siano le imprese e il mercato e che il ruolo del pubblico sia quello di assistere chi è escluso con un reddito di cittadinanza. A me questa soluzione se diventa strutturale non convince e penso che una sinistra che si rassegna ad essa sia destinata alla irrilevanza. Detto questo mi rendo conto delle difficoltà grandi che ha la scelta della piena occupazione, ma resto convinto che questa resti la strada da contrapporre alle destre. Mi chiedo ovviamente se, con la nuova evoluzione del capitalismo, la logica di globalizzazione con cui opera, è ancora credibile un obiettivo come quello della piena occupazione? Io credo che nel proporre il lavoro per tutte/i, dobbiamo sapere che le possibilità di realizzarlo, dipendono in gran parte da una scelta che va chiarita preliminarmente e cioè dal rovesciamento del paradigma con cui finora la sinistra e segnatamente i sindacati hanno pensato fosse possibile creare lavoro. Fino ad ora al di là delle dispute terminologiche su crescita, decrescita, sviluppo sostenibile, siamo stati abituati a concepire la lotta per il lavoro sulla base del rilancio della produzione di merci e oggetti, cercando di produrre in modo più sostenibile e poi ovviamente cercando di tutelare chi fa questi lavori conquistando diritti. Io non credo più che questa sia la strada. In buona sostanza sono convinto che la produzione di merci e oggetti per il soddisfacimento di bisogni individuali debba essere lasciata decrescere, perché è un dato oggettivo che avrà sempre meno bisogno di manodopera. Rovesciare il paradigma significa mettere al centro della nostra iniziativa la scelta del soddisfacimento dei bisogni collettivi, di salute, di ambiente, cultura, educazione, di cura all’infanzia e alla vecchiaia che sono bisogni ampiamente inevasi. Questi sono le esigenze collettive, il cui soddisfacimento, una volta politicamente deciso, può realizzare molta occupazione, stabile e duratura.
Una grande occasione che rende credibile questa prospettiva ci è offerta oggi dalla lotta contro il cambio climatico. Se si vuole uscire dalla logica delle inutili conferenze sul clima è necessario andare oltre la sostenibilità. Ascoltando la compagna della Fiom che ha aperto la nostra iniziativa, parlandoci dell’impegno Fiom a difendere i posti di lavoro, minacciati dal padrone, ha poi aggiunto, che la Fiom aderisce alle campagne sul clima, che Greta Thumberg ha promosso e che finalmente mobilitano molti giovani donne e uomini in tutto il mondo. Ecco io penso che costringere le imprese a produrre in modo pulito e a mettere sul mercato oggetti utili e non dannosi sia sacrosanto, ma non sia sufficiente. Basti pensare alla questione dell’acciaio dell’Ilva, ma la stessa cosa vale per la siderurgia a Piombino e altre realtà. Certo che l’acciaio per una lunga fase serva e vada quindi prodotto e quindi quello che deve finire a Taranto è continuare a produrlo in quelle condizioni, cioè avvelenando una popolazione. Badate le case e i quartieri vicino alle grandi fabbriche siderurgiche o chimiche li ha voluti la sinistra, accorgendosi con grande ritardo del fatto che da quelle ciminiere uscivano veleni. Produrre acciaio senza avvelenare si può come dimostra la siderurgia austriaca o tedesca. Dubito però che questo salto lo si possa imporre al privato. Quindi se quella dell’acciaio è una produzione strategica va fatta dal pubblico. Ma detto questo il problema di cui parlavo resta e che la piena occupazione non venga realizzata né dall’acciaio pulito, né dalla chimica fine e non inquinante ecc. ma realizzando quello spostamento della priorità verso il soddisfacimento dei bisogni collettivi. Se assumiamo la lotta al cambio climatico come priorità assoluta della sinistra e anche come asse che pone la persona al centro delle proprie strategie e lasciamo alle destre ancorarsi nel negazionismo e nella difesa dell’esistente, credo che la sfida possa essere vinta. Serve quindi fare quel salto di paradigma di cui parlavo. E vorrei sfatare una visione della lotta per l’ambiente come scelta antindustriale, come romantico ritorno alla campagna e al verde, che l’avversario diffonde a piene mani e che alcuni ambientalisti contribuiscono a loro volta a sdoganare. La riconversione ecologica dell’economia e della società è, per me, esattamente il contrario e parla non solo di riconversione industriale ma anche di una nuova industrializzazione che si può e si deve realizzare soddisfacendo i bisogni collettivi. C’è cioè bisogno di molta innovazione e di molta tecnologia. Parlare di bisogni collettivi significa parlare dell’edilizia del futuro, che sempre meno si concentrerà sul nuovo da costruire, perché il territorio da occupare è terminato e quindi questa edilizia lascerà il posto a quella della manutenzione e soprattutto riqualificazione del già costruito. Voi pensate che questo passaggio, il riqualificare energeticamente o con caratteristiche antisismiche abbia bisogno di lavoratori precari? Io penso sia più probabile che servano i muratori di una volta, informati e capaci di usare i nuovi materiali, capaci di studiare la collocazione della casa, come sfruttare la sua esposizione al vento o al sole. Non è questa l’edilizia del futuro? E questa scelta può fermare quella trasformazione delle città che è in atto, che fa di interi quartieri luoghi spopolati dai vecchi residenti da sostituire con turisti. Operazioni per cui le banche comprano si impossessano dei centri storici e dei quartieri limitrofi, buttano fuori i residenti, e trasformano queste case, attraverso la piattaforma B&B, in residenze per turisti del fine settimana. Questo è ciò che succede e vedo a Barcellona a Madrid e penso che sia anche la realtà di Bologna. Quindi riqualificare un quartiere può fare incontrare la lotta dei residenti in difesa del diritto a una casa. E’ evidente che fare questa svolta produce molto lavoro duraturo, molta formazione e molta tecnologia. Mi domando e domando se questo non sia il terreno su cui dare un volto nuovo ai sindacati edili e più in generale al movimento sindacale. Ho fatto un esempio, ma si può allargare molto il discorso dei beni collettivi. Penso alla rivoluzione energetica rinnovabile e soprattutto alla costruzione di un modello energetico che investa sul risparmio prima che sulla produzione di energia. Anche qui è evidente che il nuovo modello energetico dovrà essere diffuso sul territorio, trasformare ognuno di noi da utente in potenziale produttore di energia e quindi è ovvio che dovremo contendere ai grandi monopoli la gestione centralizzata delle rinnovabili, ma la dimensione del salto che si deve fare è a questo livello di complessità.
Penso come ultimo esempio alla quantità di persone da impiegare nella difesa del territorio per il suo disinquinamento, per creare parchi insomma pensare ad un territorio non come aree fabbricabili da vendere, ecco la nuova dimensione su cui ripensare il ruolo dei comuni. Insomma questa è per me la prospettiva di lavoro su cui impegnarci. Due cose ulteriori. Questa prospettiva avrà come protagoniste principali le donne e il loro movimento femminista. La liberazione dal patriarcato che milioni di donne rivendicano nelle loro manifestazioni si coniuga perfettamente con l’idea che è alla base del salto di paradigma che propongo che obbliga a superare la cultura antropocentrica del dominio della specie umana sulla natura. La seconda è che questa prospettiva ha bisogno di un rilancio dell’intervento pubblico in economia perché non è pensabile che una trasformazione del genere la possano fare i privati. Non ho tempo di approfondire e quindi mi limito a questi titoli su cui sviluppare il lavoro collettivo, avendo coscienza che lo sguardo non può rimanere confinato dentro i confini nazionali che questa per avere un senso deve essere una lotta almeno europea e che su questo va ricostruita la sinistra europea. Non si parte da zero. In Spagna c’è finalmente un governo delle sinistre con la nuova sinistra di Podemos pienamente coinvolta su questa prospettiva; in Portogallo questa esperienza delle sinistre al governo dura da più tempo. E’ poco ma è un punto di partenza.

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