di Barbara Leda Kenny
La pandemia ha messo in evidenza l’uso scarso e arretrato di strumenti digitali che contraddistingue politiche e misure di contrasto alla violenza. È l’occasione giusta per lasciare spazio all’innovazione.
La pandemia, con le misure di lockdown e quindi con la permanenza obbligata in casa, ha avuto ripercussioni negative immediate sui percorsi di fuoriuscita dalla violenza. Un esito che era prevedibile considerando quello è successo in Cina – dove durante la quarantena sono aumentati i casi di violenza domestica – e quello che abbiamo imparato dalla crisi economica del 2008: ossia che quando ci sono grandi crisi economiche si inaspriscono le situazioni di violenza domestica. Le associazioni hanno denunciato come in una prima fase ci sia stato un crollo consistente delle chiamate ai centri antiviolenza e al numero nazionale antiviolenza, mentre dopo l’attivazione di strumenti di comunicazione e risorse digitali si è registrato un aumento delle richieste di aiuto. I dati Istat del 13 maggio parlano di un incremento di contatti al 1522 del 73%.
La pandemia ha messo in evidenza un dato di fatto: le politiche di contrasto alla violenza non prevedono l’uso di strumenti digitali, e le associazioni ne fanno un uso piuttosto scarso, quindi non erano previste molte alternative alle telefonate e ai colloqui in sede.
Questa constatazione apre a un tema che è quali interessi muovono lo sviluppo e l’investimento in nuove tecnologie. Nel mondo esiste il divario digitale di genere ovvero una disparità di accesso alle tecnologie tra uomini e donne. Le donne usano meno le tecnologie e sono poche nel settore dello sviluppo tecnologico. Il divario digitale di genere è un divario denunciato da più parti, è un obiettivo dell’agenda 2030 per uno sviluppo sostenibile e di numerosi programmi dedicati alle ragazze sia privati che pubblici. Spesso la narrazione sul perché ci servono più donne nelle discipline STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) è basata su motivazioni legate al mercato del lavoro: sempre più professioni richiedono strumenti e competenze digitali, le professioni legate allo sviluppo e all’uso di tecnologie sono più richieste e meglio remunerate. Ma abbiamo bisogno di più donne nelle STEM perchè sappiamo anche che sempre di più le tecnologie plasmano il modo in cui interagiamo e gli scenari in cui ci muoviamo, e le tecnologie non sono neutre, ma riflettono il sistema valoriale di chi le progetta e produce.
Il fatto che siano principalmente gli uomini a sviluppare tecnologie esclude o rende marginali una serie di istanze e possibilità di cui le donne sono portatrici. Joy Buolamwini attivista e studiosa afroamericana al MIT ha denunciato come l’intelligenza artificiale usata per il riconoscimento facciale sia influenzata dagli stereotipi razzisti e sessisti di chi l’ha sviluppata e ha dimostrato come una tecnologia di uso così massivo rafforzi gli stereotipi di cui è portatrice. Uno dei risultati di questa sproporzione è che gli ambiti e le professioni a forte presenza femminile sono spesso scarsamente sviluppati da un punto di vista tecnologico. Con la crisi dovuta alla diffusione di Covid abbiamo potuto constatare come, per esempio, la didattica sia un ambito in cui c’è stato poco investimento in termini di tecnologie e competenze digitali. Ma, in maniera ancora più forte, come detto in apertura, questo vuoto si è percepito nella prevenzione e il contrasto della violenza anche per le conseguenze molto gravi che ha avuto.
Abbiamo provato a fare una ricognizione veloce sullo stato delle cose. Nella grandissima maggioranza dei casi come contatto per i centri antiviolenza vengono indicati dei numeri fissi e indirizzi di e-mail. Due strumenti anacronistici rispetto a come tutte quante noi comunichiamo oggi: via cellulare e via messaggistica. Il 76% delle persone in Italia ha uno smarphone e il 97% un cellulare. C’è internet nell’82% delle case, mentre c’è un telefono fisso in meno del 60% delle case. Questo significa anche che internet è uno strumento di comunicazione con l’esterno: anche, per esempio, quando un telefono non ha credito perché un partner violento monopolizza le risorse economiche. O che si può chattare più facilmente che parlare quando si è sottoposte a un controllo stringente. La riprova è l’aumento delle denunce non appena sono stati attivati canali digitali come WhatsApp.
Non c’è una strategia social di comunicazione per il contrasto alla violenza, eppure Facebook è utilizzato dall’85% della popolazione che in più del 90% dei casi accede da un cellulare. Ci sono profili generici delle associazioni ma con un uso più politico che di servizio. Mentre non ci sono profili di comunicazione istituzionali indirizzati in tale senso se non quello del 1522 che è seguito da 5000 persone (la pagina dell’Ong Differenza Donna ne conta 13.500, la Casa delle Donne di Milano 13.000, quella delle attiviste antiviolenza Chayn Italia 7.500, per avere un termine di paragone). La pagina del 1522 è poco seguita e uno dei motivi potrebbe essere che funziona principalmente come megafono per i lanci stampa del Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio e non ha una strategia di comunicazione orientata all’utenza. Eppure, più è basso il livello di alfabetizzazione e più tra le persone giovani si usano i social anche se non si naviga in rete e questo significa che Facebook o Instagram sono più accessibili di Google per alcune fasce di popolazione (giovani e con scarsa alfabetizzazione).
Sono state le donne militanti a lanciare le prime campagne social comunicando che i servizi antiviolenza erano aperti nonostante il lockdown. I servizi antiviolenza non usano i social e, di conseguenza, nemmeno le funzionalità connesse come la messaggistica. La maggior parte delle attività commerciali ha una messaggistica collegata alla pagina dell’attività: una finestra che si apre con delle domande pre-impostate: vuoi sapere il menù di oggi? Vuoi informazioni sugli orari? Vuoi prenotare un tavolo? Applicare una funzionalità così basica e diffusa con cui tutti hanno dimestichezza potrebbe essere un’idea di facile realizzazione. 1522 è l’applicazione legata al numero nazionale antiviolenza. È un’applicazione molto basica: consente la messaggistica con un’operatrice, di telefonare, di attivare dispositivi di emergenza (non spiega però quali), la localizzazione dei centri antiviolenza e contiene schede dedicate su contatti e servizi offerti da ogni centro. Per avere queste funzionalità non serve un’applicazione basta su un sito web, e l’operazione comporta anche meno rischi per le donne che la usano (perché non lascia tracce nel telefono). Sorvoliamo sul fatto che la prima schermata sia un questionario a cui però bisogna rispondere via e-mail.
Ci sono servizi e applicazioni ben sviluppate, un sito di riferimento può essere quello di Chayn Italia (che funziona come aggregatore di informazioni) e un buon esempio di applicazione è la francese App-Elles sviluppata da un gruppo di attiviste e vincitrice di numerosi premi per l’innovazione. È un app rivolta sia alle donne vittime di violenza che alle persone a loro vicine, è gratuita e sicura in termini di privacy (ossia di utilizzo dei dati). Consente la geolocalizzazione e il tracciamento in tempo reale e comunica la posizione a una cerchia di contatti scelti dalla donna stessa, consente di ascoltare suoni e voci ambientali, aiuta a calcolare il percorso più veloce per raggiungere un punto scelto (un servizio antiviolenza o la casa di qualcuno che è informato e può offrire sostegno), chiamate di emergenza, l’app può essere attivata con un comando vocale, può registrare conversazioni, telefonate, archiviare messaggi, chat anche se vengono cancellate dal telefono. Inoltre, la schermata dell’app si chiude immediatamente agitando il telefono. Volendo all’app è abbinato un braccialetto (questo sì a pagamento) che funziona anche quando il telefono è spento e consente di lanciare un allarme e la propria posizione premendo un bottone, utile soprattutto se la donna si trova nella fase di fuoriuscita, o in caso di stalking.
Oltre a tutto questo l’applicazione propone il collegamento ai servizi antiviolenza, la geolocalizzazione dei servizi antiviolenza, il collegamento ai numeri di emergenza, il collegamento alla chat del 1522, una serie di approfondimenti e schede sulle forme della violenza, è disponibile in diverse lingue e aggiornata per essere utilizzata in 12 paesi.
Tra i vantaggi dell’utilizzo di un’applicazione come questa c’è inoltre la possibilità di avere dati, nel rispetto della privacy, sul suo utilizzo, che possono dare indicazioni preziose sui bisogni dell’utenza.
Una delle lessons learned di Covid19 potrebbe essere proprio questa: che abbiamo bisogno di un investimento nello sviluppo e la diffusione di strumenti digitali per la prevenzione e il contrasto della violenza, e abbiamo bisogno di potenziare le competenze digitali delle operatrici, di svecchiare i canali di comunicazione ampliando la loro capacità di raggiungere un’utenza ampia.
Questo articolo è stato pubblicato su inGenere il 15/05/2020