L’onore e il patriarcato

di Daniela Padoan /
25 Novembre 2023 /

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Il femminicidio, agghiacciante neologismo invalso perché le donne uccise non sono più solo le mogli, le figlie o le sorelle, ma ogni donna, indipendentemente dal vincolo familiare, si innesta su una mancanza di termini che da sola ci parla del patriarcato. La parola uxoricidio, infatti, che indica l’uccisione della moglie da parte del marito, si usa in modo estensivo per nominare l’uccisione del marito da parte della consorte, pur derivando dal latino uxor, “moglie” e càedere, “uccidere”, e pur venendo regolarmente esemplificato come crimine commesso da un uomo contro una donna, che sia in letteratura, nella cronaca o nella storia. I due pesi che informano la nostra cultura si rivelano nel non saper nominare il delitto, lasciando che il marito ucciso dalla moglie sia segnato, semanticamente, dalla stessa debolezza che viene attribuita alla figura della vittima, in un rovesciamento propriamente osceno, che va tenuto fuori scena. Fino a quattro decenni fa, l’omicidio della coniuge adultera (il cosiddetto delitto d’onore) era sanzionato con pene attenuate, perché compiuto per salvaguardare l’onorabilità sociale del marito e della famiglia.

Fu solo nel 1981, dopo sedici anni di dibattiti parlamentari, con l’abrogazione della rilevanza penale della causa d’onore (legge n. 442 del 5 agosto), che la licenza di uccidere assegnata ai maschi della famiglia – con pene ridotte per l’omicidio in «stato d’ira» compiuto dal marito, dal padre o dal fratello nei confronti di coniuge, figlia e sorella, a seguito di «illegittima relazione carnale» – veniva spazzata via assieme alle «nozze riparatrici» che prevedevano la completa estinzione del reato per violenza sessuale quando contratte tra «l’autore del reato» e «la persona offesa».

Fu una data storica, quella della vittoria ottenuta dopo sedici anni di dibattito parlamentare grazie al coraggio di Franca Viola – che, rapita nel 1975, all’età di diciassette anni, stuprata e segregata dal fidanzato che aveva respinto, aiutata dalla famiglia rifiutò l’imposizione sociale di sposare l’uomo che avrebbe potuto, con la copertura della legge, violentarla per tutta la vita – quando il legislatore cancellò l’infamia prevista negli articoli 544 e 587 del codice Rocco, dal nome del ministro di Grazia e giustizia del governo Mussolini che ne curò l’estensione, che è il codice penale a tutt’oggi in vigore.

Probabilmente, senza il Sessantotto e gli anni Settanta, e sicuramente senza il femminismo, non avremmo avuto queste leggi. Quella straordinaria stagione di libertà e affermazione dei diritti civili produsse la legge 898 sul divorzio, che nel 1970 rese possibile lo scioglimento del matrimonio, e la legge 194, che nel 1978 riconobbe alle donne il diritto di decidere dell’interruzione volontaria della gravidanza, fino ad allora considerata reato punibile con la reclusione da due a cinque anni. Sempre nel 1978, con la legge 180, o legge Basaglia, venne restituita dignità di persona ai pazienti psichiatrici e disposta la chiusura dei manicomi, considerati fortezze inespugnabili. Eppure ancora, nella società italiana, fino al 1981, padre, marito e fratello avevano diritto sul corpo e sulla vita delle donne, e fu necessario attendere altri quindici anni perché, con la legge n. 66 del 15 febbraio 1996, lo stupro non fosse più un crimine contro la morale pubblica e diventasse un crimine contro la persona.

Per questo il «siamo tutti responsabili» declinato in questi giorni da molti uomini, così come la retorica della debolezza del patriarcato e della forza femminile – vera nelle vite dei singoli – rischia di diventare una via di fuga dalla responsabilità politica e culturale di fronte al progressivo oscuramento delle conquiste che credevamo ottenute per sempre. Anzitutto non siamo tutti responsabili: è responsabile chi commette un omicidio, è responsabile chi aiuta a commettere un omicidio. E siamo tutti corresponsabili – uomini e donne – se non assumiamo la consapevolezza di essere pervasi da migliaia di anni di cultura patriarcale, se non problematizziamo la storia che ci costituisce, se non facciamo i conti con retoriche che anche quando sostenute da donne mantengono un’aura maschia e marziale, a cominciare da un certo concetto dell’onore, molto. In voga nel fascismo e non a caso riconosciuto dal codice Rocco come valore socialmente rilevante di cui tenere conto a fini giuridici e in ambito penale.

Ne Le tre ghinee, Virginia Woolf mostrava come la parola “sociale” mantenga l’impronta di un’esclusione delle donne dallo spazio pubblico; un’esclusione agita dal proprio fratello, quello stesso fratello capace, nelle mura di casa, di mostrarsi premuroso e pieno di rispetto. «Non devi imparare, non devi guadagnare, non devi possedere, non devi… Questo è stato il rapporto sociale del fratello con la sorella per tanti secoli. […] Non possiamo non pensare che le società sono congiure che soffocano il fratello privato che molte di noi hanno motivo di rispettare, e generano al suo posto un maschio mostruoso, dalla voce prepotente, dal pugno duro, puerilmente intento a tracciare cerchi di gesso sulla superficie della terra entro i quali vengono ammassati gli esseri umani, rigidamente, separatamente, artificialmente». Queste parole venivano scritte nel 1938, mentre il Terzo Reich dava avvio alla fase più violenta della persecuzione degli ebrei e l’Italia fascista promulgava le leggi razziali, ma la costruzione sociale dell’inferiorità della donna continua a essere fondante nel cementare «società simili a congiure» dove, come scriveva la Woolf, «l’oppressione dello stato fascista non è separabile dall’oppressione dello stato patriarcale, allo stesso modo che le parole “tiranno” e “dittatore”».

È dalla linea di discendenza maschile che derivano le figure del dominio che, dal padre, procedono negli istituti di patriarcato, patrimonio e patria. E fu con lo slogan Dio-patria-famiglia che la dittatura militare argentina, autodefinitasi «processo di riorganizzazione nazionale», assunse il potere nel 1976, estendendo la categoria di nemico a qualsiasi persona fosse invisa al regime, in nome di un bene superiore, etico e sociale, con il risultato che trentamila persone divennero desaparecidos, torturate e gettate in mare con i “voli della morte”.

Combattere il patriarcato significa riconoscerlo, anche quando sono le donne ad assumerne la valenza simbolica, nelle sue forme lessicali, nel rifiuto della declinazione al femminile dei ruoli di potere, nella scarna scelta di altre donne nei ruoli apicali. Combattere il patriarcato, oggi, significa riconoscerlo e opporsi nelle sulle forme di dominio – anche se impersonato da figure femminili – nella progressiva erosione delle conquiste che hanno segnato uno spazio di libertà e di civiltà: la libertà femminile di generare, la libertà dei fragili dalle istituzioni totali, l’introduzione del reato di tortura, faticosamente introdotto nel 2017. È così che siamo tutti responsabili, anche della libertà delle donne.

Questo articolo è stato pubblicato su La Stampa il 22 novembre 2023

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