Le molestie nelle università italiane sono ancora sommerse

di Annalisa Camilli /
16 Aprile 2024 /

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Durante un esame online nel febbraio 2021, un professore della facoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali dell’università La Sapienza di Roma ha cominciato a masturbarsi. Probabilmente credeva di avere la telecamera del computer spenta, ma non era così. Gli studenti e le studenti hanno assistito increduli e hanno filmato l’episodio con i telefonini, poi hanno denunciato il fatto alle autorità universitarie, ma non ci sono state conseguenze. Solo una lettera di scuse del professore che ha ammesso: “Purtroppo l’incidente è frutto della stanchezza causata dagli esami online”.

E ancora: “Doveva essere un momento di pausa, ma purtroppo non mi sono accorto che la videocamera fosse rimasta aperta”. Il preside della facoltà Riccardo Faccini ha detto che nel video inviato dagli studenti “si vedevano atti poco chiari e il provvedimento è stato preso perché nel video si vede solamente che si sistema i pantaloni”. Ma per le studenti della facoltà il caso è tutt’altro che chiuso: in molte hanno chiesto di non frequentare il corso del professore e di non sostenere gli esami con lui, ma non hanno avuto risposte convincenti da parte delle autorità universitarie.

Lo raccontano insieme alle attiviste transfemministe della facoltà di sociologia della Sapienza, che il 13 marzo hanno occupato la sede della facoltà in via Salaria per chiedere degli spazi non misti (in cui sia vietato l’accesso ai maschi cisgender) per attivare dei centri antiviolenza gestiti dal basso e rispondere alle molte richieste d’aiuto delle studenti. Secondo diversi studi, la violenza riguarda fasce sempre più giovani della popolazione, ma gli strumenti per contrastarla sono ancora insufficienti.

“Rivendichiamo la necessità di uno spazio permanente, autorganizzato e transfemminista, all’interno della nostra università”, spiega Dalia (cognome non fornito per tutelare l’identità), una delle studenti e attiviste del collettivo studentesco di via Salaria. “Le denunce e i racconti di episodi di violenza che sono emersi e che si stanno moltiplicando dimostrano l’insufficienza delle misure prese per contrastare la violenza di genere nelle università”, continua.

“Un solo centro antiviolenza non basta per rispondere alle richieste d’aiuto di più di 120mila studenti. Inoltre, il servizio antiviolenza non è garantito 24 ore, ha orari spesso difficili per le studenti”, continua Dalia. “I bandi di concorso per l’attribuzione degli spazi e dei fondi seguono logiche di risparmio, invece di criteri che valutino le effettive competenze delle associazioni in materia di antiviolenza. C’è bisogno di centri antiviolenza dal basso, che non dipendano dalle istituzioni, perché è fondamentale che sia riconosciuta la radice sistemica e strutturale della violenza di genere”, conclude.

Uno dei temi che nelle ultime settimane hanno mobilitato gli studenti universitari in tutta Italia è quello del sessismo e della violenza di genere all’interno degli atenei. Secondo un sondaggio del collettivo Sinistra universitaria sono 160 le persone che hanno subìto molestie alla Sapienza. Al sondaggio online – condotto tra il 15 novembre 2023 e il 6 marzo 2024 – hanno risposto 1.318 studenti appartenenti a quasi tutte le facoltà. I risultati sono stati presentati il 12 marzo in una conferenza stampa.

Dal sondaggio è emerso che il 31,4 per cento delle persone intervistate ha assistito a una discriminazione all’università, il 10,4 per cento a una violenza e/o a una molestia (psicologica o sessuale). Mentre il 15,6 per cento ha dichiarato di aver subìto almeno una molestia. I responsabili delle molestie sono: nel 22,3 per cento docenti, nel 60 per cento studenti e nel 12,4 per cento dei casi appartenenti al personale tecnico e amministrativo.

Strumenti insufficienti

“Gli strumenti che abbiamo sono inadeguati: solo uno studente su dieci sa dell’esistenza della consigliera di fiducia della rettrice sulle questioni che riguardano la violenza, e un solo centro antiviolenza è poco”, affermano le studenti del collettivo di via Salaria. I dati del sondaggio di Sinistra universitaria non sono in linea con quelli diffusi dalla rettrice dell’ateneo Antonella Polimeni. Intervenendo nel corso dell’audizione della commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio lo scorso febbraio, Polimeni ha detto che nel 2023 sono arrivate alla consigliera di fiducia della rettrice tredici segnalazioni di molestie, apprezzamenti verbali e abusi di potere da parte di professori, ricercatori, direttori di dipartimento, personale amministrativo e altre figure del personale universitario.

Secondo quello che ha denunciato la rettrice, durante il primo semestre del 2023 sono arrivate cinque segnalazioni di molestie sessuali avvenute nel corso di tirocini in strutture convenzionate con l’ateneo. Dati che, come spiega Polimeni, hanno portato “all’interruzione delle convenzioni e alla segnalazione specifica alla direzione della struttura”. Nel secondo semestre, invece, ci sono state otto segnalazioni, di cui sei per molestie. “Cinque di queste”, ha spiegato la rettrice, “sono avvenute in una relazione di potere docente o ricercatore verso studentesse o dottorande, e una in una relazione tra colleghi. Al momento una procedura è ancora seguita in maniera informale, altre per valutazione di acquisizione di altri elementi. In alcuni di questi casi, inoltre, c’è anche la parallela attivazione dei procedimenti disciplinari che, come è noto, seguono vie separate rispetto alle segnalazioni alla procura della repubblica”.

C’è stato poi anche un caso di stalking digitale di uno studente ai danni di una collega. “Una fattispecie nuova che non mi stupirei se crescesse nel tempo. In questo caso c’è stata una denuncia al commissariato e parallelamente l’attivazione di un percorso di recupero dello studente con delle sedute di counseling” psicologico, afferma Polimeni. Nel 2023, inoltre, è stato sospeso un docente per molestie sessuali in seguito a una segnalazione, avvenuta l’anno precedente. Il caso è stato portato anche in tribunale, ha riferito la rettrice, che ha spiegato che in queste situazioni dev’essere convocato un collegio di disciplina, di cui fanno parte anche professori di altri atenei, che poi aprono un’istruttoria, per verificare la fondatezza delle accuse. Il collegio può decidere di adottare delle sanzioni anche gravi, come la sospensione dall’insegnamento.

Il centro antiviolenza è stato attivato dalla Sapienza nel 2022 nel quartiere San Lorenzo, nell’ambito di un piano regionale lanciato dalla giunta Zingaretti che prevedeva l’attivazione di centri di questo tipo in tutti gli atenei del Lazio. Quello della Sapienza è gestito dall’associazione Telefono rosa. Nel 2023 gli sono arrivate 64 denunce di violenza, 172 richieste di consulenza psicologica, undici di ospitalità nelle case rifugio. Ma, come ha spiegato la rettrice, nel centro antiviolenza arrivano anche persone che non sono necessariamente legate all’università.

Anche a Tor Vergata e a Roma Tre, le altre due università pubbliche romane, sono stati aperti dei centri antiviolenza. Quello di Roma Tre porta il nome di Sara Di Pietrantonio, una ragazza di 22 anni uccisa e bruciata dal suo ex ragazzo nel 2016, ed è gestito dalla casa delle donne Lucha y siesta.

“Sul totale delle persone che accogliamo un 20-25 per cento arriva dall’università, per il resto si rivolgono a noi le donne che vivono nel territorio intorno all’ateneo. Una delle cose che abbiamo verificato è che si rivolgono a noi sempre di più donne giovani e giovanissime”, spiega una delle responsabili del centro, Simona Ammerata. Nel 2023 sono state 120 le donne che si sono rivolte al centro, aperto da quattordici mesi. “Ma nei primi mesi di quest’anno le richieste sono aumentate”, continua Ammerata.

Anche tra giovani e giovanissime si riscontrato tutti i tipi di violenza, ma in particolare sono molto diffuse le forme di controllo e violenza digitale.

“C’è stalking, violenza digitale, ciberstalking, doxing, diffusione non consensuale di immagini intime. Queste forme di violenza sono in aumento”, sostiene Ammerata. “C’è un uso diffuso da parte dei ragazzi di dispositivi per il controllo della geolocalizzazione, delle email, degli account, dei social network, delle password. Le telecamere in casa crescono e aumenta anche in modo esponenziale il livello di controllo e violenza”.

I danni che possono essere fatti con la violenza digitale sono enormi, ma gli strumenti per combatterla sono arretrati. “Qualche tempo fa siamo state contattate da una persona che è stata avvertita da altri che giravano delle sue immagini intime in una piattaforma social a sua insaputa”, racconta Ammerata. “In questi casi è molto difficile anche ottenere la rimozione delle immagini senza il consenso. In questo campo abbiamo ancora pochi strumenti per l’indagine e pochi per punire i colpevoli”, conclude Ammerata, che cita uno studio secondo cui l’Italia sarebbe il quarto paese europeo per la presenza attiva di maschi incel online (maschi celibi misogini che compiono violenze online contro le donne).

Secondo Ammerata i centri antiviolenza nelle università sono un grande passo in avanti, perché permettono di “mettere a sistema” tutti gli strumenti contro la violenza, di “fare sinergia nella prevenzione, nella ricerca, nell’analisi”, e sono “un’occasione di studio e di prevenzione incredibile”. Ma c’è ancora molto da fare: “Roma Tre è uno degli atenei che ha un codice etico ma non ancora quello antimolestie, e questa è una delle cose su cui stiamo lavorando per provare a fare in modo che anche questa università abbia uno strumento sia normativo sia di buone prassi”.

Un’altra questione è la mancanza strutturale di posti in case rifugio e in case di semiautonomia, un fattore che arriva perfino a vanificare il lavoro dei centri antiviolenza, secondo le operatrici. La pensa così anche Elisa Ercoli, presidente di Differenza donna, associazione che gestisce il centro antiviolenza dentro l’università di Tor Vergata, il centralino 1522 e diversi centri antiviolenza romani, tra cui la casa rifugio Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, una struttura di proprietà del comune di Roma che porta il nome di due ragazze romane, vittime del famoso massacro del Circeo.

“Il centro antiviolenza e casa rifugio Colasanti-Lopez è stato aperto nel 1997, prima di allora il comune di Roma dava un contributo al centro antiviolenza della provincia, quello di villa Pamphili, che nel 1992 è stato il primo di questo genere ad aprire nel centro-sud”, racconta Ercoli. “Il rifugio nasce subito dopo la conferenza di Pechino sulle donne, che ha dato una spinta alle conquiste delle donne, c’era l’impegno sia delle attiviste sia delle donne che lavoravano nelle istituzioni”, continua Ercoli, che dice che nella città di Roma i centri antiviolenza non hanno chiuso neanche durante la pandemia.

Dalla fine del 2023 ci sono tre cambiamenti in corso: “La violenza di genere è un fenomeno ancora sommerso, il 90 per cento degli episodi di violenza non sono denunciati. Ma negli ultimi mesi vediamo un aumento importante delle denunce. In parte è successo dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, che per tante ragioni ha smosso l’opinione pubblica italiana. Abbiamo calcolato che c’è un aumento di almeno l’8 per cento di ragazze tra i 17 e i vent’anni che si rivolgono ai nostri centri. È una crescita rilevante. Inoltre, riceviamo telefonate di genitori di ragazze giovani che in seguito al femminicidio di Cecchettin riconoscono quelli che sono i fattori di stress nelle proprie figlie, quegli elementi che così bene sono stati spiegati dalla stessa Cecchettin negli audio che sono stati diffusi sui social network e illuminano la sua relazione con Turetta. Molti padri e madri ci chiamano e si dicono preoccupati. Finalmente la società si rende conto che quello che un tempo era considerata tutela della privacy di una coppia, perfino rispetto, in realtà è una forma di tolleranza e di connivenza con la violenza”.

Secondo Ercoli, quindi, c’è una consapevolezza maggiore che in passato e questo fa emergere di più la violenza. “Se dieci anni fa le donne uscivano da un maltrattamento in media dopo otto-dieci anni, ora succede dopo circa tre anni. Questo perché c’è più consapevolezza, ma anche perché ci sono più centri antiviolenza sul territorio”. Ma c’è un altro fattore che bisognerebbe considerare con più attenzione: “I giovani uomini maltrattanti e violenti hanno un’escalation molto più rapida, cioè passano alla violenza e al femminicidio con rapidità, da forme di controllo psicologico a tentativi di violenza più efferata in meno tempo, questo ci deve fare riflettere sulla cultura patriarcale che ancora respirano”.

Di centri antiviolenza ce ne sono una ventina a Roma, 49 nel Lazio, ma queste strutture da sole non bastano. “Abbiamo un numero bassissimo di posti letto in case rifugio, non coprono neanche il 5 per cento del fabbisogno (secondo quanto stabilito dalla Convenzione di Istanbul, ndr), che significa un posto letto ogni diecimila abitanti e su questo c’è un grande lavoro da fare”, spiega Ercoli.

“Viviamo in un paese che ha un numero alto di donne disoccupate, una su due non lavora, soprattutto tra le ventenni, per questo è importante che ci siano più case rifugio e di semiautonomia, strutture cioè in cui le donne sono più autonome, dopo il primo passaggio d’emergenza nella casa rifugio”, continua.

Il comune di Roma sta aumentando gli investimenti per i centri antiviolenza e per le case rifugio, perché riesce a integrare la propria spesa con i finanziamenti che arrivano dai fondi europei. Per esempio, tra il 2017 e il 2023, la casa rifugio Colasanti-Lopez ha beneficiato di più di 900mila euro del programma per le città metropolitane della politica di coesione europea. “Questo significa che negli anni i bilanci sono aumentati, permettendo alle associazioni che devono gestire i centri di farlo in modo più sostenibile”, spiega la presidente di Differenza donna, questo ha permesso cioè d’integrare i bandi comunali e mettere più fondi a disposizione delle associazioni che gestiscono il centro.

Non succede lo stesso per la regione Lazio: “È ferma da più di dieci anni dal punto di vista dei fondi. La regione ha stanziato 67mila euro all’anno per i centri antiviolenza, mentre i bandi di Roma capitale prevedono 69mila euro all’anno, grazie proprio a queste integrazioni”, dice Ercoli.

Secondo la presidente di Differenza donna i centri antiviolenza nelle università “sono presidi importanti, ma non bastano. Le università devono mettere in atto delle procedure esplicite che mostrino il desiderio e l’obiettivo di contrastare le molestie in maniera netta e prevedere anche delle procedure interne per segnalare questo tipo di problemi. Devono dare dei segnali espliciti a questi personaggi violenti che hanno sempre avuto un potere illimitato, hanno goduto del silenzio e dell’impunità”. Bisogna ricordare, conclude Ercoli, “che proprio nel massacro del Circeo i violenti erano degli insospettabili, ragazzi di buona famiglia, uno studiava ingegneria, uno architettura e uno era il figlio di un grande imprenditore romano. I violenti sono a volte persone apparentemente ordinarie”.

Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 10 aprile 2024

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