Miseria e nobiltà del marxismo bianco

5 Maggio 2020 /

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[Recensione del libro Marx nei margini. Dal Marxismo nero al femminismo postcoloniale, a cura di Miguel Mellino e Andrea Ruben Pomella, Edizioni Alegre, Roma 2020]
di Fabio Ciabatti
Frantz Fanon sostiene nei Dannati della terra che per affrontare il problema coloniale le analisi marxiane devono essere “distese”. Cosa significa? Secondo Miguel Mellino e Andrea Ruben Pomella, curatori del volume collettaneo Marx nei margini, vuol dire che non basta ampliare il marxismo dando maggiore rilevanza a questioni che sono state ai limiti dei suoi interessi principali. Occorre piuttosto relativizzare il pensiero di Marx liberandolo dalle pieghe eurocentriche e coloniali in cui è stato confinato dal marxismo occidentale.
Secondo i curatori le circostanze che portano a questa decolonizzazione del marxismo sono di duplice natura: da una parte, l’eterogeneità costitutiva del lavoro contemporaneo e delle sue forme di sfruttamento, la differenziazione della gerarchia e della geografia dei meccanismi di inclusione/esclusione del modo di produzione capitalistico a livello globale, dall’altra, l’irruzione sullo scenario politico di soggetti storici marginali rispetto alla riflessione politica marxista tradizionale – movimenti anticoloniali, movimenti indigeni, femminismo, Black Power, movimenti antirazzisti, movimenti migratori ecc.
Sviluppato principalmente da intellettuali europei bianchi, proseguono i curatori del volume, il marxismo ha sottovalutato la questione coloniale-razziale nell’analizzare le classi e l’antagonismo di classe. Non è riuscito a sviluppare un’adeguata concezione di razza e razzismo che, intesi nella loro materialità culturale ed economica, dovrebbero essere compresi come dispositivi non solo di sfruttamento capitalistico, ma anche di governo delle popolazioni moderne. In altri termini il marxismo tradizionale ha finito per inquadrare la questione coloniale-razziale come una tipologia di sfruttamento eccezionale rispetto al dominio autenticamente capitalista sviluppato nei paesi più avanzati, perdendo di vista la colonialità costitutiva del comando capitalistico. L’enfasi è caduta sulla dimensione universalizzante e omogeneizzante del dominio del capitale a scapito della sua costante produzione di eterogeneità, gerarchie e differenze.
Il catalogo dei punti dolenti del marxismo richiamati da Mellino e Pomella non sorprenderà chi ha familiarità con gli studi postcoloniali: storicismo, teleologia, economicismo, universalismo.  La peculiarità del libro è però quella di utilizzare questi punti di vista critici non per dismettere il marxismo, ma per cercare di arricchirlo o, per essere più precisi, distenderlo. In questa prospettiva ciascun saggio del libro si occupa di un autore marxista che ha affrontato la questione coloniale-razziale o ha fornito strumenti per analizzarla al di fuori degli schemi del marxismo classico europeo: José Carlos Mariàtegui, C.R.L. James, Raymond Williams, Gayatri Spivak, Huey P. Newton, Amilcal Cabral, Claudia Jone e Louis Althusser. In questa recensione ci occuperemo solo dei primi tre con l’intento di mostrare come gli esiti di questo ripensamento del marxismo dai margini siano meno scontati di quanto potrebbe sembrare a prima vista, abbracciando un generico quanto diffuso senso comune postcoloniale.
Cominciamo allora con il socialismo di José Carlos Mariàtegui (1894 – 1930) che, così come ce lo presenta Miguel Mellino, appare attraversato nel suo sviluppo dalla tensione tra un antimperialismo nazionalista e un antimperialismo internazionalista. Per il marxista peruviano il suo Paese è costituito da un intreccio di temporalità differenti e di modi di produzione eterogenei. La comunità agricola egualitaria degli indigeni rappresenta la base materiale e soggettiva per edificare un socialismo con caratteristiche peruviane. Non si tratta però di indulgere in un’utopica restaurazione, perché il passato per Mariàtegui può rappresentare una radice, una causa, mai un programma.
Ciò detto la sopravvivenza di un’economia con caratteristiche feudali-servili-coloniali viene in un primo momento riportato alla mancanza di una classe dirigente nazionale autenticamente borghese e non ne viene colta fino in fondo, secondo Mellino, la funzionalità rispetto alla integrazione subalterna nell’ambito dell’economia mondiale. Questo tipo di critica alla classe dirigente peruviana può rimandare a un antimperialismo nazionale in cui la maggioranza indigena può trovare un alleato in una borghesia che, liberatasi dai suoi limiti feudali, si riveli finalmente all’altezza del suo compito nazionale. Quando, successivamente, Mariàtegui segue più da vicino l’antimperialismo di Lenin, abbandonando ogni illusione sulla possibile evoluzione positiva della borghesia nazionale, la classe operaia sembra nuovamente prendere il sopravvento sul contadino e sull’indigeno come soggetto della rivoluzione e la rivoluzione socialista acquista priorità rispetto alla questione nazionale. L’antimperialismo internazionalista, insomma, fatica a reggersi sulle spalle di un soggetto pensato nella sua specificità nazionale e torna a far leva su una soggettività che, visto alla luce della riflessione precedente, avrebbe i connotati di un’universalità in qualche misura astratta.
Passiamo ora al saggio di Matthieu Renault su C.R.L. James (1901 – 1989).  Nato nella colonia britannica di Trinidad e Tobago nelle Antille, l’autore dei Giacobini neri si propone di restituire alle masse colonizzate-razializzate, sistematicamente escluse dalle narrazione europee, lo statuto di soggetti della storia. Ciò nonostante definisce il suo pensiero come frutto di una genealogia strettamente occidentale, attraverso la quale sostiene di aver acquisito la sua conoscenza della civiltà occidentale e allo stesso tempo dell’importanza dei paesi che continua a definire sottosviluppati. Nel suo pensiero rimane dunque quella che Renault definisce una irrisolta e produttiva tensione tra una prospettiva che mantiene l’idea della precedenza della rivoluzione in Occidente e una concezione decentrata dell’indipendenza e dell’importanza delle lotte nere e anticoloniali. Il destino dei paesi non occidentali rimaneva per James quello di essere occidentalizzati anche se le rivoluzioni anticoloniali avrebbero dovuto reinventato il significato stesso di Occidente, altrimenti destinato a un’ineluttabile tramonto. La partecipazione dei movimenti afroamericani alla rivoluzione socialista avrebbe comportato l’incessante approfondimento e allargamento dell’indipendenza delle loro lotte di massa. Per questo per James la pratica e teoria marxiana devono essere tradotte nelle differenti lingue nazionali, adeguandole ai molteplici contesti spaziali e temporali. L’universalità dei principi del marxismo è il prodotto di questo processo di traduzione. Pardaossalmente, però, il marxismo è anche il metalinguaggio universale che consente la traduzione.
Secondo James il futuro della civiltà si svela, in anticipo, lontano dal centro di quella stessa civiltà.  James, riprendendo Trotsky, sostiene che i paesi arretrati sono costretti a compiere salti rovesciando il carattere di arretratezza delle loro lotte e dei loro protagonisti che sono così proiettati all’avanguardia del processo rivoluzionario. A differenza del rivoluzionario russo, però, non ritiene necessario fare affidamento su una piccola classe operaia come guida politica. Lo sviluppo ineguale e combinato per il marxista antillano diventa legge universale. In questo modo il margine si fa centro: la Francia politicamente arretrata produce la rivoluzione politica per eccellenza della modernità, la Germania economicamente arretrata produce la filosofia classica e il marxismo. Per affermare ciò occorre, secondo James, posizionarsi nella storia attraverso una concezione scientifica. Da questo punto di vista lo storicismo non è mera invenzione ideologica di cui disfarsi rompendo le barriere mentali ereditate dalla storia coloniale. L’imperialismo, producendo l’“arretratezza” delle colonie rispetto allo sviluppo capitalistico della madrepatria, produce al contempo le condizioni materiali di verità dello storicismo che perciò può essere vinto solo dissolvendo quelle stesse condizioni materiali. Non si tratta dunque di decostruire il discorso eurocentrico riconoscendo la molteplicità conflittuale delle possibili narrative storiche, seguendo un’attitudine postmoderna. Occorre invece riscrivere il discorso-verità della modernità a partire dai margini
Veniamo infine a Raymond Williams (1921 – 1988) che, ci racconta Mauro Pala, ben prima che si affermassero gli studi postcoloniali a livello accademico, riteneva che i conflitti per l’indipendenza dei Paesi colonizzati dovessero essere collegati con le minoranze europee, a cominciare dai Paesi Baschi e dal suo natio Galles. Eppure Williams ammetterà un intimo disagio nell’occuparsi delle problematiche gallesi che lo porterà, nel suo romanzo Border Country, a trovare una forma narrativa in grado di vedere contemporaneamente la comunità dei lavoratori dall’interno e dall’esterno (ciò avviene giustapponendo la figura di un padre, immerso nella sua comunità, e quella del figlio, professore universitario che torna nel suo paese d’origine). La necessità di questo doppio sguardo si può far risalire al fatto che il marxista gallese si colloca sul crinale tra due interpretazioni antitetiche del concetto di culture: quella conservatrice per cui occorre salvaguardare una venerabile eredità di fronte alla minaccia congiunta di industrialismo e democrazia e quella progressista, eredità delle rivoluzioni borghesi, secondo la quale la cultura compendia un orizzonte di attese, un potenziale inespresso per un’emancipazione sociale. Da ciò deriva una tensione tra nostalgia metafisica e utopismo in cui prende forma una concezione della cultura che non si riduce a mero eco o riflesso della struttura, ma si configura come coscienza pratica che include i processi di significazione linguistica attraverso i quali gli uomini prendono coscienza dei propri interessi e dei loro conflitti.
Di certo il concetto di un passato organico e soddisfacente contrapposto alla disintegrazione del presente tende, trascurando la storia, a negare la reale esperienza sociale. Williams, invece, è interessato a comprendere lo scarto rispetto alla regola per comprendere la dialettica del nuovo cercando di coniugare storicismo e relativismo della narrazione storica. L’attacco allo storicismo, inteso come insieme di idee su un futuro necessario o solo probabile, si risolve spesso in un attacco a ogni possibile nozione di esistenza migliore, in un’argomentazione contraria alla possibilità della speranza in quanto tale. Il Galles, ancora partecipe di una cultura orale e con i suoi equilibri e tradizioni premoderni, diventa un sito di resistenza e dunque di speranza la cui forza e eticità sostanziali sono tuttavia destinate a essere travolte dalla storia. Solo riuscendo a sanare le contraddizioni tra nazionalità e classe, tra benessere locale e gli imperativi di un benessere su più ampia scala, è possibile sfuggire al “dolore” cui sembra destinata la coscienza sociale del contemporaneo.
Le tensioni che abbiamo evidenziato nel pensiero di Mariàtegui, James e Williams non possono essere lette semplicemente come le tipiche contraddizioni di una nuova concezione ancora ai suoi inizi, destinate ad essere superate con la maturazione del programma di ricerca postcoloniale.  Si tratta invece della manifestazione di fecondi nodi problematici impossibili da sciogliere con un taglio netto. Storicismo, universalismo, economicismo e teleologismo (concetti che qui, per brevità, mettiamo tutti allo stesso livello, ma che meriterebbero una valutazione differenziata) non possono essere considerati alla stregua di vecchi arnesi concettuali di cui disfarsi senza indugio attraverso una raffinata opera di decostruzione. Essi, infatti, con tutti i loro limiti, esprimono il tentativo di dare risposta a esigenze pratiche e teoriche ancora attuali per chiunque si ponga il compito di un superamento radicale dello stato di cose presenti. Si tratta del bisogno, per dirla con James, di un discorso-verità sulla modernità che ne sappia individuare le determinanti, le possibili tendenze, i punti di rottura. Tutto ciò non per delirio di onnipotenza teoretica, ma al fine di prospettare un orizzonte comune, in questo senso universale, per tutti i soggetti concreti che sono oppressi e che vogliono ribellarsi.
Oggi, nani postmoderni sulle spalle dei giganti moderni, siamo consapevoli del fatto che non ci sono garanzie assolute derivanti dalla necessità storica o soggetti sociali meccanicamente destinati a salvare l’umanità dal moloch capitalistico. Questa consapevolezza, però, non ci autorizza ad abbandonarci alla completa arbitrarietà dell’azione immediata. Rimane il dovere di limitare l’aleatorietà, comunque insopprimibile, del nostro agire per non andare disarmati al macello. Sapere che il mito si è spesso e volentieri camuffato con i panni della scienza non ci autorizza a mascherarci da apprendisti stregoni.
La capacità di valorizzare la molteplicità dei soggetti dell’antagonismo e delle possibili narrazioni del conflitto può certamente arricchire pratiche e strumentazioni teoriche in grado di rompere il malefico incantesimo lanciato da Margaret Thatcher quando pronunciò il suo famigerato “there is no alternative”. Riconoscere questa molteplicità, rinunciando a un’arbitraria unificazione, è un passo necessario ma non ancora sufficiente quando il conflitto non si situa nel cielo della teoria ma nella materialità di un pratica che si vorrebbe rivoluzionaria. Quando, in altri termini, ci si trova a combattere un nemico che, con le leve del potere economico-politico nelle sue mani, ha oramai imparato molto bene a sfruttare a suo vantaggio le differenze e, al tempo stesso, non ha ancora preso del tutto la capacità di superare i suoi conflitti interni nel momento in cui si sente minacciato; quando non ci si può limitare a una mera trasformazione politica, ma si devono sovvertire quei rapporti sociali di produzione che continuano ancora a presentarsi con l’evidenza delle leggi di natura, anche se oggi la loro capacità di riprodursi in modo semi-automatico sembra vieppiù indebolirsi.
Come scriveva Aimé Césaire nel testo del 1956 riprodotto in apertura del volume, il punto non è perdere se stessi diluendo la propria particolarità nell’universale, ma neanche quello di blindarsi in un particolare segregato. Occorre invece concepire “l’universale come qualcosa che si arricchisce continuamente di tutto ciò che è particolare”. Se questo è il compito, probabilmente, la rivoluzione che verrà non l’abbiamo ancora immaginata davvero.
Questo articolo è stato pubblicato su Carmilla il 3 maggio 2020

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