La finanziarizzazione della natura e della vita

5 Aprile 2020 /

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di Bernardo Bertenasco

Un aspetto inquietante dell’epoca dell’antropocene è quello della finanziarizzazione della natura, cioè della “climate finance” o “green finance” secondo la quale i disastri ambientali non sono fenomeni da limitare in quanto tali, ma eventi su cui investire con le splendide “catastrophe bond” (obbligazioni catastrofe), che creeranno profitti per chi ha scommesso sulle possibili catastrofi naturali in un determinato luogo (pensate che grande affare investire sull’esistenza precaria di chi vive ai piedi di un vulcano o in una zona a grande rischio sismico), oppure la “compensazione dell’inquinamento”, grazie alla quale un’azienda può contaminare impunemente e senza limite in un determinato luogo e poi comprare terreni a basso prezzo in zone “poco sviluppate” del pianeta per piantarci alberi che non hanno nulla a che vedere con la fauna, la flora e le popolazioni locali; di solito gli economici, facili da gestire, eucalipti.

Esistono poi i “mutui ambientali”, i “carbon trading”,  i “derivati climatici” e tante altre formule mediante le quali il capitale trae profitti dalla crisi climatica e dalle popolazioni, spesso povere, da questa maggiormente colpite. Rientrano nella stessa logica i ricatti   -salute o stipendio- della terra dei fuochi e dell’Ilva di Taranto e la precarizzazione del lavoro che forgia l’attuale neo-schiavismo, ossia l’antropologia dell’insicurezza che caratterizza molti lavoratori, soprattutto giovani, che, pur nell’incertezza esistenziale e nell’impossibilità progettuale circa il loro futuro (quando non presente), rispondono con il “furore di vivere”, cioè “una sorta di stratagemma che dà senso all’esistenza aggredita dalle circostanze”, come scrive Giovannelli su Effimera. Ma la sua controparte è il “furore di morte”, la solitudine di un mondo nel quale l’economia è ridotta a rischio finanziario, svuotato di politica e comunità (quindi di senso), incentrato sull’individualismo ripiegato e delirante dei romanzi di Houllebecq, sulle psicopatologie fomentate dalla pubblicità, sulla depressione collettiva del realismo capitalista e del malessere strutturale all’ideologia dominante – la quale si ostina a ripetere il falso mantra della fine delle ideologie – del “buono a nulla” Mark Fischer, sullo spauracchio continuo dell’inattività vissuta come un fallimento personale (certo, perché la società, come diceva la Thatcher, non esiste), sulla tristezza insita nella mercificazione del neoliberismo nichilista, che, secondo Bifo, nei casi più estremi, supera il senso di inadeguatezza e insignificanza fino a portare ai suicidi, spesso omicidi-suicidi con la conseguente tragica teatralizzazione,  come “atti di protesta e attacchi politici”, nonché come forma di riconoscimento sociale negato, vissuto in quei 15 minuti di popolarità di cui parlava Andy Warhol. Vedersi finalmente su uno schermo, riconosciuti e apprezzati, poi morire essendo “qualcuno”. Impregnati di quella retorica da social network dell’essere popolari a tutti i costi, della competitività e della performatività della società della prestazione, nel mercato dell’apparire che annulla l’essere, in quella modalità esistenziale dove l’ontologia è fondata sull’avere, sul mostrare “qualcosa” e non ciò che realmente siamo, sui nostri pregi e difetti, sulle nostre qualità, inutili nel grande algoritmo che controlla le nostre vite e che decreta se siamo “dentro” o “fuori” dal tunnel, pur se forse non avremmo nemmeno voluto entrarci. È la “fatica di essere sé stessi” oltre lo sfoggio del personal brand ammaccato, intimamente ridicolo dietro il sorriso sfacciato della sua facciata. Consumare, apparire e accumulare come basi dell’Essere triste, svuotato di valore e significato, ridotto a Nulla mercificato, con un tasso di suicidi e autolesionismo molto più alto negli adolescenti odierni che in quelli di dieci o vent’anni fa; forse la perdita di valore sociale della famiglia, la distruzione dell’ambiente finalizzata al profitto, il mantra della crescita che non tiene conto della redistribuzione e la finanziarizzazione dell’esistenza hanno qualcosa a che vedere con tutto ciò?

Lo stesso avviene in ambito tecnologico, dove, al posto di investire sulla ricerca delle possibili malattie connesse alle onde a cui siamo sovraesposti, si preferisce spendere su “innovazioni” come il 5G, e infine, eventualmente, ancora spendere per curare le malattie che avremo piuttosto che sulla prevenzione di queste. Tuttavia, il caso del comune di Asolo, in provincia di Treviso, dove è partito uno stop alle sperimentazioni 5G con diffida a procedere contro Iliad, mostra che la politica esiste e può ottenere qualcosa, anche con una semplice raccolta firme ed un sindaco attento. Lo stesso sta avvenendo anche in Svizzera, dove non sono disposti a rischiare la salute degli esseri umani, della flora e della fauna, in cambio di un “progresso” che potrebbe essere nocivo, oltre che, eccetto in alcuni casi, inutile.

In maniera analoga, i siti di intrattenimento online, ci illudono di essere “verdi”, diversi da chi produce materia pesante, quando ormai i costi ambientali della rete e del continuo traffico dati sono noti e hanno un nome: inquinamento digitale. Così proprio quella tecnologia, che potrebbe liberarci dal giogo del lavoro coatto e del capitale, diventa, marxianamente, arma nelle mani di chi la detiene contro chi, pur obbligato a farne uso, ne paga solo il prezzo (lavorare a casa senza avere un luogo definito in cui farlo ed essendo quindi privati della socializzazione quotidiana, essere sempre rintracciabili anche in orari extra lavorativi, subire continuamente onde, vivere passivamente la burocratizzazione computerizzata della vita, soffrire di danni permanenti quali cervicale, problemi agli occhi, tunnel carpale..).

La responsabilità individuale di determinati individui e aziende viene sostituita con il generico “rischio impersonale” dei danni naturali imprevedibili e, falsando la realtà, mettendoci indistintamente sullo stesso piano, oltre la disparità ecologica e sociale, tra chi la subisce e chi specula sul “green capitalism” e “disaster capitalism”, fingendo che tutti con semplici azioni quotidiane possiamo contrastare il volere/potere economico ed ambientale delle multinazionali.

In Lettonia per esempio, luogo silvestre per antonomasia, dove la foresta non è muta come nelle società completamente secolarizzate quanto piuttosto luogo di incontri, paure, dubbi ed esperienze, in cui natura e religiosità sono ancora indissolubilmente legate fino a creare la “religione dei boschi”, vogliono aumentare il disboscamento per incrementare le esportazioni di legname, fingendo ci sia un interesse collettivo, legato alla possibile crescita del PIL nazionale (molto influenzato dall’industria del legno), che però non tiene in conto di come questa viene distribuita tra i suoi cittadini, i quali, in questa maniera, oltre a non godere di nessun frutto, si vedrebbero privati della libertà di poter avere un rapporto diretti con i propri boschi.

La lauki (campagna in lettone) è uno dei simboli nazionali in un paese così verde e ricco di natura ancora incontaminata: distruggerla significa annichilire l’anima della Lettonia, arrecando un danno ambientale a tutta l’Europa, le repubbliche baltiche e i paesi scandinavi sono infatti il nostro ultimo polmone verde.

E se il rischio in Lettonia è di sostituire il panteismo con la pecunia sive natura, da noi, nonostante il sano moto popolare della Lessinia, non stiamo meglio, perché il parlamento sta approvando leggi sui parchi naturali che limiteranno le restrizioni alle diminuzioni e agli abusi sulle zone protette (cambio della legge quadro del 1991).

In maniera ancor più goffa, con malcelato “amore per la natura”, si cerca di far pagare il costo dei danni ambientali, causati in buona parte da grandi aziende con il placet di politici corrotti, ai cittadini delle classi basse e medie, come avvenne nel 2018 in Francia con l’aumento del carburante per le “accise verdi”, quando nacque lo straordinario movimento di protesta dei “gilets jaunes” o, nello stesso periodo, in Colombia, dove cominciò una rivolta esemplare contro il “gasolinazo” (stessa dinamica di aumento delle accise sulla benzina per i cittadini come in Francia), le politiche economiche del governo ed i piani debitori e affamanti del Fondo Monetario Internazionale, vero flagello in tutta l’America Latina (basta guardare il fallimento di Macri in Argentina per rendersene conto). Un plauso a questi veri moti per la dignità e la giustizia, così forti visti da un’Italia in cui l’unica nuova “forza” di sinistra sarebbe un gruppo pro status quo, piegato dallo scandalo della vicinanza a industriali a dir poco “non puliti”, destinato a misere parole vuote sulla resilienza, senza nessun conflitto aperto con il potere, che certo non cederà nulla sulla base di nulla.

Ultimo esempio di estrema finanziarizzazione della natura è quello del turismo in Antartide. Partiranno voli e crociere dal Cile e dall’Argentina per “visitare” il continente dei pinguini e del permafrost, così il consumismo ambientale e il turismo dell’eccesso portano gli effetti dell’antropocene alle estreme conseguenze.

In conclusione, la natura, come dice Keucheyan, è un campo di battaglia: il conflitto tra capitale e vivente è aperto.

Un’ecologia politica può essere pensata solo in un’altra forma dell’abitare, fuori dal capitalocene e dall’accumulazione senza fine. Ecco perché la questione ambientale è intimamente legata a quella sociale, razziale, tecnologica, di classe e di genere.

Questo articolo è stato pubblicato su Effimera il 29 marzo 2020

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