Educazione fisica a scuola: in Italia in vigore il fai da te

14 Febbraio 2020 /

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di Lorenzo Vendemiale
“Forza bambini, tutti in palestra a fare educazione fisica”. Solo che manca l’insegnante di educazione fisica, e molto spesso persino la palestra. Lo Stato se ne disinteressa da sempre, il Coni ha provato a metterci una pezza, allargandosi su competenze non sue, con risultati altalenanti. Così lo sport nella scuola italiana resta uno slogan, un progetto un po’ scalcagnato. Specie fra i più piccoli, alle elementari, dove nasce la pratica sportiva. E invece c’è solo improvvisazione: quest’anno tra liti istituzionali e scelte cervellotiche l’unico piano nazionale è partito con quattro mesi di ritardo e imbarazzanti differenze geografiche. In Puglia si gioca a pallacanestro, in Lombardia si fa ginnastica. In alcune classi di alcune scuole. Nelle altre nemmeno questo.
Fanalino di coda. Si dice che la pratica scolastica sia la base dei trionfi sportivi di un Paese e della forma fisica dei suoi abitanti. L’Italia è l’eccezione che conferma la regola: a Olimpiadi e Mondiali il tricolore sventola nonostante fra i banchi non si faccia quasi nulla. Soprattutto alle elementari, primo e determinante ciclo di istruzione: l’educazione motoria è compresa nei programmi ma è come se non ci fosse. Manca l’insegnante specializzato: la figura del maestro di educazione fisica non è prevista nell’ordinamento; la materia è affidata al maestro generalista (quasi tutti donne, spesso avanti negli anni visto lo scarso ricambio generazionale), che non ha competenze né attitudine. Di più: mentre all’estero la disciplina è obbligatoria, quasi sempre per due ore a settimana (in Francia e Portogallo addirittura tre), da noi l’orario è lasciato all’autonomia degli istituti, che generalmente ne fanno solo una. Siamo fanalini di coda in Europa, e i nostri piccoli ne risentono: il 21,3% di bambini fra gli 8 e i 9 anni è in sovrappeso, il 9,3% obeso. Non può essere un caso.
Nell’inerzia dei governi qualcosa ha provato a fare il Coni. Un progetto, neanche rivoluzionario: prima si chiamava “Alfabetizzazione motoria”, dal 2014 è diventato “Sport di classe”. Consiste essenzialmente nell’inserimento di un tutor, che per un’ora alla settimana affianca il maestro nelle quarte e quinte elementari degli istituti che aderiscono, garantendo la doppia ora di educazione fisica. I limiti sono sempre stati evidenti. I soldi, innanzitutto: finanziato a fasi alterne, il piano è arrivato negli anni a contare su un massimo di 15 milioni di euro. Adesso è a quota 10,7: poco per coprire tutto il territorio. Gli alunni partecipanti (circa 555mila) sono meno del 25% del totale. Le classi coinvolte 7.718 su 128mila, con forti differenze locali: si va dal 77-72% di Basilicata e Puglia al 25-18% di Emilia-Romagna e Lombardia, anche perché i tutor disoccupati sono quasi tutti al Sud, mentre al centro-nord ci sono altri bandi regionali con finanziamenti, finalità e a volte persino tariffe differenti. E poi problemi burocratici, sprechi, l’impressione che il bando servisse più al Coni per ribadire il proprio potere, e ai laureati in scienze motorie per tirare su qualche spicciolo (ne vengono impiegati circa 3mila, in una categoria in forte sofferenza occupazionale) che all’attività dei bambini. Quest’anno la situazione è anche peggiorata.
A fine 2018 l’ex governo gialloverde ha creato la società “Sport e Salute” per ridimensionare il Coni di Malagò e puntare sul sociale; ovvio che si riappropiasse della scuola. Tutte le attenzioni, però, erano per la spartizione dei contributi pubblici alle Federazioni, e non si è trovata nessuna idea per migliorare o proprio sostituire “Sport di classe”. Così, per evitare la critica di aver soppresso l’unico piano per la scuola, si è deciso di confermare in blocco il vecchio progetto, solo togliendolo al Coni. Creando più svantaggi che benefici, anche perché “Sport e Salute” in quanto spa non ha la possibilità di stipulare i contratti. Il buon senso avrebbe lasciato l’onere ai comitati regionali Coni, che se non altro garantivano omogeneità, ma per una questione politica si è deciso di estromettere l’ente pubblico e sostituirlo con le Federazioni, più deboli e impreparate a livello locale.
Tra Nord e sud. Ne sono state scelte sei (calcio, atletica, tennis, ginnastica, pallamano, basket; non si sa bene in basa a quali criteri, manca la pallavolo, lo sport più praticato nelle palestre scolastiche), e ad ognuna di esse sono state assegnate 3-4 Regioni: sono loro ad assumere i tutor, che oltre all’attività generica devono svolgere anche un modulo specializzato sulla disciplina (di cui però non sanno nulla). Così si sono moltiplicati interlocutori, problemi, equivoci sulla gestione. Risultato: il coinvolgimento delle Federazioni, auspicato da tempo, è avvenuto nella maniera sbagliata. Quest’anno il progetto è ancora più frammentato sul territorio che in passato, con ogni Regione che fa una disciplina diversa (pallamano in Veneto e calcio in Molise, tennis in Toscana e atletica in Sicilia; ma perché?). Ed è partito con diversi mesi di ritardo: solo in questi giorni i tutor stanno arrivando nelle classi, senza nemmeno aver svolto il corso di formazione presso le Federazioni.
Meglio di niente? Oggi la situazione dello sport a scuola resta “una realtà drammatica”, come ha spiegato il presidente del Coni, Giovanni Malagò, in un recente convegno organizzato dalla Federazione atletica leggera. “Sport di classe” ha posto la questione e supplito alla mancanza dello Stato, ma non è riuscito a fare il salto di qualità, né a livello di fondi né di organizzazione. E nessuna ricerca ha mai dimostrato i suoi risultati. Ogni anno viene messo in discussione e poi riconfermato, nella sconsolata convinzione che sia comunque meglio di nulla.
Non tutti, però, sono d’accordo. “Quanto incidono davvero queste iniziative? Io non lo so più, forse è arrivato il momento di dire stop e fare una riflessione profonda”, è la provocazione il numero uno dell’atletica, Alfio Giomi. Forse queste toppe hanno solo dato un alibi allo Stato. Per il futuro infatti non si muove (quasi) nulla: in Parlamento sono stati presentati due disegni di legge per introdurre il maestro di educazione fisica, sostenuti in particolare dal M5S, ma ci vogliono almeno 300 milioni l’anno (altro che i 10 di “Sport di classe”) e il ddl si è arenato. Non bisogna nemmeno confondere la battaglia occupazionale dei laureati in scienze motorie (da tempo alla ricerca di uno sbocco nel pubblico) con le reali priorità del Movimento: al Sud ci sono Regioni dove oltre il 50% degli istituti non ha nemmeno una palestra interna. Per questo, come per tutto, mancano i soldi. E pure le idee: ancora non è chiaro chi dovrà insegnare lo sport a scuola ai nostri bambini, e in che modo.
Questo articolo è stato pubblicato dal Fatto Quotidiano il 3 febbraio 2020

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