Simone Weil: il bello e il bene

24 Ottobre 2019 /

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di Teresa Simeone

Per Simone Weil ciò che si è posto in modo assolutamente insormontabile all’incarnazione del cristianesimo è l’uso di due brevi parole: “anathema sit”. L’uso che se ne è fatto finora impedisce di varcare la soglia della Chiesa, di assumere una posizione dogmatica.

“Ogni santo ha rifiutato qualunque felicità
che lo separasse dalle sofferenze degli uomini”


Ha solo sedici anni Simone Weil quando scrive Le Beau et le Bien, in cui campeggia un episodio che riguarda Alessandro Magno e che Plutarco riporta nelle Vite parallele: i suoi soldati, dopo giorni e giorni all’inseguimento di Dario, sono spossati dalla fatica, affamati, assetati. Incrociano alcuni Macedoni che, avvicinatisi ad Alessandro, gli offrono dell’acqua in un elmo, accompagnando la generosità dell’atto con l’invito a dissetarsi: se avessero perso i propri figli, grazie a lui ne avrebbero potuto avere degli altri. Alessandro fa per prendere l’elmo ma si guarda intorno e rifiuta l’acqua. I cavalieri riacquistano forza: fino a quando avessero avuto un simile re, non avrebbero avuto sete né sentito la stanchezza.
Che cosa c’è di bello e di bene in questa azione? Simone Weil, ipotizzando che Alessandro, invece che restituirlo, getti l’elmo a terra con tutto il suo contenuto, analizza l’episodio dalla sua prospettiva etica ed estetica.
Immaginiamo, scrive Simone, la scena del soldato mentre si avvicina al suo comandante che resta immobile, senza accennare alcun movimento. Tutto l’esercito segue ciò che sta avvenendo: se ne possono quasi avvertire i respiri nel silenzio che riempie ogni spazio.
Alessandro, né troppo presto né troppo tardi, prende l’elmo e getta l’acqua in terra. È stupefacente. Nessuno si aspettava quella reazione. Il condottiero, nel pensiero di tutti, avrebbe bevuto senza titubanza, dal momento che era esattamente ciò che un capo avrebbe fatto. Poteva, altresì, dopo essersi dissetato, offrirne un po’ a uno dei suoi soldati, ma non avrebbe avuto lo stesso effetto. Anche il soldato che gli porta l’acqua ha agito in modo ammirevole, ma tale azione non è contemplata; il milite non pensa nemmeno all’eventualità che avrebbe potuto berla.
Certamente, se Alessandro non avesse avuto sete o fosse stato a conoscenza dell’avvelenamento dell’acqua, ad esempio, l’atto non sarebbe stato bello. Nemmeno se i soldati gli avessero chiesto l’acqua che lui non voleva. La bellezza dell’atto è in Alessandro, ma anche nel soldato che gli porta l’elmo e in tutti gli altri soldati che osservano, assetati quanto lui, e che rinunciano. Tutti rinunciano: Alessandro rinuncia per loro e loro rinunciano per Alessandro. È una scena bellissima, immutabile, fuori dal tempo e dall’esistenza: perfetta.
Il condottiero esercita una costrizione su di sé, non per timore né per reverenza verso un’autorità che gli sia superiore, ma per puro rispetto umano, perché deve possedere più virtù dei suoi soldati, che pure ne hanno. Ha sete: se non ne avesse, dove sarebbe la nobiltà del gesto? Sa che anche altri uomini hanno sete, ma lui è il capo. Può bere, lo deve fare per guidare con maggiore vigore il suo esercito: tutti lo comprenderebbero.
Istintivamente prende l’elmo, ma è un attimo. Guarda i volti assetati dei suoi soldati, si blocca e riflette. Se avesse bevuto, non avrebbe fatto nulla di sbagliato ma la sua unione con i propri uomini si sarebbe infranta. “Egli deve – scrive Simone – scegliere tra essere animale ed essere uomo. È poca cosa avere sete, ma è molto rifiutare di soddisfare la propria sete per non separarsi dagli uomini”. Tutto avviene nell’animo di Alessandro. Nessuno gli consiglia di farlo, è solo di fronte ai suoi uomini e a se stesso: solo con la propria etica, con la personale visione del mondo, davanti alla sofferenza degli altri. “Ogni santo – continua Simone – ha versato l’acqua, ogni santo ha rifiutato qualunque felicità che lo separasse dalle sofferenze degli uomini”.
È straordinario leggere quanta profondità di pensiero ci sia già in Simone adolescente, quanto insorgente sia la carica di empatia con cui sceglie e analizza proprio quell’episodio: non sorprende come Alain, pseudonimo con cui si firmava Émile-Auguste Chartier, suo professore al liceo Henri-IV, abbia scritto in calce al testo “Bellissimo”. Non sorprende come Alain, maestro di vita, di pensiero, di azione, di libertà scorgesse i tratti del genio nella sua giovane allieva; Alain, il filosofo pacifista, illuminato, antifascista; il “risvegliatore di spiriti” che tanta influenza ha sui suoi studenti; l’ateo che afferma che l’intelligenza è facoltà di dubitare, che non sminuisce la tensione spirituale del mondo quanto piuttosto ne riconduce l’origine a fatto squisitamente umano. Tutto è umano anche in Simone, ma tutto è allo stesso modo divino. Questo Dio che è “il granello di senape, il più piccolo di tutti i semi ma che, una volta cresciuto, diventa un albero; il lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti; la perla, che il mercante trova nel campo”.
Simone rinuncia al benessere materiale che le era garantito dalla sua condizione familiare e sociale. Sceglie di essere libera da un sistema che potrebbe impedirle di comprendere la condizione di miseria altrui e di immergervisi: “Quanto allo spirito di povertà, non ricordo un momento in cui esso non sia stato presente in me nella misura, purtroppo scarsa, in cui ciò era compatibile con la mia imperfezione. Sono stata conquistata da san Francesco fin da quando ne ebbi conoscenza” – scrive nella famosissima lettera a padre Joseph-Marie Perrin, contenuta in Attesa di Dio.
“Il dovere di accettare la volontà di Dio, qualunque fosse – continua nella lettera – si è imposto al mio animo come il primo e il più necessario di tutti, quello al quale non ci si può sottrarre senza disonorarsi; e tale mi parve fin da quando lo trovai esposto in Marco Aurelio sotto forma dell'”amor fati” stoico”.
Eppure Simone rimane sulla soglia di una Chiesa formalizzata in istituzione: “Astenendomi così dal dogma, una specie di pudore mi impediva di entrare nelle chiese, sebbene mi piacesse trovarmici” e non accetta di aderire a una religione che considera dogmatica, autoritaria nella sua assertività, cristallizzata e fissa nei suoi precetti. Il cristianesimo è cattolico e dunque lo è anche la Chiesa, ma tante cose, per Simone, che lei ama e che non vuole abbandonare ne sono tenute fuori: “tutta l’immensa distesa dei secoli passati, eccettuati gli ultimi venti; tutti i paesi abitati da razze di colore; tutta la vita profana nei paesi di razza bianca; nella storia di questi ultimi, tutte le tradizioni accusate di eresia, come la tradizione manichea e albigese; tutto ciò che è nato dal Rinascimento, troppo spesso degradato, ma non del tutto privo di valore”. È ancora Simone che confessa a padre Perrin che c’è un ostacolo “assolutamente insormontabile all’incarnazione del cristianesimo ed è l’uso di due brevi parole: “anathema sit”. Non il fatto che esistano, ma l’uso che se ne è fatto fino ad ora. E’ anche questo che m’impedisce di varcare la soglia della Chiesa. Mi schiero al fianco di tutte le cose che, a causa di quelle due brevi parole, non possono entrare nella Chiesa, ricettacolo universale. E tanto più rimango al loro fianco in quanto la mia stessa intelligenza fa parte di esse.”
Certamente, riconosce Simone, la Chiesa e lo Stato hanno il diritto di intervenire, davanti a palesi violazioni dei loro ordinamenti, dichiarando agli autori che sono nell’errore, ma non hanno il diritto di soffocarne le idee o di infliggere loro dei danni materiali o morali. E il ricordo va, continua a confidare a padre Perrin, quasi dolendosene, all’Inquisizione, del cui riferimento si scusa ma che è esistita, che fu instaurata dalla Chiesa in Europa nel XIII secolo e che rappresentò “un abbozzo di totalitarismo.”
È questo che Simone, filosofa, pensatrice libera, sia pure mistica nell’ebbrezza religiosa, non può accettare. È l'”anathema sit”. Non lo può fare perché significherebbe rinnegare tutta la formazione, antidogmatica e dubitativa, che si è costruita: la sua è la dolorosa, ma irrinunciabile intelligenza che interroga, fa pensare, consuma fino allo sfinimento. È la “solitudine dei precursori” di cui parla Camus presentando L’Enracinement, quel Camus, egli stesso, “solitaire et solidaire”.
È il ripudio della forza, che ne L’Iliade o poema della forza Simone analizza con lucidità, a spingerla ogni volta ne abbia l’occasione, con una passione imprescindibile, a opporsi alla reificazione di un essere umano, alla sua pietrificazione. Con attenzione e azione, le parole chiave, le cifre della sua vita: quell’attenzione – ha scritto in Attesa di Dio – che consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto” e quell’azione senza la quale ogni proposito cadrebbe nel vuoto.
Impegnata in maniera quasi ossessiva in tutto ciò che fa, sia che legga un appello da firmare o che studi un testo greco, sia che lavori in fabbrica, che scioperi nelle lotte sindacali, che condivida una guerra non sua – ma sua più di tutte – sia che pensi o che lavori nei campi con Thibon, sia che aiuti la Resistenza francese con i suoi scritti, ha voluto non solo pensare ma praticare la sofferenza, restando coerente fino alla fine della sua vita.
La vicinanza al mondo la spinge, così, a esperienze radicali come il lavoro di fabbrica, in cui conoscerà il lavoro duro, alienante, che spossa l’anima insieme al corpo, che annichilisce il pensiero e che asservisce l’operaio, in una totale incapacità di rivendicazione dei propri diritti. “Stando in officina, confusa agli occhi di tutti e ai miei propri occhi con la massa anonima, la sventura degli altri mi è penetrata nell’anima e nella carne.” E ancora “Laggiù mi è stato impresso per sempre il marchio della schiavitù, quello che i romani imprimevano con il ferro rovente sulla fronte dei loro schiavi più disprezzati”. Con questo stato d’animo e in tali condizioni di miseria, continua Simone nella lettera a padre Perrin, “sono entrata in quel paesino portoghese – che era, ahimè, altrettanto miserevole – una sera di luna piena. In riva al mare si svolgeva la festa del santo patrono. Le mogli dei pescatori facevano in processione il giro delle barche reggendo i ceri, e cantavano canti senza dubbio molto antichi, di una tristezza straziante. Nulla può darne un’idea. Non ho mai udito un canto così doloroso, se non quello dei battellieri del Volga. Là, improvvisamente, ebbi la certezza che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che gli schiavi non possono non aderirvi, ed io con loro”.
Difficile da trattare, spigolosa, dura, a volte disumana; bella ma volutamente imbruttita; mai giovane, anche quando era adolescente; sgraziata eppure dolcissima; empatica e nondimeno ostile agli abbracci; inaccessibile e fragile, Simone Weil è stata definita nei modi più svariati, tutti egualmente rispondenti a tratti del suo carattere: “imperativo categorico in gonnella” come sembra la definisse il preside dell’istituto superiore di Parigi; profeta per Marie-Madeleine Davy; filatrice d’inesprimibile, nella suggestiva espressione di Guido Ceronetti; anima ardente secondo Lanza del Vasto; pellegrina dell’assoluto per Franco Ferrarotti.
Fu, indubitabilmente, tutto questo e altro ancora: filosofa inafferrabile, ebbra di pensiero e di azione, solidale fino all’annientamento di sé, tanto da arrivare a rifiutare il cibo per condividere la sorte dei soldati ai quali era razionato il pasto.
Morirà consumata dall’inedia e dalla tubercolosi il 24 agosto del ’43, nel sanatorio di Ashford, vicino Londra: aveva soltanto 34 anni.
Questo articolo è stato pubblicato da Micromega Online il 15 ottobre 2019

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