Codice rosso per la violenza sulle donne: una legge sbagliata

23 Luglio 2019 /

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di Maria Concetta Tringali
Il cosiddetto Codice rosso per il contrasto alla violenza contro le donne, di cui si parla da mesi, è legge da qualche giorno. Con 197 sì e 47 astenuti, è stato approvato mercoledì scorso in Senato. A non votare sono stati i Dem e Leu. Lucia Annibali che siede oggi tra i deputati e le deputate del Pd e che la violenza contro le donne la conosce bene per averla sperimentata sulla propria pelle (sfregiata dall’acido per ordine dell’ex nel 2013), non fa mistero di quanto la norma appena approvata non la convinca.
Quel testo proviene da un provvedimento licenziato a novembre dal Consiglio dei Ministri e spacca l’aula e la pubblica opinione. Mentre esulta la maggioranza con in testa la ministra Bongiorno e il suo collega agli Interni twitta di sicurezza – parola d’ordine di una perenne campagna elettorale – le associazioni continuano a dire che non va bene e, soprattutto, che non basta. Per i centri antiviolenza si tratta di un’altra occasione mancata. Come Lucia Annibali, anche Lella Palladino – avvocata e presidente di D.i.R.e., la rete dei Centri antiviolenza – ribadisce le perplessità già avanzate in aprile all’indomani della prima votazione alla Camera.
Già il fatto che la norma contenga la clausola di invarianza finanziaria – ossia non mette in campo un euro – dà il senso dell’impatto che quella disposizione potrà avere sul quadro generale.
Manca inoltre qualunque attenzione alla prevenzione del fenomeno. I ventuno articoli del ddl accennano solo a un generico obbligo formativo per Polizia di Stato, Carabinieri e Polizia Penitenziaria. Un provvedimento da cui ci si attendeva di più. Unica novità importante è l’introduzione del reato di revenge porn, ossia la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti.
Mentre gli addetti e le addette ai lavori fanno la conta di quello che non c’è ancora, il ministro della giustizia Bonafede rievoca l’emergenza sociale. È chiaro che chi è al governo di questo paese della reale portata del fenomeno – definito dall’OMS già nel 2002 come strutturale globale – abbia davvero capito poco.
Tra i pilastri della nuova legge è ribadita la corsia privilegiata che i casi di violenza domestica devono avere nelle procure, misura che tuttavia risale alla legislazione del 2013; invece il nuovo obbligo per i pm di sentire la vittima entro tre giorni è adempimento aspramente criticato dai centri antiviolenza perché le donne non sempre pronte alla denuncia nell’immediato; un inasprimento delle pene per i reati di violenza sessuale si aggiunge al taglio delle attenuanti per il femminicidio; modifiche al codice penale in materia di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso vengono introdotte nel nostro ordinamento, per parificare lo sfregio ai delitti più efferati, punendolo con la reclusione da otto a quattordici anni.
Mentre in Senato si approvava la legge, la Corte di Cassazione confermava la condanna all’ergastolo per Roberto Russo, che cinque anni fa nel catanese uccise la figlioletta di 12 anni, Laura, colpendola nel sonno col coltello da cucina. L’obiettivo dell’uomo era in realtà la moglie.
Ecco quello che succede quando la furia che uccide dentro casa colpisce una bambina.
Ed è di Laura il nome che spicca sulle magliette bianche indossate da una piccola folla, radunatasi per manifestare vicinanza nella giornata della sentenza. Dalle nove e mezzo di sera iniziano a sfilare, in penombra, come in una veglia silenziosa. Qualcuno ha tirato fuori dal bagagliaio della macchina uno striscione da sistemare per terra, sul basolato di lava. Al centro del cartellone si intravede la foto della bambina. Siamo a San Giovanni La Punta, alle pendici dell’Etna, dove la tragedia di quell’estate del 2014 pare essersi fissata in ogni angolo. Strade strette attorno a palazzi muti in una sera d’estate.
Il monumento ai caduti, illuminato fiocamente, sembra parlare di lei e non più dei morti di una guerra che resta indietro nel tempo, superata da un dramma attuale, dalla più ingiusta tra le carneficine. Giovanna Zizzo, la madre di Lauretta, è una donna che ha portato il dolore per le strade, nel tentativo di svegliare una comunità che per molta parte è però rimasta indifferente e chiusa. Lei la giustizia l’ha chiesta a gran voce. E in quella piazza ritorna dopo aver trascorso la giornata davanti al palazzo della Cassazione, a vegliare in attesa dell’ultimo esito di quel processo lungo anni, in un flash mob organizzato sulle piattaforme social, con amiche e amici delle associazioni romane.
Cosa cambia per Giovanna Zizzo e per tutte le altre donne vittime di violenza da oggi con questa nuova legge, che non ha accolto quasi nessuna delle richieste provenienti dai centri anti-violenza?
E se del dolore privato non si può dire tanto di più, senza rischiare che con la retorica si offenda la dignità di chi quel fardello lo vive giorno e notte, la violenza contro le donne come fenomeno sociale sarebbe ora di guardarla dritta in faccia.
Questo articolo è stato pubblicato da Micromega Online il 19 luglio 2019

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