La lotta dei lavoratori della logistica di Mondo Convenienza contro appalti al ribasso e mille possibilità per evadere responsabilità, garanzie e tutele.
Èil quattordicesimo giorno di sciopero e di presidio permanente al magazzino di Mondo Convenienza di Campi Bisenzio, a Firenze. Dodicesimo giorno di blocco dei camion che ogni giorno partono carichi di mobili ed elettrodomestici per essere trasportati e montati nelle abitazioni dei clienti.
Martedì 6 giugno, a una settimana esatta dall’inizio del presidio, si è tenuto il primo tavolo tra i rappresentanti sindacali, Si Cobas, e l’azienda per provare ad arrivare a un accordo ma si è risolto con un nulla di fatto: la RL2, ovvero l’azienda a cui il servizio di consegne e montaggio è appaltato, non è intenzionata a concedere nessuno dei diritti che i lavoratori chiedono e Mondo Convenienza si dichiara estranea. Eppure tutti i montatori e autisti indossano maglia e pantaloni con stampato il logo Mondo Convenienza, lavorano nel magazzino con l’insegna di Mondo Convenienza e trasportano i mobili sui furgoni con scritto Mondo Convenienza davanti e sulle fiancate. Ma, si sa, le esternalizzazioni funzionano così: appalti al ribasso e mille possibilità per evadere responsabilità, garanzie e tutele.
Contratti da fame
«La nostra forza è il prezzo» dice il pay off e la canzoncina della pubblicità. «La vostra forza è lo sfruttamento» recitava per tutta risposta lo striscione dei lavoratori, che il responsabile del magazzino ha strappato. Quel prezzo stracciato è possibile proprio grazie al sistema di appalti che abbiamo già visto in numerose altre vertenze, grazie all’esistenza di contratti indecenti e anche al fatto che le istituzioni usano due pesi e due misure quando si tratta di perseguire reati di sfruttati o di sfruttatori.
L’esternalizzazione di fatto deresponsabilizza Mondo Convenienza dai contratti da fame che la cooperativa impone ai lavoratori e alle lavoratrici, contratti che per altro non rispecchiano nemmeno le reali mansioni: Ccnl multiservizi, anziché logistica. In questo modo la cooperativa priva gli operai di una serie di diritti e rimborsi che spetterebbero loro e che a conti fatti raddoppierebbero lo stipendio mensile. La paga oraria prevista dalla multiservizi è di soli 6,80 euro lordi. Da contratto sarebbero 40 le ore settimanali, ma si parte col camion pieno e non si torna finché non si sono finiti tutti gli ordini previsti per la giornata. Se si danneggia un mobile o un’attrezzatura, vengono sottratti 500 euro dallo stipendio su una paga base è di 1.180 euro. Molti di loro, poi, sono assunti con contratto di apprendistato, che oltre a consentire una paga ancora più bassa, dà l’accesso a sgravi fiscali per l’azienda.
Tutto questo ha una doppia funzione: da una parte dimezzare il costo del lavoro; dall’altra, costringere i lavoratori ad accettare ogni straordinario, ogni consegna, imposti dal «Capo». Perché senza straordinari lo stipendio netto si aggira sui 900 euro mensili. Straordinari che non sono pagati come tali, e che in parte non sono pagati affatto: non vengono segnate e riconosciute tutte le ore extra realmente lavorate, ma solo quelle che consentono di arrivare a uno stipendio con cui è possibile sopravvivere. Questo consente all’azienda di assumere la metà del personale realmente necessario.
A Mondo Convenienza non si resiste più di un paio d’anni, a meno che non si lavori in ufficio, perché oltre a uno stipendio commisurato alle ore lavorate, anche la sicurezza personale non è affatto scontata. L’azienda leader dei mobiliti pret a porter, quella dei cartelloni e degli spot pubblicitari nella tv nazionale, appalta trasporto e montaggio a ditte che non garantiscono i requisiti minimi di salute e sicurezza che spetterebbero ai lavori usuranti. Sulle fatture e gli ordini di consegna c’è scritto sempre che i montaggi sono al piano terra, anche quando sono al sesto piano. In turno ci sono sempre e solo 2 persone per trasportare e montare i mobili a mano, perché non vengono forniti carrelli e attrezzature per trasportarli. Un operaio mi mostra un video in cui si vede la struttura portante di una rampa di scale, a cui ancora mancavano i gradini e mi spiega che ha dovuto trasportare una cucina completa e un armadio a 8 ante passando da lì. I turni sono di 10, 12, anche 14 ore al giorno, per 6 giorni a settimana.
La repressione
La risposta alle lotte finora è stata quella di sempre, quella con cui a Prato i lavoratori del Si Cobas hanno avuto molto a che fare: repressione e violenza. Nelle ultime settimane abbiamo contato otto sgomberi con un enorme dispiegamento di forze dei carabinieri e della polizia, con tanto di camionette, volanti, assetto antisommossa.
«La ragione sta nel mezzo», dice l’agente in borghese in uno di questi sgomberi, mentre, come al solito, il gruppo più trainante di operai e sindacalisti viene tenuto isolato dagli altri scioperanti (per 3 ore e mezza sotto il sole). Anche quando durante il terzo tentativo di sgombero un operaio si sente male, non esitano a continuare l’operazione, senza valutare di ammassare le persone in un altro posto. Un giovane attivista si prende uno schiaffo in pieno viso. La domanda sorge spontanea: lo avrebbero fatto anche se questi operai fossero stati italiani? Se l’attenzione mediatica e dell’attivismo locale fosse stata più alta?
Il giorno successivo al tavolo fallito, l’ottavo giorno di sciopero, il presidio si era diviso in due sedi, il magazzino in via Gattinella e il deposito dei camion della RL2. Tutti gli ingressi erano presidiati: nessun carico di Mondo Convenienza può passare. I responsabili allora hanno rimosso con una motosega circa 15 metri della recinzione che circonda il deposito. I manifestanti si sono distribuiti lungo il marciapiede che circonda la recinzione in modo da bloccare anche quel passaggio. I dirigenti come sempre hanno provocato i lavoratori, che al solito non hanno reagito. L’attenzione si è concentrata in quel punto finché uno dei camion, guidato dal direttore della cooperativa RL2, è partito a tutta velocità dal centro del piazzale ed è arrivato davanti ai manifestanti senza fermarsi. Andando a scatti e a velocità ancora sostenuta con circa 5 persone sul cofano è avanzato tagliando il marciapiede, è entrato in strada e arrivato oltre la linea che divide i sensi di marcia, invadendo quindi più di metà della strada. Si sono sentite le urla, le persone travolte battere con le mani sul cofano chiedendo all’autista di fermarsi. Non ci si aspetta mai che si arrivi a tanto, ma poi invece ci ricordiamo di Adil Belakhdim che nel 2021 è stato ucciso proprio in questo modo: schiacciato dal camion del padrone mentre scioperava.
Oltre il dato politico, non si può ignorare, in questo sciopero lungo settimane che sembrano anni, quello umano: qualcuno ha deciso, per asservimento, per soldi, per potere, di guidare quel camion, prendendosi il rischio di investire e uccidere delle persone. A quale cifra sono stati disposti ad arrivare pur di non pagare i lavoratori? Forse enorme, una di quelle che su queste buste paga non comparirà mai.
Non è bastato nemmeno questo per stemperare i toni, per cercare da parte dell’azienda una forma di mediazione, seppur formale, parziale, irrisoria. Poche ore dopo l’accaduto, c’è un nuovo tentativo di sgombero da parte della polizia, tutti identificati. Dopo poco i manifestanti vengono trascinati in fondo alla strada: ecco i camion passare dall’altra parte. Ironico ma vero, persino contromano in una strada a senso unico: la legge come strumento di potere è evidente qui e ora più che mai.
Come è successo anche in altre vertenze, per difendere le merci, con la scusa della «violenza privata», ovvero il diritto di autodeterminarsi del lavoratore non scioperante che guida il furgone, si interviene subito. Per difendere invece l’autodeterminazione di chi vuole il rispetto di condizioni lavorative dignitose, non solo non si mette in campo nessuna azione, nessuna forma di tutela, ma anzi si va incontro a trattamenti incredibilmente violenti. Mentre nei confronti dell’azienda già indagata per sfruttamento e caporalato in altre città, il massimo che ci si può aspettare nel breve periodo è una multa, il cui importo è di certo molto inferiore rispetto alle somme ottenute attraverso il furto dei diritti di lavoratori e lavoratrici. E il giorno dopo? Be’, uguale a quello prima: nuovo tentativo di sgombero. Gli operai si incatenano, passando le catene intorno alla pancia e al torace, davanti ai cancelli. La polizia non attende l’arrivo delle tronchesi ma tira le catene, tra le urla lancinanti degli operai e degli altri solidali. Tre operai accusano forti dolori e perdono i sensi. Riccardo, 21 anni, attivista del Si Cobas, dopo essere stato schiacciato sotto il peso di tre agenti, viene portato via in ambulanza con difficoltà respiratorie. Due celerini non aspettano nemmeno che la barella venga caricata sull’ambulanza: «Scommettiamo chi sarà il prossimo!», dicono ridendo.
Questa violenza è un dato. L’altro dato è che i lavoratori sono sempre rimasti davanti ai cancelli, hanno continuato a sdraiarsi di fronte alle ruote dei camion, sono tornati dall’ospedale e sono rimasti lì. Nel nostro paese, nelle nostre città, non ci sono forse grandi mobilitazioni, ma alcuni – per storia, per necessità, per orgoglio, per incoscienza, per speranza – grandi lottatori sì.
Questa è una lotta senza quartiere, in cui la solidarietà non c’è e ogni piccolo potere acquisito ci si tiene stretto. I lavoratori rumeni e moldavi, connazionali dei dirigenti del magazzino, sono arrivati in Italia e hanno ottenuto il posto proprio grazie alle relazioni e al rapporto diretto con i caporali, ottenendo anche talvolta condizioni leggermente migliori di quelle dei colleghi, e sono i primi solerti autisti dei camion. Una lotta (ci piacerebbe poter dire una storia) che a starci dentro restituisce un’immagine plastica dell’umano e del politico, di quanto di basso e di alto può esserci nelle battaglie, nello stare al mondo rivendicando qualcosa di più. È vero, durante l’orario lavorativo, i primi giorni, si è assistito a una prima chiassosa manifestazione dei «Vogliamo Lavorare», con in prima fila i dirigenti insieme ad alcuni lavoratori non scioperanti. Ma è altrettanto vero che, più distanti, sempre al di là del cancello, altri lavoratori si mostravano già fin dall’inizio molto meno arroganti, più silenziosi. Alcuni, di nascosto, passavano agli scioperanti della frutta secca attraverso le sbarre. Altri, fuori dall’orario di lavoro, sono venuti al presidio a dire che la lotta è giusta, ma che non hanno il coraggio di unirsi perché temono di perdere i mezzi di sostentamento per la loro famiglia. Le loro mogli passano a portare cibo e dolcetti, scusandosi di non far parte della lotta.
La seconda contro-manifestazione, ha visto la presenza soprattutto di lavoratori (pochi montatori, soprattutto lavoratori di livello più alto) chiamati da altri magazzini Italiani. Alcuni lavoratori che inizialmente non avevano aderito allo sciopero, si stanno ora rifiutando di eseguire tutte le conseguenze imposte. Altri si sono licenziati e sono venuti al presidio lasciando dei cartelli scritti in rumeno: «Dio non ci ha creato per essere schiavi».
Il Si Cobas ha fatto già tanti scioperi e blocchi delle merci a Prato, nel tessile: il blocco è spesso l’unico modo per ottenere un tavolo con le aziende del Macrolotto, aziende in cui lo sfruttamento è la regola più che l’eccezione e che solitamente, senza blocchi, al tavolo non si presentano nemmeno. Un anno fa, a Texprint ci sono voluti 9 mesi, nelle fabbriche successive sono bastate settimane, in altre giorni, e in alcuni casi, più recenti, anche solo poche ore. Il movimento 8×5 si è allargato a macchia d’olio nelle periferie toscane e si sa ormai che i blocchi continuano fino alla vittoria, per cui in alcuni casi la minaccia è sufficiente per arrivare all’accordo sindacale.
La gioia nella tempesta
L’importanza di questo sciopero è chiara a tutti. Prima di tutto agli operai. La rivendicazione che unisce tutte le lotte del macrolotto e anche questo sciopero, 8 ore × 5 giorni, può sembrare una rivendicazione minima, poco avanzata, ma questo è ciò che ha funzionato. Ha funzionato perché è una rivendicazione venuta dagli operai, dalle esigenze e necessità di chi lavora, una rivendicazione concretissima intorno alla quale si è costruito un immaginario chiaro: lottare per una vita più bella. Per avere del tempo libero e una paga dignitosa. Una rivendicazione con cui è impossibile essere in disaccordo, anche per chi è meno avvezzo alla critica verso il sistema.
Qui, in queste ore, non c’è solo repressione e violenza. Qui chi tocca uno, tocca tutti. C’è solidarietà. C’è rabbia perché l’ingiustizia è enorme. Ma c’è soprattutto amore. Gli operai insistono sempre per offrire qualcosa a chi viene a dare una mano. Si creano legami, amicizie. Ci sono momenti di svago. C’è musica, ci sono balli. Nonostante la pioggia, nonostante la stanchezza, nonostante i rischi. Davanti al camion che sgasa e minaccia di investirli, i lavoratori giocano a carte tra loro. Ridono, scherzano, prendono in giro il capo che cerca di provocarli, lo ignorano quando cerca di spostare l’attenzione su argomentazioni insignificanti. Tutti urlano «Sciopero! Sciopero!» più forte quando cerca di mettere in difficoltà un lavoratore prendendolo da parte, o quando arrivano le forze dell’ordine.
In presidio si vedono abbracci, si vedono sorrisi. Dall’altra parte del cancello, sempre meno persone, sempre più silenziose, sempre più nascoste e defilate. Perché al di qua del cancello c’è qualcosa di potente. C’è il sogno di cambiare le cose per sé stessi, con la consapevolezza che ognuno di questi tasselli non ha un significato solo per i lavoratori di Mondo Convenienza. Ma riguarda tutti. E la gioia nella tempesta è lì per ricordarci, in fondo, per cosa, al di là dello stipendio e delle garanzie, lottiamo.
*Erika Di Michele, laureata in scienze politica, attivista solidale del Si Cobas.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 14 giugno 2023