di Simeone Del Prete
Non è la vita di uno degli uomini ex, come li ha definiti Giuseppe Fiori nell’omonimo romanzo ispirato alle gesta di alcuni esuli politici italiani nella Cecoslovacchia dell’immediato dopoguerra. La vita del partigiano bolognese espatriato «Battagliero», al secolo Otello Palmieri, ricostruita da Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri nel libro-intervista Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri (Pendragon, pp. 222, euro 15), infatti, ha ben poco dei tratti tipici delle vicende degli ex-partigiani «sconfitti anzitempo dalla storia» e costretti all’emigrazione oltrecortina per scampare ai processi politici cui venivano sottoposti nell’Italia degli anni ’50 per azioni commesse durante i venti mesi di resistenza o dopo la liberazione.
La vita dell’esule Palmieri, infatti, vede intrecciarsi e rimanere attive tre componenti apparentemente inconciliabili e che solo parzialmente si spiegano l’un l’altra: la lotta armata partigiana, l’esilio in Cecoslovacchia e la successiva emigrazione in Svizzera. Tutto appare concatenato ma al contempo frutto di scelte autonome: dall’emergere di una forte identità antifascista legata alla repressione squadrista dei movimenti bracciantili nella comunità d’origine, al tramonto di un’ipotesi rivoluzionaria dilatata e proiettata sino alle manifestazioni seguenti all’attentato a Togliatti del 1948.
Dall’esilio forzato in un paese che non rispettava le aspettative di «paradiso comunista» e che, specie dopo l’impiccagione di Rudolph Slánský, si mostrava sempre più sottoposto alla grigia cappa di repressione staliniana, alla scuola di politica che, a differenza di quanto previsto da Otello, «non insegnava la rivoluzione», ma formava quadri scevri da qualunque «tendenza partigiana»; dal rientro in Italia dopo il proscioglimento delle accuse, all’emigrazione in Svizzera con la fidanzata di sempre, ormai divenuta sposa. Tutte vicende non riconducibili a quella singola scelta iniziale che nella primavera del 1944 lo aveva condotto alla lotta armata contro il fascismo e che appare il palo da cui gli uomini ex, giusto o sbagliato che fosse, non riuscirono a muoversi. Quella scelta e quegli ideali, considerati «traditi, non sbagliati» vennero continuamente sfidati dagli eventi della vita di Palmieri e dal suo riuscire a conciliare, anche in maniera dialettica, le anime di Battagliero, Enrico Grassi, identità fittizia fornitagli dal partito una volta espatriato, e Otti, nomignolo affibbiatogli dai colleghi della fabbrica in Svizzera.
A congedare Otello dal leitmotiv dell’instancabile ricerca delle «motivazioni sufficienti a continuare, a fare ciò che c’era da fare» e dal costoso barattare le proprie concrete esigenze con quelle di una «comunità virtualmente estesa al mondo intero» fu la delusione per una politica che si allontanò dalla verità, per abbracciare una ritualità di partito sempre meno tesa alla modifica dell’esistente. È dunque in questo contesto che la densità di significati delle tensioni e delle pulsioni vissute prima di emigrare finì per schiacciare la concezione di azione e immaginazione politica sull’etica del lavoro e sullo sforzo creativo, sulla ricerca di «qualcosa di meglio», unica via per contrastare una disillusione sempre più differita ma sempre più foriera di lacerazioni solo apparentemente pacificabili.
Se l’esperienza è infatti il passato che vive nel presente di Otello, contribuendo a modellarlo, anche il futuro ha vissuto nel presente e nel passato modificandoli, sebbene sotto forma di aspettativa tradita. E ora, «di fronte alla fine», in un mondo che ha visto il trionfo degli avversari, il «vocabolario che strutturava quelle speranze sembra essersi perduto» e il racconto di un’aspettativa finisce per sovrapporsi a quello di un’esperienza.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano Il manifesto l’8 giugno 2019