di Loris Campetti
Del biennio rosso si conoscono con ragionevole approssimazione le date d’inizio. L’anno degli studenti, il ’68, inizia il 27 novembre a Torino con una votazione di 500 ragazze e ragazzi assiepati nell’aula magna dell’Ateneo, palazzo Campana, che ne decide l’occupazione. L’autoritarismo baronale è sottoposto a un processo di massa destinato a modificare prima i rapporti di forza e poi le relazioni all’interno delle università e delle scuole.
L’anno degli operai, il ’69, inizia anch’esso con qualche anticipo, il 19 aprile del ’68, quando durante una manifestazione contestuale a uno sciopero che coinvolge 6 mila lavoratori in lotta per il salario, la salute e l’occupazione, viene abbattuta la statua del padre-padrone, il conte Marzotto, nella piazza di Valdagno. L’unità operaia-popolare – così si è raccontato quel movimento – ha spezzato il sistema feudale di Marzotto e ha fondato un sistema di forze nuove”.
Decisamente più difficile sarebbe invece fissare le date conclusive del movimento antiautoritario. Per molte ragioni, la principale delle quali è che il contagio partito dalle scuole e dalle fabbriche non è stato archiviato dalle bombe di piazza Fontana, anzi si è esteso progressivamente all’intera società, dalla scienza alla religione, alla famiglia, ai rapporti di coppia, fino a ribaltare ritualità e regole persino nei luoghi più separati di un’Italia già messa a soqquadro dal boom economico.
Prima sono partiti – e poi finalmente chiusi – i manicomi e nei primissimi anni Settanta è stata la volta dei soldati di leva con gli scioperi del rancio e addirittura manifestazioni di militari in divisa, ora nelle strade di Udine, ora davanti alla Fiat Mirafiori, contro un sistema di relazioni arcaico e feudale basato su obbedienza cieca e fedeltà assoluta, nonnismo, che semplificando ma non troppo potremmo riassumere con il termine fascismo. Il virus della democrazia ha contaminato financo la Polizia di stato, l’organo di repressione delle lotte sociali modellato da Scelba a questo fine dopo che lo spirito della Resistenza era stato soffocato, praticamente nella culla.
I poliziotti chiedevano e hanno alla fine ottenuto la democratizzazione del corpo, la sua smilitarizzazione e la sindacalizzazione, sia pure all’interno di quella che Antonio Gramsci avrebbe chiamato “rivoluzione passiva” e che oggi, guardando per esempio alla macelleria messicana alla scuola Diaz di Genova nel 2001, potremmo ricondurre a un processo di ri-corporativizzazione in chiave autoritaria. Su un versante, forse il più importante, il ’68 ha battuto la testa contro i cannoni dello status quo: non è riuscito a rompere la separatezza delle istituzioni totali, non è riuscito a consolidare il rapporto iniziale con la società, i suoi movimenti e i suoi sindacati.
L’ultima trincea del vecchio mondo a essere stata assaltata dallo spirito del ’68 è stata la Guardia di Finanza. Il bel libro di Claudio Madricardo Democrazia indivisa (editore su carta e online Ytali.) richiama già nel sottotitolo lo spirito e il percorso con cui ho iniziato questa recensione: “Il ’68 del Movimento dei Finanzieri Democratici”. Questa sintesi di per sé spiega i molti, troppi nemici che questa esperienza ha incontrato attraverso le parole dei protagonisti nel suo intensissimo quanto breve cammino. Il movimento voleva, se non tutto, molto, sicuramente troppo agli occhi del potere.
Chiedeva democrazia, voleva conquistare il diritto a organizzarsi sindacalmente e voleva, soprattutto, deporre le armi (della repressione) per impugnare quelle della giustizia sociale. Pensavano di avere professionalmente molti obiettivi in comune con i lavoratori, a partire dalla giustizia fiscale sancita a parole dalla Costituzione ma negata nei fatti e nei comportamenti. Insomma, il MFD voleva che il suo sapere venisse utilizzato per combattere l’evasione, non la democrazia.
Si scontravano con il sistema di potere democristiano, cercavano un rapporto con una sinistra che, nel frattempo, si era fatta Stato, con un Pci che aveva scelto la strada del compromesso storico e guardava con diffidenza ogni movimento, soprattutto se agiva all’interno delle forze dell’ordine. Si incontravano con un sindacato confederale disponibile a concedere l’uso delle proprie sedi per le riunioni ma troppo tiepido nell’assunzione delle rivendicazioni perché troppo poco autonomo dai partiti, in particolare la Cgil dal Pci. Così il Movimento raccolse le simpatie e il sostegno di base della sinistra “di lotta e di governo” e quello disinteressato della nuova sinistra e del Partito radicale, ma si infranse contro la realpolitik.
Con estrema semplicità i protagonisti del libro (e del Movimento) individuano il momento in cui le loro speranze si sono infrante: il rapimento di Aldo Moro e la sua uccisione da parte delle Brigate rosse che ha spinto il paese, il Pci in testa, già da anni influenzato dal golpe in Cile di Pinochet, su una strada autoritaria temendo che un conflitto sia pure solo politico con le forze dell’ordine potesse spingerle verso posizioni ancora più reazionarie e pericolose per la democrazia. Con uno sguardo incapace di distinguere le lotte sociali, anche radicali, da ciò che si muoveva nella spirale terroristica.
Ormai la Polizia stava raggiungendo l’obiettivo della smilitarizzazione, lo Stato con la maiuscola non poteva mollare anche con uno degli ultimi capisaldi del regime autoritario, la Guardia di Finanza che poteva così tirare un sospiro di sollievo e continuare a fare l’occhiolino alle forze più reazionarie, alla massoneria, a Licio Gelli e alla P2, e a essere protagonista di scandali e corruzione che hanno coinvolto le sue massime gerarchie.
Nel libro è raccontato, direi con amore, il viaggio del MFD nella nuova frontiera della democrazia, sfidando isolamento rispetto alla politica e repressione all’interno del corpo. Dai primi volantini stilati e diffusi clandestinamente, alle prime assemblee pubbliche, al coordinamento tra l’esperienza veneziana che ha dato origine al sommovimento e crescenti realtà italiane in fermento, al collegamento con le esperienze vive nell’Esercito, nell’Aeronautica, nella Polizia, con le confederazioni sindacali Cgil, Cisl e Uil.
Il Movimento non ha vinto la sua battaglia, il che non vuol dire che non sia stato giusto e importante condurla. Vuoi perché una coscienza civile è cresciuta in un corpo pur sempre separato, e se l’evasione fiscale non viene ancora oggi combattuta, è alla politica e non ai finanzieri che bisogna rivolgere la critica primaria. Non c’è stata la smilitarizzazione e la sindacalizzazione si è risolta con la nascita di una rappresentanza con funzioni puramente consultive. Per capire l’importanza dei passi avanti fatti nella vita del corpo basti sapere, e il libro ce lo racconta con trasporto, che negli anni della lotta i finanzieri non potevano sposarsi prima del compimento dei 28 anni e la futura moglie doveva subire la verifica sulla sua moralità e su chissà cosa d’altro delle gerarche, prima della concessione del benestare.
Mancava soltanto lo jus primae noctis a completare il quadro. E il finanziere era letteralmente nelle mani e nei capricci dei superiori, poteva essere trasferito da un giorno all’altro o magari congedato, cioè licenziato. E durante la battaglia del Movimento la repressione si è abbattuta senza esclusione di colpi sui protagonisti, mentre l’ultima sfida, quella di un referendum per la smilitarizzazione portata avanti da Pannella e dai radicali, si schiantava contro l’opposizione irriducibile della quasi totalità della politica, del capo dello Stato e della Corte costituzionale.
Le testimonianze non ve le raccontiamo, dovete leggervele da soli perché il libro merita di essere letto non solo dai finanzieri ma anche dai cittadini, Così come i contenuti della battaglia tra il ‘76 e il ’78 portata avanti con coraggio e senso civico dal Movimento dei Finanzieri Democratici andrebbero raccolti e posti nuovamente all’ordine del giorno della politica e della società.