La solitudine della protesta bielorussa

di Pierre Hasky /
17 Agosto 2020 /

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Le immagini di un popolo che combatte per la propria libertà sono impressionanti e commoventi. Comunque vada a finire, i bielorussi hanno già inscritto le elezioni presidenziali del 2020 nella lunga e tortuosa storia della lotta per la democrazia. Le stesse immagini, però, ci ricordano anche le condizioni in cui si trova il mondo del 2020, segnato dal ritorno dei rapporti di forza e della realpolitik.

La rivolta senza precedenti dei bielorussi, dopo le ennesime elezioni-farsa che hanno penalizzato una candidata straordinaria quanto inattesa, Sviatlana Tsichanouskaja, ha suscitato numerose manifestazioni di solidarietà, soprattutto negli ex paesi comunisti che conservano la memoria delle proprie lotte. Il problema è che la causa democratica si scontra con una tripla realtà che finisce per isolare i manifestanti bielorussi.

Prima di tutto c’è il ritorno di quelle “zone di influenza” che la fine della guerra fredda sembrava aver cancellato. Nostalgico dell’Unione Sovietica, Vladimir Putin si è impegnato (con successo) a ricreare uno “spazio vitale” di influenza attorno alla Russia. Putin ha dimostrato con la forza – in Georgia nel 2008 e soprattuttoin Ucraina nel 2014 – che non intende assistere passivamente all’erosione dell’ex blocco sovietico.

Di conseguenza è naturale che Aleksandr Lukašenko, l’autocrate di Minsk, si sia rivolto al presidente russo nel momento del bisogno, e questo nonostante le recenti tensioni tra i due paesi a causa del progetto di fusione di Putin, finora sempre bloccato dal dittatore bielorusso.

L’Ue può contare solo sull’arma (piuttosto inefficace) delle sanzioni

Oggi Putin è libero di decidere se seguire la logica della “zona d’influenza” e salvare Lukašenko, anche con l’uso della forza, o lasciarlo cadere, ritenendo che “la rivoluzione bielorussa” non sia una minaccia per gli equilibri geopolitici. Da questa valutazione del padrone del Cremlino dipenderanno gli avvenimenti futuri a Minsk. Assisteremo a un’evoluzione conflittuale come quella in Ucraina, costata la vita a migliaia di persone e tutt’ora irrisolta? O ci sarà un cambiamento pacifico all’armena, come durante la “rivoluzione di velluto” che nel 2018 ha portato al potere Nikol Pashinyan a Erevan?

La seconda sfida è quella che si presenta all’Europa, inevitabilmente in prima linea. I 27 paesi europei si trovano per l’ennesima volta in difficoltà, perché possono contare solo sull’arma (piuttosto inefficace) delle sanzioni per influire su una crisi che si svolge a pochi chilometri di distanza, al confine con i paesi baltici e la Polonia. Questi paesi vorrebbero un’azione concreta, ma si scontrano con l’eccesso di cautela che coglie immancabilmente gli europei quando si tratta di agire da potenza geopolitica. A questo si aggiungono le solite divisioni all’interno dell’Europa: la Grecia, convinta che l’Unione non la stia sostenendo adeguatamente nello scontro con la Turchia nell’Egeo, ha deciso di bloccare una dichiarazione comune dei 27 sulla Bielorussia.

La terza realtà che pesa sulla vicenda bielorussa è l’assenza degli Stati Uniti. Gli americani devono fare i conti con una presidenza disfunzionale, con l’avvicinarsi di elezioni che si annunciano incerte, con il disastro della pandemia e con le divisioni che lacerano la società.

In passato Washington non ha sempre portato un contributo utile – gli Stati Uniti hanno sicuramente la loro parte di responsabilità nella crisi ucraina – ma è altrettanto vero che la loro assenza lascia campo libero a Putin nel suo “cortile”.

I bielorussi, insomma, sanno di essere soli, ma continuano a battersi contro una dittatura che ha chiaramente fatto il suo tempo. La situazione attuale ricorda sinistramente quella di Budapest nel 1956 e quella di Praga nel 1968. Per il bene dei coraggiosi bielorussi, speriamo che l’esito stavolta sia diverso.

Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 17 agosto 2020

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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