Conte e la sindrome dell'8 settembre

16 Novembre 2018 /

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di Salvatore Settis
Da una decina d’anni o giù di lì si è inventata in Italia l’inedita figura del quirinalista, esemplata su quelle del cremlinologo o del vaticanista. Si sente invece ancora, ed è una lacuna, la mancanza dello specialista in esternazioni dei presidenti del Consiglio. Sarà perché gli inquilini di Palazzo Chigi reggono poco, fino a una qualche congiura di palazzo (appunto); ma insomma la parte del palazzo-chigista qualcuno dovrebbe pur farla. Proviamoci.
L’8 settembre 2018 il presidente del Consiglio in carica teneva a Bari il discorso inaugurale dell’82^ Fiera del Levante. Il sito di Palazzo Chigi conserva il video, dove ricorre un passo su cui meditare (minuti 4:01-5:16). Riportiamolo fedelmente, con la precisazione che Giuseppe Conte non stava improvvisando, ma leggeva da un testo scritto, e dunque dopo matura riflessione: “Oggi è l’8 settembre. Una data particolarmente simbolica della nostra storia patria, perché in quell’estate di 75 anni fa si pose fine ad un periodo buio della nostra storia, culminato con la partecipazione dell’Italia a una terribile guerra. Con l’8 settembre inizia quel periodo di ricostruzione prima morale e poi materiale del nostro paese.

Un periodo di crescita economica che è stato chiamato, con la giusta enfasi, miracolo economico, e ci ha balzati al settimo posto, pensate, come potenza economica mondiale. Ecco: l’esecutivo che ho l’onore di presiedere, che si è presentato al parlamento e al Paese come governo del cambiamento, ha l’ambizione di ricreare nei cittadini la stessa fiducia verso il futuro che allora animava i nostri genitori, una fiducia che è stata in grado di dare loro la forza di compiere le scelte fondamentali per il progresso dell’Italia e di superare anche momenti difficili che certamente non mancarono”.
Vi sono qui significative rarità grammaticali (il verbo “balzare” usato come transitivo) ma anche un’ardita tesi storica. Risulta infatti che l’8 settembre 1943, per il presidente Conte, fu l’alba del miracolo economico: perciò quella data va presa a modello del governo da lui presieduto. Ora, quell’8 settembre fu il giorno in cui Badoglio annunciò l’armistizio con gli Alleati: seguirono in pochissimi giorni la disgregazione dello Stato, la dissoluzione dell’esercito e la precipitosa fuga del governo e del re, per l’appunto in Puglia, mentre l’Italia del Nord veniva invasa dai tedeschi e le truppe alleate occupavano il Sud. L’Italia spaccata in due, da un lato la repubblica di Salò svenduta ai nazisti, dall’altro il Regno teatro dell’avanzata alleata. Roma abbandonata, il Paese in preda alla guerra civile. L’esercito in rotta, 800.000 soldati rastrellati e imprigionati dai tedeschi, l’Italia divenuta campo di battaglia, bombardata in quasi tutto il suo territorio. E alla fine della guerra mancavano ancora quasi due anni, centinaia di migliaia di morti, decine di città in macerie.
E allora come mai per Conte l’8 settembre, giorno di lutti e di rovine, avrebbe invece, in piena guerra, innescato la rinascita post-bellica? Secondo alcuni esegeti, egli avrebbe confuso l’8 settembre con il 25 luglio dello stesso 1943 (caduta del fascismo), secondo altri con il 25 aprile 1945 (la Liberazione). E in rete abbondano altri commenti, spesso irriverenti. Ma come si può credere che un presidente del Consiglio, professore universitario per giunta, cada in svarioni di tal fatta? Un’altra spiegazione s’impone. Tentiamone anzi due, alternative.
Prima ipotesi: per gioco, Conte inserisce nei suoi discorsi alcuni spropositi particolarmente insensati, tanto per vedere se qualcuno se ne accorge, misurando in tal modo, da accorto governante, il livello di attenzione dell’opinione pubblica. In questo senso parla anche la sua più recente dichiarazione (4 novembre) secondo cui fra le cause dell’ondata di maltempo che ha distrutto migliaia di alberi ci sarebbero “i vincoli paesaggistici per la rimozione di un albero”. Una frase che, se detta sul serio, sarebbe inconcepibilmente stolta, e dunque non può che essere uno scherzo.
Ma c’è un’altra ipotesi, a mio avviso migliore, per spiegare come mai Conte abbia scelto l’8 settembre 1943 a modello del proprio governo: ed è una spiegazione che gli fa onore, dimostrando anzi il suo acume. Leggendo tra le righe, Conte col suo discorso di Bari sta forse provando a dirci: attenti, l’8 settembre 1943 divise l’Italia in due, scatenando la guerra civile. Anche oggi, con la Lega che domina il più prospero nord mentre il sud (più in crisi) è vicino al M5S, il Paese potrebbe essere sull’orlo di una spaccatura irreparabile. La disgregazione dello Stato segnata dall’8 settembre, sta cercando forse di dirci Conte, è oggi di nuovo alle porte; e quando dice che il suo governo “ha l’ambizione di ricreare nei cittadini la stessa fiducia verso il futuro che allora animava i nostri genitori”, non vorrà dire invece che, proprio come i nostri genitori nel 1943 sotto le bombe e nei rifugi antiaerei, anche noi dovremmo essere oggi in preda alla disperazione?
Forse. Ma a chi si ostinasse a prendere alla lettera le parole di Conte a Bari consigliamo di leggere, a contrasto, poche righe dei Compagni di settembre, un romanzo del 1944 di Alberto Vigevani recentemente ripubblicato (edizioni endemunde), che con grande efficacia descrivono com’era davvero l’Italia all’indomani dell’8 settembre: “Il mio Paese rimaneva come un gigantesco corpo in agonia sul campo della battaglia, col sangue che stillava da ogni poro, e le iene urlando si avvicinavano. Il popolo, senz’armi, non era fuggito. E intanto i generali tradivano, meno qualche eccezione, trattavano la resa credendo di salvare, con le loro sciabole di latta, un resto d’onore. Quasi tutti i soldati si nascondevano, il governo attraversava il fronte con uno stratagemma degno di romanzi d’appendice. Il Paese era abbandonato a sé, e grondava rivoli da mille piaghe, senza armi, senza capi, tradito”. Non è certo un’Italia come questa che Conte auspica oggi a esito del suo governo. E allora che cosa mai ci voleva dire col suo discorso di Bari?
Questo articolo è stato pubblicato dal Fatto Quotidiano l’11 novembre 2018

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