Almirante & C: le strade che indicano l'oblio

18 Luglio 2018 /

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di Salvatore Settis
“I parafulmini devono essere saldamente infissi nel terreno. Anche le idee più astratte e più speculative devono essere ancorate nella realtà, nella materia delle cose. Che dire allora dell’idea di Europa?”. Con queste parole si apre una pagina specialmente intensa del saggio Una certa idea di Europa di George Steiner (2004).
Steiner definisce la sua idea di Europa, per opposizione all’America, secondo cinque parametri, esposti con grande forza metaforica. Per citarne uno solo, l’Europa di Steiner è un luogo di memoria dominato dalla sovranità del ricordo. Perciò non ci sono né 5th Avenue come a New York né F Street come a Washington. Le nostre strade sono intitolate a personaggi storici, “prova di una fortissima volontà di ricordare”.
Non sono passati vent’anni, ed è già ora di chiederci se è ancora così. Se i nomi delle strade servono a ricordare, o non piuttosto a dimenticare. Che cosa, infatti, dovrebbe ricordarci l’iniziativa di intitolare a Giorgio Almirante una via di Roma? Non ripercorriamo, per carità di patria, la delibera del Consiglio comunale, la prima reazione del sindaco (“l’aula è sovrana”), seguita da un veloce dietrofront, le dichiarazioni del ministro dell’Interno “Ci sono via Marx, via Togliatti e via Stalingrado, non vedo quale sarebbe il problema – la storia non si processa ma si ricorda”. Chiediamoci: che cosa ricorderebbe una “via Almirante” agli smemorati consiglieri che dicono di averla votata perché non sapevano chi Almirante mai fosse? Per loro, i nomi delle strade servono per ricordare, o per legittimare l’oblio?

“Quale sarebbe il problema”? dice il baldanzoso ministro. Rispondiamo con le parole dello stesso Almirante, scelte fra tante, troppe, del tutto simili: “Il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti, se veramente vogliamo che in Italia ci sia, e sia viva in tutti, la coscienza della razza. Il razzismo nostro deve essere quello del sangue, che scorre nelle mie vene, che io sento rifluire in me, e posso vedere, analizzare e confrontare col sangue degli altri. Il razzismo nostro deve essere quello della carne e dei muscoli; e dello spirito, sì, ma in quanto alberga in questi determinati corpi, i quali vivono in questo determinato Paese; non di uno spirito vagolante tra le ombre incerte d’una tradizione molteplice o di un universalismo fittizio e ingannatore.
Altrimenti finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei; degli ebrei che, come hanno potuto in troppi casi cambiar nome e confondersi con noi, così potranno, ancor più facilmente e senza neppure il bisogno di pratiche dispendiose e laboriose, fingere un mutamento di spirito e dirsi più italiani di noi, e simulare di esserlo, e riuscire a passare per tali. Non c’è che un attestato col quale si possa imporre l’altolà al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue”. La citazione (15.3.1942) è dalla famigerata rivista La difesa della razza, di cui Giorgio Almirante fu segretario di redazione. Dietro ogni sillaba ci sono famiglie distrutte, ebrei deportati, case e patrimoni saccheggiati, vecchi e bambini in carri bestiame, camere a gas, delitti infami. In nome della “purezza” del “sangue italiano”. Se Salvini “non vede il problema”, sarà perché gli consta che Almirante si è pentito della sua complicità con gli assassini? Da parte di un Ministro dell’Interno, sarebbe il minimo.
Steiner non poteva immaginare nulla di questo, scrivendo la pagina da cui siamo partiti. Ma non poteva trovare metafora più adatta dei parafulmini che “devono essere saldamente infissi nel terreno”. Oggi più che mai abbiamo bisogno di parafulmini, perché oggi più di ieri si addensano sulle nostre teste nubi nerissime, e i fulmini del razzismo tornano a imperversare. Forse ci sono già addosso, e non ce ne siamo accorti abbastanza. I fulmini, dico, non del passato che abbiamo ereditato dal fascismo, ma del futuro che ci minaccia. “Il gioco dei meticci e degli ebrei” era il bersaglio della Difesa della razza, e delle leggi razziali di cui ricorre quest’anno l’80° anniversario.
La purezza della “razza italiana”, “della carne e dei muscoli” secondo Almirante, doveva essere l’ideale supremo. Ma se c’è un vanto che gli italiani dovrebbero rivendicare, è di essere meticci quanto nessun altro. Greci, romani, etruschi, italici, fenici, ebrei nell’antichità. Longobardi, arabi, catalani, francesi, slavi, albanesi nel medioevo. Turchi, spagnoli, austriaci, tedeschi, e altri ancora da allora in poi. È da questo straordinario, intrecciatissimo meticciato che nasce la civiltà italiana come la conosciamo. Per non dire di un altro e sempre vivo meticciato, il continuo innesto di migranti italiani in tutta Europa e in ogni altro continente. Perciò la lotta contro il “meticcio” è un progetto funesto e suicida.
Secondo la propaganda di cui Almirante fu paladino, gli ebrei vorrebbero astutamente “dirsi più italiani di noi, e simulare di esserlo, e riuscire a passare per tali”. A parole forsennate come queste, il MEIS (Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah) aperto da pochi mesi a Ferrara offre una risposta forte e pacata. La mostra di prefigurazione con cui ha aperto (catalogo Electa) ha un titolo eloquente: Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni. Per ricordare agli italiani (anche a quelli che delle leggi razziali non sanno nulla) che una comunità ebraica esiste sul suolo italiano da oltre duemila anni. E ricordarlo con la piana efficacia degli oggetti d’uso comune, dei poveri resti di esseri umani come noi. Oggetti, nomi di umili donne e uomini che percorsero le strade della Roma imperiale, e i cui discendenti abitano fino a oggi la stessa città. Poche volte, come al MEIS, l’archeologia ha saputo dimostrare la silenziosa potenza di quella che potremmo chiamare la memoria delle cose.
Memoria e oblio sono, entrambi, attori centrali del grande dramma della storia. Sta a noi scegliere. Sta a noi sapere, o ignorare, che la cultura e le tradizioni ebraiche sono una componente essenziale della storia nazionale italiana, e non una volgare furbizia di infiltrati. Che l’Italia, anzi, ha una responsabilità speciale nel coltivare la memoria della storia ebraica: perché da Roma partirono, con Tito e con Adriano, eserciti che distrussero Gerusalemme e il Tempio (nulla lo ricorda con tanta arte e tanta violenza come l’arco di Tito). Nell’Europa multiculturale che si va formando (e che nessun respingimento potrà fermare), inveire contro i meticci o celebrare chi lo ha fatto 80 anni fa è prova di dannosa cecità. Lo è anche quando venga cinicamente sbandierata per i micro-calcoli di una politica da quattro soldi, pronta a tutto pur di raccattare voti, alleanze, consensi effimeri.
Questo articolo è stato pubblicato dal Fatto Quotidiano il 30 giugno 2018

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