Scuola, finalmente l’appello: sette temi per un'idea di futuro

16 Gennaio 2018 /

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di Marina Boscaino
Finalmente qualcuno l’ha fatto: comporre, passaggio dopo passaggio, argomentazione dopo argomentazione, i nuclei concettuali, i principi ai quali da più di 20 anni stanno plasmando – e uniformando – i sistemi scolastici europei. Del resto, lo sappiamo: ce lo chiede l’Europa!
Sette temi per un’idea di scuola: leggetelo e, se siete d’accordo, sottoscrivetelo. L’appello, che in poche settimane ha raccolto circa ottomila firme (dai maestri delle scuola dell’infanzia agli ordinari di diverse facoltà universitarie, nonché molti cittadini che riconoscono nella scuola della Costituzione lo strumento dell’interesse generale), ha il merito di non scagliarsi, come pure sarebbe legittimo, sulle mille nefandezze della normativa scolastica degli ultimi decenni; ma di nominare – in sette punti specifici – quelli che sono stati i concetti organizzatori che hanno dato vita alle “deforme” che si sono abbattute sulla scuola italiana e di cui sono stati compartecipi governi di centro destra e di centro sinistra.
E che hanno cambiato il volto della scuola “che rimuove gli ostacoli” e promuove l’istruzione completa di “capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi”. Attraverso la enucleazione e l’analisi di questi principi, si ricostruiscono i passaggi che hanno impiantato un modello ideologico, che parte da molto lontano, e che ha trovato accoglienza in tutta la legislazione scolastica, dall’autonomia del 1997 alla legge 107/15 (passando per la legge di parità, la riforma del Titolo V, Moratti, Gelmini e il “cacciavite” di Fioroni).

Il progressivo smantellamento della scuola della Costituzione – e soprattutto dei fondamenti costituzionali su cui la scuola pubblica italiana si è fondata – è transitato attraverso la giustapposizione all’istruzione di criteri economicisti e efficientisti, che hanno ridotto a merce l’attività scolastica e a modelli produttivistici le modalità di svolgimento di tale attività. Come tutte le ideologie, il neoliberismo – per plasmare o tentare di plasmare le nostre azioni e le nostre convinzioni – ha anche ri-fondato il linguaggio. Vari i mantra irrinunciabili e seduttivi: innovazione, competenze, lavoro, velocità; non a caso tutti diktat contenuti nel documento “Educazione e competenze in Europa” dell’European Round Table del 1989 (un gruppo di industriali incaricati di analizzare le politiche europee nell’ambito dei diversi settori e di formulare raccomandazione corrispondenti ai propri obiettivi strategici).
Un’operazione culturale e politica, che ha condizionato potentemente molti di coloro che nella scuola operano ogni giorno: attraverso non solo la normativa, ma l’editoria di riferimento, i documenti, la formazione dei docenti, la funzionalità di alcune figure preposte alla riuscita del progetto (il dirigente scolastico sostituito al preside, a ribadire che da comunità educante ci si stava trasformando in azienda territoriale), la fanfara mediatica. Passata attraverso la semplificazione (un’altra parola-chiave, interpretabile nelle maniere più diversificate) di un processo “riduttivo e riduzionista”, come si legge sull’appello. Un’operazione che ha fatto sostanzialmente terra bruciata – a partire dalle coscienze individuali – della funzione politica di docenti e scuola pubblica; la cui neolingua ha eroso – svuotandole o modificandole nel significato o relegandole al rango di reperti di antiquariato – parole e concetti come cultura emancipante, unitarietà del sistema scolastico, relazione educativa, diritto all’apprendimento, valutazione; e, in effetti, cosa c’entrano quei concetti e quelle parole con una struttura aziendale, vocata al risultato e alla competizione?
Questo appello ha, ancora, il merito di far uscire allo scoperto i molti che – al cospetto di un’operazione tanto potente – hanno continuato nel proprio lavoro quotidiano a praticare i (sempre più limitati) spazi della libertà di insegnamento e il pensiero critico analitico, come salutare antidoto all’appiattimento al Pensiero pedagogico unico delle competenze, dei test Invalsi, della velocità onnivora e incapace di selezionare qualità (si pensi alle sperimentazioni delle superiori brevi). Che sono rimasti convinti che non è la reductio ad unum dell’eterodirezione ciò che potrà rendere significativi (e cioè positivi e funzionali alla capacità di interpretare la complessità del reale) percorsi di apprendimento per bambine/i e ragazze/i la cui infinita diversità – che ha da sempre costituito il potenziale più straordinario della scuola pubblica – non può essere compressa e conchiusa nella opinabile innovazione tecnicale, sebbene multiforme e polimorfa; che hanno continuato ad attribuire all’espressione “fare lezione” il significato più alto in termini relazionali, comunicativi e didattici; che hanno difeso il primato della qualità dell’insegnamento rispetto a tutti i nuovi dogmi.
Gli estensori affidano all’appello soprattutto la possibilità di inaugurare una nuova “lotta cosciente e resistente in difesa della scuola, per una sua trasformazione reale e creativa” attraverso la riapertura di un dibattito reale, onesto e articolato sul tema della scuola. Agli oppositori dell’appello, che stanno legittimamente alimentando il dibattito, si potrebbe chiedere di dimostrare – dati alla mano, però – come quella che chiamano “innovazione” nella scuola abbia prodotto – dalle competenze all’Invalsi, dall’inserimento intensivo delle tecnologie al Clil – apprendimento significativo e miglioramento della qualità della scuola italiana.
Il dibattito interpella movimenti politici, all’esordio di una campagna elettorale che si prefigura particolarmente tesa e in cui non potrà mancare questo tema strategico; sindacati; associazioni, docenti, studenti e genitori. Cittadini: tutti coloro che hanno compreso che un’idea di scuola prevede un’idea di futuro, che quindi ci riguarda tutti. E che il futuro che ci si prospetta al momento non è dei migliori.
Questo articolo è stato pubblicato dal FattoQuotidiano.it il 13 gennaio 2018

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