Una comunicazione per non piangere

2 Gennaio 2018 /

Condividi su


di Sergio Caserta
La vicenda della frase di Travaglio sull’acido e l’attacco di Lucia Annibali, diventato un “caso” come tanti altri della giornaliera polemica politica, mi ha fatto venire in mente,ci rimuginavo da tempo, che in quest’ambito delicato della comunicazione pubblica su temi sociali forti, quali sono le violenze subite, le ferite nel corpo e nell’anima, i portatori di handicap handicap menomanti che, in modo più o meno grave, affliggono una parte della società, a differenza di un tempo oggi la televisione non fa più velo, si è dissolto quel riserbo che prima escludeva dall’immaginario della “visione pubblica”, persone sfortunate considerate ingiustamente “diverse”.
Era arretratezza, era conformismo, era ossessione per una finta normalità, era tante cose di un modo di fare comunicazione che oggi è stato superato da modelli più realistici e dai cambiamenti nel costume che sicuramente nel complesso rappresentano un avanzamento. Non foss’altro perché fortunatamente, come possiamo felicemente constatare, oggi è possibile anche per chi soffre di menomazioni a causa di traumi o patologie, con la forza di volontà e supporti adeguati della società, vivere una vita del tutto normale non solo pienamente inclusiva e dinamica, perfino all’insegna dello sport competitivo, raggiungendo risultati di grande o straordinario valore.

Tutto ciò si trasforma nel linguaggio mediatico in nuovi richiami ai concetti di una diversa normalità, in cui una persona limitata nel fisico può rappresentare non solo la voglia di vivere normalmente, ma anche il raggiungimento di un primato di una piena e grande realizzazione, è bellissimo non c’è alcun dubbio. E però la reiterazione di questo messaggio in diverse occasioni nelle frequenze compulsive degli spot commerciali, insieme a quelli della comunicazione sociale, crea a parer mio una superfetazione del concetto, incanalandolo nel cliché non solo del politically correct di una comunicazione non escludente.
Come spesso succede quando un tabù si svela e un concetto assume rilevanza, la pubblicità se ne appropria e crea una sorta di “modello” che si ripete all’infinito, secondo me generando un vero e proprio capovolgimento valoriale del messaggio. Ovvero allora tutti coloro che soffrono per le proprie condizioni fisiche (o anche solo interiori) e non riescono a superarle con sufficiente determinazione, quelli che non ce la fanno, magari perché non hanno mezzi o non trovano, ed in tante parti del nostro paese sappiamo che è così, le strutture idonee per aiutarli, cosa rappresentano e come si rappresentano? Perché la sofferenza come fenomeno generale, viene rappresentata il più delle volte con meri dati statistici, ma non per immagini realistiche perché quelle fanno male, tranne ovviamente lodevoli e limitate eccezioni.
Insomma dateci certo buoni esempi “vincenti” ma non dimenticatevi di parlare della maggioranza che si specchia in una realtà che non è la sua. Tornando così alla Annibali che rappresenta un’icona della violenza contro le donne e della capacità di riscatto, non è certo condannabile se preferisce Renzi e il PD ci mancherebbe, però se si usa una parola pronunciata per tutt’altre ragioni, per creare una parallelismo infamante, beh non è un bel modo per onorare quel limite di rispetto umano e civile che si dovrebbe sempre mantenere anche nello scontro politico più risoluto. Cosicché è auspicabile che tutte queste belle figure di campioni, di cui celebriamo le gesta che infiammano il nostro senso di appartenenza ad una nazione civile, non divengano un prodotto, magari loro malgrado, di un marketing elettorale di scarsa qualità. Fateci la carità.

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati