di Luca Baldissara
Non c’è quotidiano o sito d’informazione che nei giorni scorsi non abbia ripreso la notizia del saluto fascista col quale un calciatore ha esultato sul campo di calcio di Marzabotto, esibendo la t-shirt con la bandiera della Repubblica di Salò indossata sotto la maglia della squadra. Al gesto fascista – presumiamo programmato, a meno che il giovane non sia solito indossare magliette con l’effige saloina e non sia affetto dalla sindrome di Stranamore – segue l’ormai usuale e collaudata ritualità: indignazione (dell’Anpi e dell’amministrazione comunale in primis, poi di vari esponenti politici), scuse goffe e poco credibili del protagonista (avrebbe inteso salutare il padre in tribuna), presa di distanza della squadra e della società (immaginiamo la vestizione tenuta nascosta dell’aspirante saloino nella nota segretezza dello spogliatoio), denuncia da parte della destra degli eccessi d’attenzione strumentale delle “maestranze antifasciste” (così le ha definite Forza Nuova), espiazione in forma di visita al sacrario delle vittime.
Atti del genere non sono nuovi, tutt’altro. Anzi, dobbiamo riconoscere che dal 2005 – quando l’allora giocatore della Lazio Paolo Di Canio più volte sotto la curva dei tifosi compì questo stesso teatrale gesto (e non era la prima volta) – sono ricorrenti e sempre più frequenti. Intendiamoci: l’indignazione è sacrosanta. E doverosa – quanto, assai probabilmente e sulla base di precedenti simili, priva di esiti giudiziari concreti – è la denuncia per apologia di fascismo a norma della legge Scelba del 1952 da parte dei carabinieri. Condivisibili pure le parole – non troppe, in verità – di condanna ed esecrazione del gesto.
Questa procedura rituale fondata sulla sequenza colpa (il gesto), condanna (l’indignazione pubblica), assoluzione (le scuse e l’atto riparatore) ha probabilmente a che fare con le modalità esteriori della confessione/assoluzione di un cattolicesimo volgarizzato nelle sue forme esteriori, ma ha certo molto di più a che vedere con il moralismo sarcasticamente criticato da Charles Baudelaire nei suoi Diari intimi: “Tutti gli imbecilli della Borghesia che pronunciano continuamente le parole: immorale, immoralità, moralità nell’arte e altre bestialità mi fanno pensare a Louise Villedieu, puttana da cinque franchi, che accompagnandomi una volta al Louvre, dove non era mai stata, si mise ad arrossire, a coprirsi la faccia, e tirandomi a ogni momento per la manica, mi domandava davanti alle statue e ai quadri immortali come si potessero esporre pubblicamente simili indecenze”.
Nel senso che il rituale conformista con cui gesto dopo gesto, saluto romano dopo saluto romano, si rinnova la pubblica esecrazione non appare in grado di cogliere le ragioni di questo infittirsi di comportamenti inneggianti il fascismo, né tantomeno di evitarne il ripetersi. Anzi, sembra ipocritamente e moralisticamente distogliere lo sguardo, proprio come Louise Villedieu, dalle sconcezze che prendono forma e visibilità.
C’è infatti da chiedersi se i sempre più numerosi saluti a braccio teso nel calcio non costituiscano tanto il problema in sé, quanto piuttosto la spia di un nuovo senso comune, sempre più solido e sempre più diffuso, che, insieme ad altre manifestazioni esteriori di fascismo (dall’intitolazione di strade e piazze alla gestione di “spiagge fasciste”, alle bandiere di Salò sventolate in cima alle Apuane), sempre più spesso evoca il fascismo quale dimensione “altra”, autentica, di valori ormai perduti in questa società senza bussola, materialista e in crisi di identità.
Vi saranno, certo, i nostalgici del passato. E vi saranno i convinti assertori dell’ideologia fascista in tutte le sue forme e declinazioni. Ma vi è anche, e soprattutto, chi in questa rappresentazione di fascismo intravvede la difesa di identità minacciate dai tumultuosi processi di mutamento del presente, l’attenzione per gruppi sociali abbandonati a se stessi dalle istituzioni e dalla sinistra, il rigore contro una classe politica che appare corrotta nel suo insieme, la concretezza di contro alle tante vuote ed ipocrite parole, la prospettiva potenziale di una solidarietà comunitaria contro il cosmopolitismo vacuo e astratto dei buoni sentimenti. Una società confusa, incerta, preoccupata, attraversata dall’ansia del futuro cerca risposte credibili. E sempre più la credibilità sembra fondarsi nella semplificazione, mentre ogni richiamo alla complessità del presente appare una forma di inganno, una truffa retorica. La logica binaria del pensiero – e della propaganda – di destra sembra dunque più sincera, più fondata, più autentica. La recente affermazione elettorale di CasaPound a Ostia è solo l’ultimo indicatore in ordine di tempo di tale fenomeno.
Ma che cosa in Italia – pur in un contesto europeo del fenomeno – ha reso possibile questa plausibilità del discorso fascista? Il fatto che dopo il 1989-91, dopo la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Urss, dopo l’implosione del sistema dei partiti e la scomparsa del Pci, il fascismo è stato “normalizzato”, reso un regime tra i regimi. Certo, esso è stato ricompreso in una famiglia autoritaria e totalitaria di cui erano parte allo stesso titolo il nazismo quanto il comunismo, quasi si trattasse di un virus che nella parte centrale del Novecento ha colpito taluni Paesi e diffuso rapidamente la malattia. Ma nella sua quotidianità il fascismo, a parte alcuni eccessi, peraltro condivisi appunto con altri regimi dell’epoca, ha in fondo governato il paese come altri governi in precedenza avevano fatto e altri avrebbero fatto in seguito. Violenza e repressione, antidemocrazia e aggressività nazionalista, erano presentati come frutto dei tempi, più che tratti distintivi. Tale visione politico-culturale di un fascismo normalizzato a partire dagli anni Novanta si è accompagnata anche alla sua banalizzazione nel discorso pubblico, consentendo ad esempio di descrivere Mussolini come “un grande statista”.
Tutto ciò mentre la volontà di costruire un’Europa capace di ricomprendere le due Europe, dell’Est e dell’Ovest, con le loro storie così diverse, conduceva a inventare una comune (e inesistente) identità antitotalitaria, indebolendo sistematicamente quella cultura dell’antifascismo che aveva rappresentato l’unico cemento coesivo di classi dirigenti politicamente divise al loro interno, consentendo loro di costruire la democrazia rappresentativa di massa nell’Europa occidentale, Italia compresa. Indebolito e delegittimato l’antifascismo, da allora sono andati rapidamente riemergendo lo sciovinismo, il nazionalismo, l’elitismo classista, il corporatismo sociale.
In Italia, dove la fine del bipolarismo ha coinciso con la fine del sistema dei partiti sorto con il crollo del fascismo, il passaggio alla cosiddetta “Seconda Repubblica” ha visto non solo l’indebolirsi, come in tutta Europa, della cultura dell’antifascismo, ridotto a un astorico antitotalitarismo, a una generica lotta per la libertà, dove fascismo e comunismo venivano accostati (ci si ricorda ancora del dibattito Fini-Violante sui ragazzi di Salò?). Ma ha identificato nello stesso sistema ciellenistico dei partiti antifascisti (la partitocrazia) l’origine del clientelismo e della corruzione che ne avrebbero provocato il crollo. Cosicché, critica e decostruzione dell’antifascismo hanno corrisposto allo sdoganamento del fascismo, non tanto nei suoi termini immediatamente politici (che pure non sono mancati), quanto nella sua ordinaria banalizzazione e normalizzazione. Così che qualcuno ha potuto immaginare un fascismo quale forma di anticomformismo, di possibile risposta all’inanità e alla corruzione delle classi dirigenti e del ceto politico.
Se Berlusconi nel 2005 poteva dunque sorridere al gesto di Di Canio, giudicandolo “un ragazzo per bene, non è fascista”, il cui gesto era fatto “solo per i tifosi, non per cattiveria”, così oggi Salvini, commentando il fatto di Marzabotto, può dichiarare che “fa molti più danni la legge Fornero di un saluto al Duce” e che “uno può salutare col braccio teso o col pugno chiuso, rappresentano lo stesso autoritarismo, hanno lo stesso valore. Non torneranno più né il fascismo, né il comunismo”. Così Morris Battistini, il capogruppo dell’opposizione in consiglio comunale a Marzabotto, può sostenere che “da moderati e liberali quali siamo, esprimendo una ferma condanna verso l’esibizione di una maglietta che soprattutto in questo territorio non andava portata, non riteniamo però utile un linciaggio mediatico che ha il sapore di vetrina politica”.
Insomma, sono ragazzate. Come ha scritto il giovane calciatore dal braccio teso, un’azione compiuta “con leggerezza, senza pensare alle conseguenze”. Del resto, come Giacomo Matteotti ricordava a Giolitti nella seduta della Camera del 31 gennaio 1921, con questi termini il questore di Bologna aveva bollato l’assalto fascista alla Camera del lavoro.
Questo articolo è stato pubblicato dalla Rivista del Mulino il 28 novembre 2017