Con l’inchiesta della magistratura che ha coinvolto l’Anas, l’ex senatore Denis Verdini e suo figlio Tommaso (rispettivamente suocero e cognato di Matteo Salvini, ministro delle Infrastrutture) la corruzione è tornata a occupare la scena politica italiana e a preoccupare i vertici del governo, dopo anni in cui sembrava aver allentato la sua presa sulla vita quotidiana della nostra nazione.
Ma si trattava di un allentamento apparente. Scoprire un fatto corruttivo, infatti, non vuol dire svelare comportamenti mai praticati prima nelle relazioni tra imprese private, burocrati ministeriali o regionali, faccendieri ed enti pubblici, ma solo portare alla luce rapporti abitudinari che per la maggior parte dei casi si svolgono per via clandestina e segreta e solo raramente vengono alla ribalta giudiziaria. In questo campo, quello che non si scopre non vuol dire che non succede.
Potremmo definire la corruzione come un fiume carsico che scorre nascosto sotto la pelle della storia nazionale dal 1861 in poi e che solo in particolari circostanze e in determinati periodi affiora in superficie.
In criminologia la corruzione sconvolge i canoni abituali con cui si analizzano i reati. I corrotti e i corruttori non sono spinti dalla impellente necessità di garantirsi da vivere né sono privi di titoli di studio. Non sono né poveri né incolti, ma benestanti, diplomati e laureati. Non provengono, dunque, dai bassifondi della società.
Per corrompere bisogna possedere soldi, avere relazioni giuste per arrivare a chi detiene quel potere decisionale in grado di incidere sugli interessi di un’impresa. La corruzione, perciò, è un reato tipico di una classe dirigente che abusa del potere, è il reato d’élite più continuativo e pervasivo della nostra storia nazionale.
Ma perché la corruzione ha così lunga vita nella storia nazionale, come mai resiste a ogni epoca? Perché ciò che è accaduto continua ad accadere negli stessi settori di attività e negli stessi enti? Come mai non si riesce a trovare niente di veramente dissuasivo, niente che provi a estirparla nel costume, nel comportamento degli attori coinvolti?
La spiegazione può sembrare banale: la corruzione in effetti ci parla della concezione dello Stato e della considerazione delle pubbliche funzioni da parte di chi le esercita e di chi ci si rapporta.
Essa ci svela che in Italia non c’è senso dello Stato in molti che rappresentano lo Stato, non c’è senso della legge in molti che scrivono le leggi e le devono applicare, non c’è senso del bene pubblico in molti che con lo Stato hanno relazioni di affari. E, nel caso dei Verdini, che il familismo in politica si espone permanentemente a una visione utilitaristica e predatoria dello Stato e delle sue risorse.
La corruzione, dunque, la possiamo definire come uno strumento di governo alternativo di una parte delle élite del Paese per continuare a esercitare la propria funzione di comando, ricorrendo a ordinamenti illeciti, extralegali per la competizione con altri centri di potere.
È un ordinamento giuridico alternativo a quello ufficiale, in cui se ti ribelli non lavori, se paghi puoi ottenere quello che non ti spetta, e il pagamento legittima un potere privato che si esercita sotto la copertura pubblica.
Si considera potente colui che aggira la legge e non chi l’applica. In base a questo modo di pensare e agire, il potere non coincide con la legge ma con la possibilità di aggirarla con successo, perché il potere vero si colloca al di sopra della legge e non è una sua derivazione.
Il potere, così, viene legato al suo abuso. L’abuso è una caratteristica del potere non un suo limite, non una sua degenerazione. I potenti utilizzano e sfidano la legge. Anzi si potrebbe considerare il potere in Italia come sfida permanente alla legge.
Certo la corruzione, a seconda dei diversi periodi, è stata scoperta di più o di meno, è stata più o meno evidente, ha influenzato di più o di meno le relazioni tra politica, burocrazia e imprenditoria.
È indubbio che diverse sono l’intensità, la pervasività e le modalità della corruzione, così come pure diversi sono i settori interessati: alcuni restano stabili nel tempo, come nel caso di Anas (e in gran parte del settore Lavori pubblici), ferrovie, banche, sanità (a seguito degli sproporzionati poteri affidati alle Regioni), forniture di servizi e autorizzazioni, mentre altri emergono solo in determinati periodi e “rallentano” in altri.
L’impressione è che il “fiume” della corruzione diventi più impetuoso in alcuni frangenti e più contenuto in altri. Si sviluppa, infatti, a seguito di preparazioni di eventi straordinari, di calamità naturali o di una particolare fase di accelerazione di lavori pubblici (ad esempio, dopo terremoti, alluvioni, o per organizzare importanti eventi), e si riduce a seguito di grandi scandali e strette repressive (come dopo l’inchiesta di Mani pulite).
Ma negli ultimi tempi la corruzione si manifesta sempre più nei cambi di governo, al centro e in periferia, soprattutto da quando nuove forze politiche hanno avuto la possibilità di entrare nella stanza dei bottoni con il convincimento di risarcire la lunga fase di esclusione o per costruire sistemi di potere locale in grado di garantire ad alcuni una lunga permanenza al governo. Insomma, la corruzione come risarcimento o costruzione di sistemi inattaccabili dagli stessi partiti di appartenenza.
Perciò negli ultimi anni alla pratica corruttiva si sono prestati anche esponenti politici che si erano presentati come contestatori della scarsa moralità dei governanti precedenti e che appena arrivati al potere hanno assunto tutte le caratteristiche di amoralità dei potenti che li hanno preceduti.
La corruzione è anche reato di intransigenti che imparano presto a transigere, ma hanno bisogno impellente di esperti di illegalità, di mediatori di affari tra sistema politico, burocratico e imprenditoriale.
I Verdini rappresentano bene questo mondo che ha sempre buoni consigli da offrire ai nuovi arrivati sulla scena del potere.
Questo articolo è stato pubblicato su Repubblica il 3 gennaio 2024