Difesa del territorio, difesa della democrazia

9 Giugno 2017 /

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di Paolo Ortelli
Le parole dell’iniquo che è forte, penetrano e sfuggono. Può adirarsi che tu mostri sospetto di lui, e, nello stesso tempo, farti sentire che quello che tu sospetti è certo: può insultare e chiamarsi offeso, schernire e chieder ragione, atterrire e lagnarsi, essere sfacciato e irreprensibile.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi
La forma di una città cambia più in fretta – ahimè – del cuore degli uomini.
Charles Baudelaire

A commento del successo internazionale della Grande bellezza, Raffaella Silipo scriveva sulla Stampa: «Gli americani si immaginano l’Italia esattamente così: splendide pietre e abitanti inconcludenti». E se invece non fosse così? Se l’Italia decadente degli ultimi decenni fosse anzi l’opposto di quella imbelle, invecchiata e rassegnata, che si consola contemplando dall’alto le proprie bellezze imperiture, ritratta nel film di Sorrentino?
L’Italia è piuttosto un paese in cui sempre più persone e associazioni si ergono a difesa del bello, lottano per una riscossa civile contro la prepotenza distruttiva del cemento, rivendicano il diritto a un territorio sicuro, confortevole, funzionale; e in cui altrettante persone e associazioni, più semplicemente, si prendono cura di angoli del paese dimenticati dalle istituzioni. Si moltiplicano i comitati locali, Fai, Italia Nostra e Legambiente registrano sempre maggior seguito, l’opposizione al saccheggio del territorio è folta e coraggiosa e non teme le speciose etichette di sindrome Nimby (Not In My BackYard). I giovani rispolverano espressioni come «la bellezza salverà il mondo», figure come Tomaso Montanari e Massimo Bray divengono punti di riferimento per chi spera ancora in una rinascita della sinistra, e fra le tante contraddizioni grilline prova a farsi largo (con qualche difficoltà, basti pensare alla vicenda di Paolo Berdini a Roma) la parte migliore del Movimento cinque stelle, quella che propone una gestione del territorio più democratica e avanzata.

La ragione di questa rinnovata sensibilità, di questo impegno ancora minoritario, sì, ma in costante crescita, sta forse nel fatto che, come fa notare Salvatore Settis, «la “domanda” sociale di paesaggio (con la sua sintesi fra natura e cultura, fra spazio e tempo) aumenta sempre di più perché l’offerta – la qualità – diminuisce». Quasi sempre, però, si rivela un impegno vano, di fronte all’ottusità degli amministratori, all’abusivismo e al vandalismo immobiliare che hanno già fatto toccare livelli impressionanti di consumo del suolo, ferito irreparabilmente il paesaggio del paese, messo in pericolo città storiche uniche al mondo e pregiudicato la vivibilità di molte aree urbane. Nonostante queste «sacche di resistenza», siamo costretti ad assistere alla trasformazione dell’ambiente in cui viviamo da bene pubblico inestimabile in risorsa da sfruttare.
Gli storici del futuro, che guarderanno l’Italia repubblicana nell’ottica della lunga durata, non potranno più trascurare un fenomeno di rilevanza internazionale come l’«eclissi del paesaggio italiano». Il nostro paese, per anni il primo produttore di cemento al mondo, è passato da un consumo di suolo del 2,7 per cento del territorio nazionale negli anni cinquanta al 7,0 per cento nel 2014, ossia da 8100 m2 a 21100 m2 (dati ISPRA). Un processo che si abbina a decisioni urbanistiche scellerate, e che non ha eguali nel resto d’Europa. Proprio nel paese dal patrimonio culturale più ricco e diffuso – e storicamente meglio tutelato, fin da prima dell’Unità -, nel Belpaese meta privilegiata, tra il Seicento e l’Ottocento, del Grand Tour dei giovani aristocratici e artisti europei, si è registrata l’espansione urbanistica più disarmonica e incontrollata di tutto il continente, la cui natura speculativa è testimoniata anche dal dato-record sul rapporto fra insediamenti abitativi e popolazione. Le conseguenze non sono state, e non sono, di natura unicamente estetica: il dissesto urbanistico e la perdita del paesaggio sono fonte di limitazioni fisiche, di paure, nevrosi, disagi esistenziali; di spaesamento, appunto.
In tutto questo, l’Italia conserva comunque un primato positivo: il nostro è l’unico paese d’Europa ad aver salvato in larga misura i propri centri storici. Credo che non sia azzardato attribuirne il merito a un uomo in particolare: Antonio Cederna, padre nobile delle moderne leggi di tutela e punto di riferimento ideale e culturale per tutti i comitati e i movimenti impegnati nella difesa dell’ambiente e dei beni culturali.
Archeologo di formazione, giornalista «militante» affermatosi al Mondo di Pannunzio (più avanti collaborerà con l’Espresso, il Corriere della Sera e la Repubblica), il nome di Cederna è legato a decenni di memorabili denunce contro le offese inferte alle bellezze artistiche e paesaggistiche italiane, e ai centri storici «sventrati» di città che crescevano «a macchia d’olio», in modo sistematicamente informe, senza riguardi nei confronti dell’antico e del bello. Cederna non esitò a definire «vandali» i responsabili di tanto scempio.
Il suo primo libro, del 1956, si intitola proprio I vandali in casa, e raccoglie i migliori articoli pubblicati sul Mondo. Un testo fondamentale per comprendere la nostra storia recente, ancora oggi inarrivabile per la chiarezza espositiva, il coraggio e l’originalità dell’argomentazione, la lucidità quasi profetica con cui l’autore anticipò temi divenuti di vasto interesse pubblico, ma che nella mentalità dell’epoca lo relegavano tra gli stravaganti «oppositori del progresso». «Il controcanto a mezzo secolo di storia italiana» scrive Francesco Erbani nella Prefazione alla nuova edizione del 1996. Chi sono dunque i vandali, per Cederna?
Sono quei nostri contemporanei, divenuti legione dopo l’ultima guerra, i quali, per turpe avidità di denaro, per ignoranza, volgarità d’animo o semplice bestialità, vanno riducendo in polvere le testimonianze del nostro passato: proprietari e mercanti di terreni, speculatori di aree fabbricabili, imprese edilizie, società immobiliari industriali commerciali, privati affaristi chierici e laici, architetti e ingegneri senza dignità professionale, urbanisti sventratori, autorità statali e comunali impotenti o vendute, aristocratici decaduti, villani rifatti e plebei, scrittori e giornalisti confusionari o prezzolati, retrogradi profeti del motore a scoppio, retori ignorantissimi del progresso in iscatola. Le meraviglie artistiche e naturali del «Paese dell’arte» e del «giardino d’Europa» gemono sotto le zanne di questi ossessi: indegni dilapidatori di un patrimonio insigne, stiamo dando spettacolo al mondo. Tra le persone civili e i vandali odierni nessun compromesso è possibile. (dall’Introduzione)
L’Italia che aveva subito danni immensi dai bombardamenti bellici, anziché impostare la ricostruzione su basi più avanzate, fece marcia indietro. Frastornata dalla fretta di ripartire, accantonò la ragionevole legge generale di coordinamento urbanistico territoriale introdotta nel 1942 derogandola con provvedimenti ad hoc (fu così inaugurata la pervicace e assurda abitudine a ricorrere a norme speciali per aggirare quelle ordinarie). All’ansia della ricostruzione subentrò poi l’ansia di un progresso spesso malinteso, ed è sull’altare di uno sviluppo economico tanto rapido e straordinario quanto contraddittorio e caotico che fu sacrificata buona parte del «patrimonio insigne». Cerimonieri: la speculazione immobiliare e una politica miope e asservita, che in nome della rendita fondiaria non risparmiarono alcuna regione italiana.
Come ricorda Vezio De Lucia, «nei primi lustri del dopoguerra l’opinione pubblica non percepiva il carattere disastroso che assunsero le politiche urbanistiche e le trasformazioni della città. Solo pochi intellettuali […] s’impegnarono in una lodevole e spesso coraggiosa azione di contestazione e di protesta. La voce più coerente e determinata fu quella di Antonio Cederna. […] Al centro dei suoi interessi è sempre stata l’urbanistica. Un’urbanistica dagli orizzonti vastissimi, tutto lo spazio comunque vissuto dall’uomo, la sua storia, le sue regole».
L’originalità e grandezza di Cederna risiede proprio in questi «orizzonti vastissimi». Professionisti, burocrati e amministratori mediocri sottolineavano il proprio impegno a salvaguardia di grandi monumenti e scorci incantevoli; lui – che ebbe a definirli «esteti da strapazzo e insieme timorosi» (dall’Introduzione), il cui torto più grave era quello di spiare «con trepidazione il nascere di qualche raro capolavoro, e trascura[re] sistematicamente la realtà terribile del nostro tempo, cioè il propagarsi del brutto e dell’indecente» (da «L’architetto neo-romanesco») – oppose una più fertile visione d’insieme, scevra da ogni idealismo elitario.
Il paesaggio, la città e il territorio sono beni di tutti, sono i luoghi attraverso i quali il passato consegna alle generazioni presenti e future la loro identità. Il loro fulcro non è costituito dai singoli panorami o dalle grandi vestigia delle epoche trascorse, e nemmeno dalla loro sommatoria, ma dal rapporto fra i vari elementi, l’equilibrio ecologico e le implicazioni sociali che ne derivano. Una concezione sistemica secondo la quale il territorio è una delle principali fonti del benessere sociale e individuale, e dunque della democrazia.
Su queste basi, Cederna si spese per promuovere una tutela integrale dei centri storici, ritenendola complementare alle necessarie opere di ammodernamento:
Dobbiamo inchiodarci nel cervello la convinzione che la salvaguardia integrale del vecchio e la creazione del nuovo nelle città sono operazioni complementari, due momenti indissolubili dello stesso procedimento, che antico e moderno hanno prerogative materiali e spirituali distinte e vicendevolmente necessarie; e che solo se si ammette la piena autonomia dei due termini, se ne può risolvere e comporre l’apparente contrasto, cioè sviluppare modernamente una città vecchia, senza distruggere le testimonianze della sua storia. (dall’Introduzione)
Il vero problema era dunque «sviluppare la città moderna non sopra ma oltre l’antica», grazie a una pianificazione e regolazione che privilegiasse l’interesse pubblico su quello privato: tutto il contrario di quanto accadeva sotto l’azione instancabile dei vandali. L’analisi documentatissima di Cederna passa in rassegna le consuete, «sballate ragioni vantate come “imprescindibili”», accampate per giustificare disastri e sventramenti: motivi di traffico, motivi variamente urbanistici, motivi di «decoro», motivi scenografici, motivi di sicurezza. Ma scavando dietro i proclami, scopre puntualmente le «ragioni autentiche, sostanziali, invincibili e micidiali, che da decenni vanno smontando l’Italia antica: le ragioni dell’anarchia, dell’ingordigia e della speculazione privata» (da «Distruggiamo le chiese»).
Particolarmente straziante per Cederna, che vi era cresciuto, è la parabola urbanistica di una Milano divenuta irriconoscibile, che a partire dagli anni trenta annientò il 90 per cento dell’«edilizia minore» di stampo settecentesco e più di una dozzina di chiese storiche (di San Giovanni in Conca rimane tutt’ora un avanzo dell’abside: una grottesca finta reliquia la cui fotografia fu scelta per la copertina della prima edizione dei Vandali in casa), e che, nell’ordine, squarciò e coprì i Navigli, spianò i Bastioni e poi i giardini del centro, sventrò l’intera zona intorno al Duomo e corso Vittorio Emanuele. Di Venezia, Cederna denuncia – tra i primi in assoluto – il «balordo progettone comunale» che metteva a repentaglio la laguna con autostrade sublagunari e litoranee e persino nuove isole e città satellite. Trovano spazio nel libro anche gli sventramenti di Lucca, Assisi, Ravenna, mentre la data di pubblicazione precede le devastazioni di cui l’autore si occuperà in seguito: per esempio, il Sacco di Palermo perpetrato da amministrazioni mafiose, le «mani sulla città» di Napoli, deturpata dall’abusivismo promosso da Achille Lauro, lo sfregio al paesaggio veneto che addolorava Andrea Zanzotto, la cementificazione selvaggia delle coste, la mala gestione dei bacini d’acqua e dei parchi nazionali, le sciagure annunciate della frana di Agrigento e dell’alluvione di Firenze.
Ma è il destino di Roma, metafora d’Italia e per lui città d’adozione, a tormentare Cederna più di ogni altra cosa, al punto che alla capitale è dedicata oltre metà del libro. La città eterna divenuta «città eternit», dove furono distrutte magnifiche ville cinque e settecentesche, in cui Borgo fu spianato per realizzare via della Conciliazione e la collina di Monte Mario rovinata da un gigantesco albergo Hilton, in cui già negli anni venti la via dei Fori imperiali voluta da Mussolini aveva demolito l’intero tessuto urbano compreso tra piazza Venezia e il Colosseo. L’Urbe che si espanse a macchia d’olio in tutte le direzioni con quelle insane e grigie periferie-dormitorio di cui Pier Paolo Pasolini indagò il degrado sociale. La «capitale corrotta» presa in ostaggio da un «Leviatano onnipossente», la Società Generale Immobiliare che «rappresenta in concentrato gli interessi dei più vari potentati economici d’Italia, dal Vaticano alla Fiat» e «monopolizza terreni, traffica in aree fabbricabili, costruisce quartieri “signorili”» (da «Il Leviatano immobiliare»).
Roma, però, fu teatro anche di molte battaglie vinte: in primis quella per la tutela della via Appia Antica, vero assillo di Cederna. «Andava salvata religiosamente perché da secoli gli uomini di talento di tutto il mondo l’avevano amata, descritta, dipinta, cantata, trasformandola in realtà fantastica, in momento dello spirito, creando un’opera d’arte di un’opera d’arte: la Via Appia era intoccabile, come l’Acropoli di Atene» scrisse nel celebre articolo «I gangster dell’Appia». E la regina viarum, straordinario museo a cielo aperto minacciato dall’abusivismo e da piani di lottizzazione sconsiderati, fu salvata nel 1965 grazie a un’instancabile campagna che portò alla costituzione di un parco archeologico.
Unita al successo della campagna del 1952 contro lo sventramento di via Vittoria e del centro di Roma, talmente devastante da risvegliare le coscienze di decine di intellettuali, che riuscirono a sventare il folle progetto e nel 1955 fondarono Italia Nostra, la vicenda dell’Appia Antica sfata la leggenda secondo cui Cederna è stato un «signor no» destinato alla sconfitta. È stato invece l’ispiratore di svariate battaglie vinte, e di grandi innovazioni come la fondamentale «legge ponte» del 1967, che obbliga i comuni a dotarsi di piani regolatori ponendo un freno alla lottizzazione selvaggia, o delle leggi per la difesa del suolo del 1989 e per la protezione della natura del 1991, promosse in veste di parlamentare. «Pensate cosa sarebbe l’Italia se Cederna fosse pigro» disse l’illustre storico dell’architettura Leonardo Benevolo; come già si accennava, il fatto che gran parte dei centri storici italiani sia stata conservata, e che la necessità della loro tutela integrale sia diventata indiscutibile, si deve anche e soprattutto alle sue campagne.
Mai sconfitto, quindi, ma certo scomodo, Cederna è stato ed è ripetutamente isolato e irriso, e il suo pensiero contraffatto e banalizzato, spesso da soggetti ambigui e tutt’altro che disinteressati. Un caso recente è l’editoriale del Messaggero firmato dal direttore Virman Cusenza, che senza sprezzo del ridicolo – come ha denunciato su MicroMega online Vittorio Emiliani – definisce il «cedernismo» un «impasto di conservatorismo ideologico, di decrescita infelice e di anticapitalismo mascherato da ecologismo, […] cultura sprezzante dei bisogni di modernità, mobilità e vivibilità». Il proprietario del quotidiano Franco Gaetano Caltagirone ebbe invece a scrivere che «nel nome di Cederna a Roma si è consolidato un vincolismo selvaggio», impedendo a Roma di adeguarsi ai tempi come le altre capitali.
Obiezioni evidentemente «pelose» e del tutto inconsistenti. Chiunque abbia letto un suo articolo può facilmente rendersi conto che Cederna non rinunciò mai a corredare le denunce e le proteste di dettagliate, curatissime proposte per un’urbanistica consapevole della propria rilevanza storica e sociale. Si spese perché le città italiane seguissero i virtuosi esempi urbanistici di Stoccolma, Amsterdam, Parigi, Londra, fece conoscere la meraviglia dei parchi nazionali nordamericani, fu sempre pronto a elogiare i casi di buongoverno del territorio.
L’architetto Paolo Desideri è autore di un intervento critico molto più stimolante. Su Limes, Desideri chiamava in causa la presunta ingenuità dell’autore dei Vandali in casa, reo di eccessi polemici nei confronti della famigerata Società Generale Immobiliare e delle grandi imprese edilizie, e di non comprendere che in ambito urbanistico il capitale privato può e deve essere «indirizzato e governato» affinché diventi «capitale trasformativo» (anche grazie all’«urbanistica contrattata», da sempre avversata da Cederna).
Addomesticare il capitale, dunque. Cederna, di formazione borghese e illuminista, non si schierò mai contro il capitalismo in sé, né mise mai in discussione la proprietà privata. Era però convinto che la proprietà privata di un bene pubblico quale il territorio, che porta benefici a tutti, non potesse consentire un uso a beneficio esclusivo del proprietario. La salvaguardia dell’interesse generale doveva prevalere su ogni valutazione di profitto privato: un principio di democrazia, incompatibile con la contrattazione che sposta l’iniziativa in mano alla proprietà, e perseguibile solo attraverso gli strumenti della pianificazione e dello stato di diritto.
Altro che ingenuità: sapeva di vivere in questo paese, l’Italia dei poteri selvaggi e di un capitalismo in gran parte parassitario e semifeudale. L’Italia che – come ha ben sintetizzato Vezio De Lucia – ostacolò in ogni modo le riforme urbanistiche del ministro Fiorentino Sullo scatenando un assalto al territorio mai visto prima e depotenziò quelle del ministro Mancini, e in cui si udì un «balenar di sciabole» golpista ogni volta che si profilò all’orizzonte una svolta sfavorevole alle grandi immobiliari. Cederna visse l’Italia degli arcana imperii, della strategia della tensione, del Piano Solo, della P2, della pax mafiosa, e fece in tempo ad assistere all’ascesa politica di Craxi e Berlusconi e ai condoni edilizi dei rispettivi governi. Davanti a un sistema di fatto improntato alla difesa della rendita e delle cricche politico-economiche, più che addomesticare il capitale c’era da non farsi addomesticare. Antonio Cederna, insomma, è stato prima di tutto un grande difensore della democrazia, strenuo sostenitore di uno spazio pubblico sottratto a logiche di profitto e agli istinti vandalici del capitalismo.
Oggi, mentre prosegue l’eterna anomalia italiana, la crisi del capitalismo globale ha moltiplicato questi suoi istinti vandalici. Lo illustra magistralmente Piero Bevilacqua in Il grande saccheggio, un libro di qualche anno fa che ha il raro pregio di saper osservare il nostro tempo in una prospettiva storica. Bevilacqua dimostra che il capitalismo è entrato «in un’epoca di distruttività radicale: dissolve le strutture della società, decompone lo Stato, cannibalizza gli strumenti della rappresentanza politica e della democrazia, desertifica il senso della vita; va divorando, sino al limite del collasso, le risorse naturali sul cui sfruttamento ha fondato i propri trionfi economici» (p. IX).
Con buona pace dell’architetto Desideri, la vera ingenuità – oggi ancor più di quando scriveva Cederna – è credere di poter indirizzare e governare il grande capitale scendendovi a patti, mentre da anni è quest’ultimo a addomesticare la democrazia piegandola ai suoi fini privati, ponendo vincoli all’azione pubblica e svuotando la politica di efficacia.
Il cosiddetto libero mercato ha divorato l’interesse generale. Questa conquista di civiltà politica dell’Occidente si è dissolta nel libero e caotico perseguimento degli interessi particolari da parte degli individui. Com’era prevedibile, nessuna armonia celeste ha ricomposto lo scatenamento privato degli interessi in un superiore stadio di avanzamento collettivo. Il cuore del potere politico che nella seconda metà del Novecento si era assunto il compito di rappresentare l’interesse generale è stato assediato e occupato.
[…] I grandi poteri privati assediano il potere pubblico piegandolo a servire i loro sparsi e disordinati interessi. Si è realizzata una rifeudalizzazione dello spazio pubblico, come se la storia dell’Occidente fosse tornata indietro di quattro secoli. (p. 32)
Si può concordare o meno con le conclusioni di Bevilacqua, il quale, sulla scorta della teoria marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto, ritiene che il capitalismo sia giunto a una sconfitta storica e che sia vano attendersi una ripresa dalla crisi («Godot non arriverà»). Ma è certo che negli ultimi trent’anni il pensiero economico, sorreggendo di fatto lo strapotere del capitalismo finanziario globale, ha «distaccato l’economia dalla società, si è trasformato in una tecnologia della crescita senza fedi e senza progetti, un dispositivo neutro libero ormai da ogni contesto» (p. 22). Il risultato è la privatizzazione della politica, il trionfo dell’interesse privato sull’interesse pubblico.
Per Bevilacqua,
Viviamo in una delle più paradossali società che la storia umana abbia mai edificato nel suo lungo cammino. Una ricchezza straripante che dilaga dappertutto e la condanna alla marginalità degli uomini e delle donne che la producono. Oceani di beni che dilagano intorno a noi, ma che non servono a darci tempo di vita, non ci liberano dalla precarietà, ci gettano nell’insicurezza, ci spingono a un lavoro crescente, a rapporti umani definitivamente mercificati e privi di senso. Una potenza tecnologica senza precedenti, che non ci libera dalle fatiche quotidiane, ma che ormai si erge come una potenza che minaccia il mondo vivente. (p. 183)
La strada del consumo si è definitivamente separata dalla strada del benessere, e in parallelo si consuma il divorzio tra la politica democratica e un potere che ormai viene esercitato al di fuori delle istituzione. È come se le storiche anomalie semifeudali del sistema italiano si manifestassero in tutto l’Occidente. Con un ulteriore paradosso, nel nostro paese, che è quello da cui siamo partiti: l’impegno civico in difesa della bellezza italiana e del territorio come bene pubblico si è fatto massa critica, ma una democrazia azzoppata lo recepisce solo sotto forma di slogan vuoti. A maggior consapevolezza corrisponde maggiore impotenza. E alla crescente e inesorabile impermeabilizzazione del suolo, causa di continui e spesso drammatici disastri idrogeologici (quelle che Cederna chiamò «alluvioni programmate») corrisponde una pari impermeabilizzazione delle classi cosiddette dirigenti alla richiesta di un modello di sviluppo alternativo.
Mentre gli investimenti pubblici per la tutela del paesaggio, la riqualificazione urbana, la preservazione degli equilibri ecologici e il risanamento fisico del territorio, di cui c’è disperato bisogno, vengono costantemente rinviati, si continua a promuovere il modello delle grandi opere, dell’alta velocità e delle mega-autostrade, dei «grandi eventi» con cui derogare alla normativa ordinaria. Creano lavoro, si dice. Ma le grandi opere sono ad alta intensità di capitale, mentre le piccole ad alta intensità di lavoro: queste ultime, a parità di investimento, produrrebbero ricadute estremamente più positive sull’occupazione, e in un’ottica keynesiana sulla domanda aggregata. L’utilità delle grandi opere, finanziate tramite il perverso meccanismo del project financing, che finisce per favorire le grandi imprese appaltatrici e le banche grazie alla garanzia dello Stato, appare del tutto sproporzionata (quando non del tutto fittizia) rispetto ai suoi enormi costi. Eppure non vi si rinuncia, nemmeno in epoca di austerity: troppo forti gli appetiti dei grandi capitalisti, troppo forti i legami coltivati nel «laboratorio segreto in cui», come ci ricorda Braudel, «il possessore di denaro incontra quello del potere politico». C’è una tendenza naturale del capitalismo a porsi al riparo dal rischio d’impresa, dalla concorrenza che per sua natura erode i margini di profitto: è nel campo politico che si determina l’esito di questa ricerca ossessiva della rendita. Se la politica è forte e democratica, può fungere da contrappeso grazie alla sua capacità di indirizzo e di legiferare in nome dell’interesse generale. Se è forte ma non democratica, oppure debole e subalterna, diviene il garante della rendita, il regista dei grandi interessi privati – come è sempre accaduto in Italia e come sempre più accade nel mondo.
Come riappropriarsi della democrazia? Negli ultimi anni diversi pensatori hanno ribadito la centralità del territorio come ambito in cui ricreare spazi pubblici sottratti alla distruttività del capitale. Che la dimensione privilegiata sia quella urbana – dalle «città delle reti» di Manuel Castells alle «città ribelli» di David Harvey, fino ai sindaci a cui «far governare il mondo» di Benjamin Barber -, oppure, come sostiene anche Bevilacqua, le aree interne e i borghi abbandonati, è nella politica locale che può nascere la resistenza al «grande saccheggio», e insieme la proposta di un’alternativa. Se si crede che non debba essere soltanto un ripiego sul territorio, ma anche una riprogettazione del territorio – la rivendicazione dei luoghi, della città e del paesaggio come beni comuni da gestire e rimodellare secondo l’interesse generale – non dovrebbe sfuggire l’attualità di Antonio Cederna. La sua intera biografia dimostra che nel lungo periodo i «no», se non una nuova realtà, possono almeno costruire una nuova mentalità.

  • Antonio Cederna, I vandali in casa, a cura di Francesco Erbani, Laterza, Roma-Bari 2006 (ed. or. 1956).
  • Piero Bevilacqua, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Laterza, Roma-Bari 2010.


Questo articolo è stato pubblicato sul FattoQuotidiano.it il 6 giugno 2017

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