di Luca Mozzachiodi
Si è spento il 2 febbraio a Zagabria Predrag Matvejević, lo scrittore jugoslavo ed europeo, difficilmente avrebbe accettato di buon grado altre denominazioni, che ci aveva abituati a uno stile intellettuale inimitabile fatto di lucidità nell’analisi e passione nel ripensare costantemente i concetti di socialismo, identità, cultura, frontiera e nazione, libertà a contatto con la storia.
Tra i suoi libri il maggiore, certamente il più noto, è il breviario poetico Mediterraneo, edito in Italia da Garzanti che fa degnamente il paio con Danubio dell’amico Magris e che ha rappresentato il modello di una nuova conoscenza da contrapporre allo scientismo che ubriaca quelle che una volta si sarebbero dette le scienze dell’uomo.
In quelle pagine il ritratto di un’intera area della civiltà, antica quanto gli stessi concetti di città e di commercio, viene tratteggiato mescolando analisi sul campo, antropologia, archeologia, storia, sociologia ma anche filosofia, memoria personale e, appunto, poesia; l’esempio che ne abbiamo potuto cavare è la spinta a una storia letta come viva nel paesaggio in torno a noi, l’esortazione, così tanto politica al fondo, a pretendere, dalle istituzioni e dai governi non meno che da noi stessi, di vivere in un mondo a quattro dimensioni, non nell’eterno presente della fine della storia e delle ideologie.
La secolare comunanza antropologica e culturale che ci lega al Maghreb e al Medio Oriente molto più che alla Germania o agli Stati Uniti avrebbe dovuto essere ricordata al momento di levare almeno una voce, se non altro, in sostegno del popolo greco e di quello cipriota, dovrebbe a maggior ragione esserlo ora che ci disponiamo a stanziare sostanziosi finanziamenti a libici (come già prima s’era fatto con i turchi) perché diventino i gendarmi delle nostre piazze facendosi nemici del loro stesso popolo e di molti altri che migrano, di cui per inciso, anche noi siamo nemici.
Triste dunque vedere come, e io stesso l’ho sentito dire da dotti politologi, si pensa che l’Italia debba “assumersi le sue responsabilità di potenza regionale” nel Mediterraneo, parole che rimandano ad altre, ugualmente ambigue, tatticistiche e cripto imperialiste, strategie politiche vecchie di decenni. La mediocrità che abita molta parte (ma una parte) della storia politica italiana è anche nell’incapacità di non essere intriganti, di voler fare i propri interessi ma sempre conservando i vecchi adagio di “Italiani brava gente” e “Armata Sagapò”.
Al lettore italiano i libri di Matvejević parlano anche di questo e sono, aspetto non trascurabile, lo specchio in cui i nati su questo mare ritrovano loro stessi e, nel bene e nel male, radici che affondano in loro anche quando divengano poi gente di pianura. Non bisogna però dimenticare che il grande breviario (e l’utilizzo di un termine liturgico religioso non è casuale) fu concepito sull’isola di Korčula dove si teneva un annuale seminario-ritiro, che coinvolgeva, nella più libera e intellettualmente dinamica Jugoslavia, i migliori pensatori socialisti e comunisti d’Europa, dagli allievi di Sartre a quelli della scuola di Belgrado, da Agnes Heller a Ernst Mandel e che dello stesso socialismo umanistico Matvejević fu esponente e strenuo difensore.
Documento di queste sue battaglie e di questa vivacità culturale è l’Epistolario dell’altra Europa, libro straordinario in cui sono raccolte le sue lettere aperte in favore di molti intellettuali. Altra Europa, prima di essere il bizzarro nome sotto cui si svolgono alterne fortune politiche in base alla quotazione degli oppressi sul mercato azionario dell’elettorato, era il nome di tutta quella Europa (che, diciamolo subito, era Europa anche prima e indipendentemente dall’Unione e lo sarà sempre) dove governavano le Democrazie Popolari, di quella grande macchia bianca che è rimasta tale nei nostri atlanti mentali e pascolo di Cavalieri Teutonici in cerca di gloria, pope ed ebrei col violino o poco altro sui libri di storia delle nostre scuole.
Anche di questa ci parla Matvejević, con un ritratto eroico e profondo fatto di parole spese in difesa di intellettuali e della loro libertà di pensiero: tra i corrispondenti, giusto per fare qualche nome, troviamo Okudžava, Havel, Brodskij, Kundera. Per le sue posizioni nel dibattito sul socialismo fu espulso dalla Lega dei Comunisti Jugoslavi, ma ciò che rappresenta la lezione maggiore è che anche dopo questo evento le sue lettere aperte a Brežnev a Tito, ai vari comitati di partito, sono sempre lettere a e non lettere contro, sono sempre lettere per il socialismo e mai lettere di un ex o post socialista o comunista; con vera grana di intellettuale e politico non ha mai identificato un’idea e un fine con un singolo stato, meno che mai con una singola figura. Oggi non siamo più capaci di farlo neanche per molto meno di un’intera idea del mondo e della storia.
Con questo libro, ci si passi l’immagine, si sarebbe tentati di voler picchiare sulle dita gli studenti che oggi scoprono l’acqua calda dell’europeismo, che è la versione capitalista e asservita di quello che noi chiamiamo internazionalismo comunista, ma soprattutto di battere sulla testa di quanti, non più studenti, erano ben vivi nelle date in cui quelle lettere venivano spedite e l’Altra Europa cercava una strada verso un più di socialismo contro il socialismo repressivo che non ne rappresentava, come tanti credono o hanno creduto, l’esito compiuto ma il regresso. Almeno, si spera, si volterebbero a guardare l’oggetto da cui proviene il colpo.
Già perché di quel Mondo Ex di cui questo maestro di storia e di militanza intellettuale ci ha parlato a pochi interessa ormai realmente sapere qualcosa, basta consolarsi con l’idea che sia l’Epoca Rossa del Medioevo; eppure è grazie ai suoi libri sulle guerre nei Balcani, che visse con strazio da testimone partecipe e lucido analista, che possiamo realmente comprendere quegli eventi senza bere noi stessi gli intrugli ideologici a base etnico religiosa che i vari capi e governanti hanno spietatamente fatto ingoiare ai popoli da condurre al macello come vittime o carnefici, grazie a quei libri e a quelle testimonianze possiamo non abbandonarci in nessun senso al mito, non voler mai trovare la parte giusta della storia in cui s’acquieta la buona coscienza.
Era certamente uno scrittore dimenticato, perché parlava di cose e di luoghi che si preferisce dimenticare e non vinse il premio Nobel, gli mancavano la chitarra e la sbruffonaggine, additava invece qualche risposta, a suo rischio e pericolo, piuttosto che favoleggiarla nel vento. Oggi un autore così non ha vita facile (fu anche denunciato dal governo croato per le sue dichiarazioni) come mai la ebbe; ma del resto occorre chiederci quale autore sarebbe disposto a indirizzare lettere o parole tali a capi di stato e di governo (ma in proporzione giù giù fino al minimo assessore di provincia) e a farlo senza boria o smania di riflettori? Forse nessuno, ora che tanta parte della statura di un intellettuale pare data dalla notorietà e dalla spettacolarità, o tutti, ove fossero certi di non correre il minimo rischio personale e di ricavarne un congruo prestigio misurabile in like (che sono oggi la moneta visibile del mercato invisibile dei beni simbolici).
Piangiamo dunque un socialista e un maestro, lo piangiamo soprattutto ora che tante delle sue analisi paiono essersi mutate in sinistre e forse non immaginate profezie: sobbalzai qualche tempo fa al sentire un giornalista televisivo parlare di democratura per la leadership dell’ungherese Orbán. Non penso e non credo (ma lo spero vivamente come tutti speriamo in un mondo un po’ meno sciocco e un po’ più preparato ad affrontare le catastrofi) si sia andato a leggere le pagine di Mondo ex e tempo del dopo in cui questo termine è utilizzato per la prima volta proprio a definire le forme di potere e di articolazioni della politica stabilitisi ovunque dopo la caduta dei governi socialisti (altro che libertà e pluralismo!) e in effetti le forme di dittatura costituzionale e le conseguenti costituzioni dittatoriali che vediamo realizzate o prossime o vagheggiate nella vita politica di metà del mondo.
il culto del comando, le riforme come fine, la decisione e la rapidità nell’azione, l’elezione ridotta (sì ho scritto ridotta) a investitura divina, il governo a colpi di decreto con sprezzo delle opposizioni, i mti della sovranità sono le forme della politica democratica contemporanea; insieme a Orbán la lista sarebbe lunga e troppo ripetuta dai media di massa per volerla realmente fare ma non conosce confine di continente né di parte politica.
Aveva dunque ragione Matvejević a dire che non si sarebbe trattato di “europeizzare” (e quanti morti e quanti ridotti a miseria con questo verbo) l’Altra Europa ma che essa avrebbe prodotto le condizioni che presto sarebbero state di tutta l’Europa e, per noi ora, non solo. Dobbiamo dunque preparaci perché quegli spettri che lo scrittore europeo ha additato tra le pieghe di tante pagine che potrebbero sembrare oggi memorialistica scaduta sono invece la forma presente e di carne dei nostri nemici.
Non è più. Certamente il suo fantasma non sorgerà a perseguitare la memoria e l’intelligenza di chi lo ha ignorato o ha deriso il mondo che lo produsse, ma i fantasmi che perseguitavano lui continuano e continueranno a perseguitare noi tutti e a chiedere, nell’odissea del socialismo da rifare, sangue di vittime.
Chiudo con un passaggio da una sua lettera a Siniavskij come dovuto omaggio personale anche a un grande scrittore, uno dei pochissimi viventi a meritare davvero il nome di maestro, perché uno dei pochi ad avere davvero qualcosa da insegnare, un’eredità che speriamo (e spero) di aver raccolto.
«I regimi totalitari sono stati abbattuti e noi restiamo tuttavia assediati dal totalitarismo.
Crediamo di conquistare il presente ma non siamo capaci di controllare il passato.
Vediamo nascere la libertà, ma non sappiamo che farcene o rischiamo di abusarne.
Abbiamo denunciato la storia, ma continuiamo ad essere invasi da essa.
Vorremmo condannare gli utopismi mentre i migliori tra noi hanno ancora nostalgia di un’utopia che ci salvi.
Abbiamo difeso un’eredità nazionale, adesso dovremmo difenderci da quello che ne rimane.
Abbiamo voluto “salvare la memoria” e la memoria finisce per punirci.
La spartizione si impone, ma non c’è più niente da spartire.
Constatiamo tutti i giorni che “le cose vanno male” eppure le cose continuano ugualmente ad andare.
Fondavamo le nostre speranze sulla cultura e la cultura si è rivelata un rimedio penoso.
Infine ci auguravamo di uscire dalla miseria e la miseria continua ad accompagnarci come un’ombra.
Molti di noi avevano fede cieca in un’Europa di cui i più grandi spiriti Europei non hanno mai smesso di dubitare.
Così il nostro orizzonte si disegna con tratti spezzati e tinte fosche. Esagero appena. Mancanza di idee forza e punti di riferimento affidabili, carenza di valori verificati o di esempi probanti, fallimento dell’ideologia e diffidenza verso la politica. Perdita o stravolgimento della fede. Incertezza e smarrimento.
Noi siamo, forse, eredi senza eredità?»
Addio, e grazie, compagno Matvejević.