di Donata Meneghelli
Proseguendo nel discorso sulla crisi della cultura, di pari passo a quanto scritto, è emersa l’ideologia secondo la quale il solo sapere che ha valore è quello immediatamente monetizzabile, quello che produce profitto, e che lo produce subito, domani, anzi oggi. E allora, via ai tirocini, agli stage, naturalmente non pagati; è di pochi giorni fa la notizia che l’Università di Bologna apre una propria agenzia interinale per favorire il job placement. Via alla “valutazione della ricerca”, che quantifica la produzione culturale, la giudica in termini di rendimento e la controlla.
Via alla riduzione dei saperi a nozioni strumentali, a “competenze” spendibili sul mercato, mercato che comunque vuole pagarle il meno possibile. Via, soprattutto, all’idea che sono le aziende che devono dettare l’agenda all’università e alla ricerca, con conseguenze devastanti in tutti i campi della conoscenza: dalla pretesa inutilità degli studi umanistici, talvolta recuperati in dosi omeopatiche ma in chiave esclusivamente archeologica, alla liquidazione della ricerca scientifica di base; i primi, come la seconda, accusati di non “rendere”.
La crisi è ovviamente la grande arma impropria di cui tutti si servono per sostenere questa visione del sapere. Non ci sono soldi, c’è la disoccupazione, bisogna far quadrare i bilanci, bisogna – ribadisco – contrarre la spesa pubblica. Insomma, tutta la retorica del “ce lo chiede l’Europa”, che finge di ignorare il significato di parole come sperequazione, speculazione, spese militari, costi della politica, grandi eventi, Expo: una retorica in cui il profitto è diventato innocente (vogliono farci credere che coincida con la “crescita”); e in cui le vite delle persone sono diventate poco più che danni collaterali.
Ora, e qui sta il nesso che rettori, prorettori, presidenti di scuola non sembrano cogliere, le occupazioni rispondono anche alla “applicazione delle nuove leggi” e a tutto ciò che quelle leggi significano; alla riduzione dei saperi a crediti ben computabili, alla subordinazione della conoscenza alle sole esigenze di bilancio. Mettono in discussione l’egemonia di simili concezioni, esprimendo altri bisogni, proponendo altri modelli. E lo fanno rivendicando insieme il sapere, la cultura, il territorio, svelando “la natura squisitamente classista delle politiche degli ultimi decenni” e “i meccanismi di accumulazione proprietaria ed esclusione che legano strutturalmente questi mondi” [1]; opponendosi alla svendita generalizzata del patrimonio pubblico nel senso più ampio del termine (non solo patrimonio immobiliare ma patrimonio di diritti, di servizi, di opportunità…).
Temo che il collega Nicoletti e l’assessore alla cultura Ronchi mi classificheranno tra i potenziali terroristi, ma guardo alle occupazioni come esperienze preziosissime di resistenza culturale e politica, che del resto travalicano ampiamente la realtà bolognese, estendendosi dalla Milano di MACAO fino alla Napoli dell’ex Asilo Filangieri, dalla Roma dell’Angelo Mai e del Teatro Valle fino a Wall Street. Si tratta di esperienze legate a macro-eventi epocali e collettivi, ai processi di precarizzazione e a una logica di appropriazione dei beni comuni che regna sovrana da molti anni. Pratiche frastagliate, diversificate, ma al tempo stesso di massa. Presentarle come fenomeni minoritari o residuali è un’altra delle tante mistificazioni correnti. Come lo è l’appello alle “regole” e alla “legalità” che a quelle pratiche si tenta di contrapporre, e che costituisce forse la mistificazione più grande, tanto più in Italia.
In un paese come il nostro, dove la classe politica viola sistematicamente le leggi da decenni, si ha sempre buon gioco a brandire la parola “legalità”, facendone il fulcro di una demagogia a buon mercato dove falsificare un verbale o riciclare denaro sporco in investimenti immobiliari vengono messi sullo stesso piano del non pagare il biglietto in autobus. Ma al di là di questo, è importante sottolineare che la legalità non è un valore assoluto: dipende dalla legge. In altre parole, non tutto ciò che è legale è giusto e non tutto ciò che è giusto è legale (o legalizzato). Non c’è bisogno di tirare in ballo la resistenza al fascismo, le leggi razziali, solerti funzionari come Eichmann o i macchinisti che guidavano i treni verso Auschwitz.
Per sgombrare il campo dalle solite obiezioni, parliamo di ciò che accade in tempo di pace, in situazioni “normali”. Se migliaia di lavoratori non avessero scioperato illegalmente, mettendo in gioco la propria incolumità e la propria stessa vita, oggi non esisterebbe il diritto di sciopero legalmente sancito (ancora per poco, c’è da temere). Se il 18 novembre 1910 (noto sotto il nome di “Black Friday”) le suffragette non si fossero schierate illegalmente davanti al parlamento britannico, facendosi picchiare e arrestare dalla polizia, quando le donne avrebbero cominciato a votare? Alle leggi si può – anzi a volte si deve – dire di no. Le leggi si possono – anzi a volte si devono – cambiare. E le leggi si cambiano anche, o forse soprattutto, attraverso l’azione politica, attraverso il conflitto sociale. Le classi dirigenti non regalano mai niente a nessuno.
La contraddizione tra legalità e giustizia, del resto, è da qualche anno al centro di un dibattito che coinvolge alcuni dei maggiori giuristi italiani, primo fra tutti Stefano Rodotà, insieme a moltissime realtà autogestite, e che cerca di ripensare dalle fondamenta il diritto, i suoi limiti, le sue frontiere, proprio in nome dell’irriducibilità del mondo alla logica del profitto, spostando l’asse da ciò che è illegale a ciò che è legittimo, giusto, necessario, desiderato [2]; per non parlare del divario, oggi sempre più profondo, tra apparato legislativo e Carta Costituzionale. A prescindere da ciò che ciascuno può pensarne, si tratta di un dibattito che solo i vertici dell’Università di Bologna sembrano ignorare, continuando a invocare il grande feticcio, “le regole”. In nome della condivisione dei saperi, mi offro di fornire loro una bibliografia per cominciare a orientarsi: selettiva, certamente, poiché capisco che sono molto impegnati, l'”applicazione delle nuove leggi” – si sa – prende tempo ed energie.
Per tornare ancora alle occupazioni, esse sfidano – scrive un altro giurista, Ugo Mattei – “anche fisicamente l’accumulo fine a se stesso e lo spreco sociale” [3]. Esprimono, in tutta la loro urgenza, i complessi rapporti tra la sfera culturale e gli assetti urbani (centro-periferia, emarginazione-privilegio…). Sono la rivendicazione di spazi – al tempo stesso reali e simbolici – non messi a profitto, per la produzione e la circolazione di saperi non monetizzabili e non monetizzati, svincolati dalla strumentalità nei confronti del mercato e sottratti alla logica falsamente imparziale della tecnocrazia. “Conoscenze situate”, per riprendere la locuzione coniata più di vent’anni fa dalla teorica femminista Donna Haraway, che si radicano in una contingenza storica, che partono dai corpi che le producono; che fanno delle condizioni materiali in cui l’atto conoscitivo avviene un punto di osservazione non neutrale e dunque un principio di responsabilità [4]. Saperi, insomma, non formattati, non costretti dentro tempi e spazi precostituiti, autoritari, imposti; saperi critici e conflittuali nei confronti del potere.
E questo al potere non piace. A ben vedere, con la legge 240, si prendono due piccioni con una fava: non solo si risparmia (ossia si sottraggono beni e risorse alla comunità e ai cittadini), ma si cerca anche di mettere a tacere la consapevolezza critica, l’autonomia, il potenziale di sovversione e di conflitto che la conoscenza è in grado di liberare. La produzione culturale autonoma è un elemento di disturbo, come le occupazioni sono una questione di ordine pubblico. E allora, che i giovani vadano alle Roveri, a fare – gratuitamente, s’intende! – un po’ di riqualificazione urbana delle periferie! Cosa che invece è in prima istanza compito dell’amministrazione comunale, attraverso l’implementazione di politiche specifiche e soprattutto l’investimento di risorse.
Come Docenti Preoccupati, siamo nati in opposizione alla legge 240 e poi al nuovo statuto dell’Ateneo di Bologna, e all’idea di università che essi incarnano, cercando una convergenza, una trasversalità con le diverse componenti dell’università: non solo docenti ma studenti, precari, tecnici amministrativi. Ed è anche per questo che abbiamo sempre sostenuto l’esperienza del collettivo Bartleby: in quell’esperienza, infatti, abbiamo ritrovato la possibilità di praticare altri modi di vivere, di studiare, di pensare, contro i diktat aziendalistici, e anche contro le dinamiche verticali che da sempre caratterizzano l’università: una dimensione in cui la “didattica” si trasforma in sperimentazione, in autoformazione, in elaborazione e circolazione orizzontale, capace inoltre di uscire dal circolo autoreferenziale dell’accademia, per agire nel mondo e sul mondo, per aprirsi alla città.
Vengo all’ultimo punto del mio intervento. Non starò a ricordare, per l’ennesima volta, una delle contraddizioni di fondo che da sempre caratterizzano il rapporto tra città e ateneo: ossia il fatto che Bologna porta in palmo di mano l’Alma Mater (senza l’università sarebbe già diventata più o meno come San Giovanni in Persiceto), ma continua a considerare gli studenti solo come un esercito di manodopera intellettuale a bassissimo costo, quando non a costo zero, e-o come il perno intorno a cui far ruotare un utile indotto, spesso in nero (a proposito di legalità). Non sono mai state avviate serie politiche sui costi degli alloggi, sull’incremento e il miglioramento degli studentati, sui costi dei trasporti, sul caro vita. Apprendo con gioia che in questi giorni se n’è accorto persino il Rettore: meglio tardi che mai.
Qui voglio sottolineare un altro aspetto. A un’università tecnocratica, a conoscenze sempre più svuotate di senso e di vita, corrisponde una città che sarebbe culturalmente e socialmente in stato di avanzata agonia se non fosse per le realtà autogestite. Una città in cui si aprono zone sempre più ampie di esclusione. Una città in cui il centro sta diventando una teoria di banche, di grandi catene commerciali (Zara, H&M…). Una città in cui ci sono migliaia di edifici inutilizzati, lasciati all’abbandono, destinati alla speculazione o comunque alla logica del profitto come solo orizzonte possibile. Una città in cui prevale in maniera sempre più netta un modello rigidamente top-down, una politica dei “grandi eventi” (che poi a Bologna non sono nemmeno tanto grandi), dove spesso viene impiegata proprio quella manodopera intellettuale a bassissimo costo di cui parlavo prima, operando una “sistematica spoliazione” delle sue energie, del suo lavoro, delle sue capacità a vantaggio di una ristretta élite [5].
Alla luce di tutto quanto detto finora, è urgentissimo ricostruire una dialettica autentica tra istituzioni e movimenti che non rimuova o criminalizzi il conflitto, come è urgentissimo che gli intrecci tra università e territorio non si limitino a spin off e start up, ma si misurino con le persone e con i loro bisogni, materiali e immateriali.
Questo testo costituisce una rielaborazione dell’intervento da me presentato al dibattito “La produzione culturale a Bologna”, organizzato dal Circolo il manifesto di Bologna l’11 aprile 2013 e coordinato da Leonardo Tancredi, a cui hanno partecipato il collettivo Bartleby, il prorettore dell’Ateneo di Bologna Roberto Nicoletti, l’assessore alla cultura del Comune di Bologna Alberto Ronchi, Wu Ming 4. Molte delle questioni qui affrontate sono emerse da una discussione tra i Docenti Preoccupati in preparazione dell’iniziativa, in particolare con Raffaella Baldelli Sergio Brasini, Francesca Coin, Monica Dall’Asta, Maurizio Matteuzzi, Giorgio Tassinari. Ringraziamo Sergio Caserta, del Circolo il manifesto, per la tenacia con cui ha voluto realizzare questo momento di confronto.
Note
[1] Lucia Tozzi, MACAO! Occupy Torre Galfa, in “Alfabeta 2”, 8 maggio 2012, http://www.alfabeta2.it/2012/05/08/macao-occupy-torre-galfa/.
[2] In questa direzione andava già la “Commissione sui Beni Pubblici”, istituita nel 2007 per riformare il libro III del Codice Civile e presieduta da Rodotà. Il progetto viene adesso rilanciato fuori dalle aule parlamentari come “Costituente dei beni comuni” ripartendo – guarda un po’ – proprio dal Teatro Valle e configurando un organismo itinerante, che avrà sede di volta in volta in spazi (illegalmente) occupati e autogestiti. Cfr. Roberto Ciccarelli, Stefano Rodotà battezza la Costituente dei beni comuni, “il manifesto”, 14 aprile 2013.
[3] Ugo Mattei, La proprietà privata e i beni comuni, in “il manifesto”, 26 gennaio 2013.
[4] Cfr. Donna Haraway, Situated Knowledges: The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective, in “Feminist Studies”, 3, autunno 1988, pp. 575-599.
[5] Riprendo qui ancora l’articolo molto incisivo di Lucia Tozzi MACAO! Occupy Torre Galfa, cit. Ringrazio Lucia anche per i numerosi spunti che mi ha offerto in una lunga conversazione,