di Annalisa Camilli
Il 27 gennaio il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, da pochi giorni arrivato alla Casa Bianca, ha firmato un ordine esecutivo con cui ha sospeso per tre mesi l’ingresso negli Stati Uniti di cittadini provenienti da sette paesi, anche se in possesso di permessi di soggiorno e di visti d’ingresso regolari e ha sospeso per quattro mesi il programma di ricollocamento dei profughi.
Trump ha giustificato la decisione dicendo che “serve a salvaguardare gli americani dagli attacchi terroristici da parte di cittadini di origine straniera”. La risoluzione, che ha portato all’arresto di centinaia di persone negli aeroporti statunitensi, ha scatenato proteste negli Stati Uniti e in tutto il mondo.
L’ordine esecutivo firmato da Trump è senza dubbio illegale e nella peggiore delle ipotesi incostituzionale e c’è da aspettarsi che non avrà lunga vita, anche grazie al lavoro di tanti avvocati e associazioni che si sono mobilitati per denunciarne l’illegittimità. Sedici procuratori generali hanno annunciato che indagheranno sulla costituzionalità del decreto. Tuttavia gli effetti della violenza e dell’arbitrarietà del cosiddetto Muslim ban, il divieto di entrare negli Stati Uniti per i cittadini di sette paesi musulmani, dureranno a lungo e rafforzeranno le discriminazioni e i pregiudizi sui profughi e sui migranti in tutto il mondo.
Da tempo si moltiplicano le aggressioni, le discriminazioni e le violenze contro i migranti e i profughi per motivi razziali in ogni parte del mondo. Poche ore dopo l’approvazione dell’ordine esecutivo e dopo che il premier canadese Justin Trudeau aveva detto di voler accogliere i profughi siriani respinti da Washington, in Canada una persona è entrata in un centro culturale islamico a Québec e ha aperto il fuoco contro i fedeli raccolti in preghiera, uccidendone sei.
L’equazione secondo cui tutti i musulmani sono terroristi e tutti i migranti e i profughi sono un potenziale pericolo per le nostre società, oltre a essere xenofoba e quindi antisociale, è falsa. Diversi quotidiani statunitensi hanno mostrato che la maggior parte degli attentati compiuti negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 è stata messa in atto da cittadini statunitensi e che nessun cittadino delle sette nazionalità a cui è stato vietato l’ingresso negli Stati Uniti ha compiuto attentati nel paese.
L’Europa è un’alternativa?
Tutti i leader politici europei hanno condannato l’ordine esecutivo di Donald Trump. La cancelliera Angela Merkel in una telefonata al presidente degli Stati Uniti ha addirittura spiegato quali sono gli obblighi della convenzione di Ginevra sui rifugiati. “Tutti i firmatari della convenzione di Ginevra devono accogliere i profughi sulla base di princìpi umanitari”, ha detto Merkel a Trump. “La lotta al terrorismo non giustifica i pregiudizi verso persone di una determinata origine”. Il presidente del consiglio italiano Paolo Gentiloni ha scritto su Twitter: “L’Italia è ancorata ai propri valori. Società aperta, identità plurale, nessuna discriminazione. Sono i pilastri dell’Europa”.
Segnali incoraggianti che farebbero pensare alla volontà dei leader europei di rappresentare un’alternativa morale e politica alla chiusura delle frontiere voluta dalla nuova amministrazione statunitense. Tuttavia le notizie che emergono alla vigilia del vertice europeo che comincerà a Malta il 3 febbraio fanno pensare che, nonostante le condanne, nei prossimi anni la politica europea sull’immigrazione sarà orientata ai rimpatri e all’esternalizzazione delle frontiere (stipulare accordi con paesi non europei, ma confinanti con l’Europa, per mettere in atto dei blocchi ai confini), invece che all’integrazione e all’apertura di canali legali di viaggio per i migranti e i profughi.
Il 25 gennaio il presidente della Commissione europea Jean-Claude Junker, insieme al commissario all’interno e all’immigrazione Dimitri Avramopoulos e alla rappresentante per la politica estera dell’Unione europea Federica Mogherini, hanno anticipato il piano che sarà proposto dalla Commissione ai capi di stato e di governo nel vertice della Valletta. Il progetto presentato a fine gennaio sarà proprio il punto di partenza della discussione.
La priorità dell’Unione europea è chiudere la rotta del Mediterraneo centrale che dalla Libia permette a migliaia di persone di arrivare in Europa via mare e affidare ai libici i respingimenti in mare per conto degli europei, pratica già condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo nel 2012, quando a operare i respingimenti in mare era stata l’Italia.
I quattro punti del piano
Per raggiungere questo obiettivo, l’azione di Bruxelles si concentrerà su quattro punti. Il primo è il finanziamento e l’addestramento della guardia costiera libica, già cominciato con l’operazione Sophia del dispositivo militare EunavforMed, a cui sarà affidato il compito di pattugliare le acque territoriali del paese nordafricano per fermare la partenza delle imbarcazioni dei migranti e, di fatto, respingerle per conto degli europei.
Il secondo è il finanziamento dei centri di detenzione per migranti in Libia, a cui avranno accesso anche autorità internazionali, come l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) e l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim); il terzo punto è la chiusura della frontiera meridionale della Libia, quella con il Niger da cui passano la maggior parte dei migranti diretti in Europa.
Il quarto punto è il rafforzamento dei programmi di rimpatrio volontario che sono già operativi in Europa e che sarebbero estesi anche ai migranti che si trovano in Libia. I migranti saranno spinti con degli incentivi economici a tornare nei loro paesi d’origine, prima di intraprendere la traversata del Mediterraneo. In un documento informale del 17 gennaio, firmato dal premier maltese Joseph Muscat, a cui spetta la presidenza del semestre europeo, si parlava di una “line of protection”, un blocco navale costituito dalle unità della guardia costiera libica in collaborazione con la nuova guardia di frontiera europea.
Le autorità maltesi avrebbero voluto, inoltre, che l’Europa stipulasse un accordo con la Libia e con altri paesi nordafricani come Algeria ed Egitto simile a quello concluso da Bruxelles con Ankara nel marzo del 2016. Ma sia Mogherini sia Avramopoulos hanno escluso questa possibilità con la Libia perché il governo di unità nazionale guidato da Fayez al Sarraj non ha il controllo del paese e il contesto libico è ancora caotico e conflittuale. A ben guardare, infatti, è proprio l’instabilità della Libia a mettere in discussione l’intero progetto di Bruxelles, difficilmente realizzabile senza un partner locale stabile che abbia il pieno controllo del territorio.
Duecento milioni di euro è la cifra che dovrebbe essere stanziata per chiudere la rotta del Mediterraneo centrale, secondo quanto annunciato il 25 gennaio, fondi che si vanno ad aggiungere ai sei miliardi stanziati per l’accordo sui migranti stipulato con Ankara. Soldi investiti nella chiusura e nella militarizzazione delle frontiere, con le sue conseguenze: violenza, violazioni dei diritti umani e aumento dei migranti morti nel tentativo di attraversare il confine. Soldi che non saranno investiti nel progetto politico di un’Europa dei diritti: nella riforma del regolamento di Dublino sull’asilo, nell’accoglienza delle migliaia di profughi bloccati in Grecia e nei paesi balcanici; e nella protezione dei più vulnerabili come le vittime di tratta e i minori stranieri non accompagnati.
Questo articolo è stato pubblicato da Internazionale il 31 gennaio 2017