Di Neruda, del cinema e della poesia

29 Ottobre 2016 /

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di Luca Mozzachiodi
Da qualche tempo è uscito nelle sale cinematografiche italiane il film Neruda, del regista cileno Pablo Larraín che si era già distinto, con film come No – I giorni dell’arcobaleno, Toni Manero e Post Mortem, come regista impegnato a raccontare la travagliata storia politica del suo paese. Questa volta non è però il periodo della dittatura di Pinochet ad essere presentato, ma un momento preciso della vita del grande poeta cileno.
Siamo nel 1948 e González Videla, giunto al potere con una coalizione di sinistra comprendente anche radicali e comunisti mette al bando questi ultimi con la Legge di difesa permanente della democrazia. Pablo Neruda, senatore del Partito Comunista Cileno, promotore della campagna elettorale di Videla, lo accusa violentemente di tradimento in favore degli interessi dei grandi capitali esteri e contro i lavoratori cileni. Fin qui tutto chiaro e le prime scene del film potrebbero tranquillamente figurare in un documentario, ma la strada scelta da Larraín non è questa.
Il film infatti si concentra totalmente sulla fuga di Neruda, divenuto perseguitato politico, e sugli sforzi fatti per inseguirlo da un commissario di polizia che finisce irretito dal fascino del poeta. Prende così il via una sorta di seminoir-poliziesco, con appostamenti, indagini, interrogatori e travestimenti; un quasi morboso gioco mortale tra i due il cui vero tema di fondo è la natura della personalità e il rapporto tra creatore e opera d’arte nella vita.

Sotto questo aspetto i due avversarsi finiscono per assomigliarsi e sul finale del film le due voci diventano quasi indistinguibili, tanto la sceneggiatura e il montaggio si fanno poetici, tuttavia questo film così riuscito, che è anche una compiuta allegoria delle difficoltà affrontate dal regista per scovare tra le pieghe della storia il suo personaggio, si presenta agli occhi di uno spettatore non avvertito, cioé purtroppo della maggior parte degli spettatori, non privo di rischi.
Il film tace della partecipazione di Neruda alla guerra di Spagna, non dice nessuno dei nomi sui visti per il Cile forniti da Neruda come console agli esuli spagnoli dopo la guerra, non parla se non in maniera confusa della sua lotta in difesa dei minatori, così come niente riferisce del suo generoso e lungimirante passo indietro dalla candidatura presidenziale in favore di Allende. Il Neruda che ci viene presentato è un celebrato poeta dandy amante del lusso e delle donne, che aspira nemmeno troppo segretamente all’identità tra vita e opera d’arte e per cui la lotta politica e il popolo sono in fondo poco più che materia di ispirazione poetica da fondere nel mito.
Sembra di leggere in controluce le parole maligne di Borges, secondo cui Neruda servì molto poco il comunismo ma il comunismo servì molto a Neruda, sia per questioni di prestigio che per esigenze di poetica, trasformandolo da brillante poeta d’amore in una delle più grandi voci poetiche del Novecento, forse una delle poche con cui la poesia finisce per coincidere nell’immaginario collettivo.
Tutto ciò apre un doppio ordine di problemi: il primo legato alla rappresentazione di Neruda nel film, il secondo all’eterna diatriba del rapporto tra la personalità del poeta e la sua opera. Proprio perché Neruda coincide, anche nell’immaginario di chi non legge poesia, con la poesia ed è una figura di rilevanza mondiale, un film su Neruda oggi non può essere solo un bellissimo film cileno, ma deve essere un film mondiale e saremmo tentati di battere in maniera rassegnata una mano sulla spalla del pur bravo Larraín per ricordargli che oggi, nel 2016, esistono interi continenti fuori da quell’isola (come la definisce) chiamata Cile dove milioni di persone vivono ormai senza sapere nulla né di Neruda, né della Guerra di Spagna, o di Allende, o di Videla, o della United Fruit. Persone a cui il nome di Pinochet non dice nulla, e a cui il pensiero che i comunisti non vogliano lavorare e preferiscano bruciare le chiese potrebbe sembrare poi non così strano. Di fronte a queste persone chi sa è responsabile e se tace è forse anche un po’ complice o almeno sprovveduto, forse bisognerebbe nerudianamente spiegare alcune cose.
Guai a presentare un’ottica straniante (la voce narrante è spesso del poliziotto) senza che lo straniamento sia percebile! Quanta benzina si può gettare sul fuoco del pregiudizio, quanti stereotipi possono essere confermati! Non dico che il film avrebbe dovuto essere più didattico; dico piuttosto che Larraín avrebbe potuto tenere in maggior conto che davvero viviamo in tempi bui e che dobbiamo imparare di nuovo molte cose e che il cinema, in un mondo in cui molti non leggono più libri, finisce per avere una responsabilità ancora maggiore rispetto alla letteratura.
Tra i punti scoperti e critici che quest’opera presenta uno dei maggiori è proprio il ritratto del poeta, in realtà sottilmente antipopolare, che getta più di un’ombra sulla sua moralità. Le rappresentazioni di continue fantasie di festini e l’incapacità di sopportare privazioni sono probabilmente eccessive, ma il vero problema è che finiscono nella maggior parte dei casi per rinfocolare la vecchia e sterile equazione di poesia e sregolatezza da un lato e dall’altro di dare il destro a critiche piccolo borghesi di un moralismo spicciolo come “un vero comunista non può avere un’amante” e “Marx non ha mai lavorato” (purtroppo sono ricordi e non invenzioni). Invece noi sappiamo, o dovremmo sapere, che si può scrivere poesia anche senza essere esaltati e conducendo una vita ordinata e che i comunisti possono avere cento amanti come nessuna e ciò non li rende comunisti più o meno veri, semplicemente non ha nulla a che vedere con questo, quasi che invece i comunisti dovessero esser santi per essere legittimati; oggi si fa volentieri confusione tra i comunisti e i frati senza far bene a né agli uni né agli altri.
La decantata scena della proletaria che irrompe alla festa di partito chiedendo a Neruda se alla vittoria del comunismo saranno tutti uguali a lei o al senatore se da una parte può contenere il germe di una critica, facilona beninteso, alla mediazione degli intellettuali, dall’altra con quella sua sospensione del giudizio finisce per avvicinare ulteriormente all’atteggiamento dei nostri avversari, che di Somoza, altro nemico di Neruda, dissero “potrà essere un figlio di puttana ma resta il nostro figlio di puttana”. Noi non diremo che Neruda è l’infame ufficiale del partito e che un compagno infame è pur sempre un compagno, diremo piuttosto che presentarlo in questa logica è un’operazione rischiosa, se fatta a buon fine, faziosa se fatta per far apparire contraddizioni inesistenti. Per lo spettatore del 2016 va poi ricordato, quali che fossero i gusti di Pablo Neruda in termini di pietanze, abitazioni o cravatte, che non morì di overdose in un festino ma fu ucciso dopo il golpedi Pinochet su mandato della CIA.
Per mio conto se un difetto può essere imputato a Neruda è l’aver favorito e rappresentato in certe parti della sua opera un certo realismo socialista da vulgata staliniana, declamatorio e un po’ schematico a volte, ma non bisogna dimenticarsi che questo realismo filostaliniano ci ha dato quel grande affresco poetico che è il Canto General e d’altra parte come spiegare a un uomo che vide l’aggressione fascista alla Spagna e le Brigate Internazionali, la Seconda Guerra Mondiale e la difesa di Stalingrado, il suo paese strangolato dalle imprese angloamericane e i lavoratori marciare cantando sotto le sue insegne, che dopotutto anche Stalin rappresentava un male?
Queste riserve richiedono però di voler giudicare in termini un po’ meno gretti e scontati un poeta e di voler capire quale fosse il vero Neruda; perché il vero compagno Neruda, quello con i cui versi una parte del mondo mangiò il suo pane tra le battaglie in questo film di Larrain c’è eccome: è il poeta del Canto General letto dagli operai riuniti a crocchio nelle baraccopoli, cantato nelle strade, conservato e meditato in cella dai detenuti politici, quello, come ricorda bene il regista alla fine, per cui ora le masse di esclusi e sfruttati hanno parole per denunciare «quando la storia li calpesta».
Dare voce a chi non l’ha può ancora e ancora deve essere un compito della poesia, del cinema e dell’arte in generale ed è forse proprio perché abbiamo smesso di crederlo o lo crediamo con troppa facilità che quando ci calpestano davvero a noi oggi il più delle volte le parole mancano. Dopo Neruda però è certo che i vincitori scrivono la storia un po’ meno di prima e uno dei meriti sicuri di questo film, bello e controverso, è senz’altro di aver aperto in tempi tutt’altro che facili una nuova pagina su questo grande poeta e combattente.

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