di Francesco Boille
Arriva finalmente in Italia la Palma d’oro dell’ultimo festival di Cannes, Io, Daniel Blake. Una splendida rivendicazione identitaria contro lo schiacciamento degli individui operato da burocrazia, tecnocrazia e liberismo per rimettere al centro l’uomo con la u maiuscola.
Al regista britannico figlio di operai non riesce forse di rinnovare il suo cinema come aveva fatto nel 1994 con Ladybird Ladybird, in cui fu in grado di innestare il melodramma sul film intimo e sociale senza cadere nel ridicolo, ma realizza comunque uno splendido fuoco d’artificio politico e umano, un graffito protestatario prossimo a quello pittato dal suo protagonista.
Potrebbe essere una vita quieta in un quartiere popolare tutto sommato dignitoso, dai numerosi scorci graziosi. O sarebbe potuta essere? Lasciamo al lettore l’interrogativo in sospeso. Fin dall’inizio, Ken Loach delinea efficacemente in pochi tratti, o meglio in brevi sequenze, il carattere del protagonista, i suoi vicini, il suo ambiente.
Paradosso kafkiano
Daniel Blake è un onesto falegname di 59 anni che deve andare per forza in pensione per un problema al cuore che gli impedisce lavori usuranti. Ma subito si scontra con un Moloch: la burocrazia britannica, ormai kafkiana stando alla rappresentazione offerta dal regista. L’atto d’accusa, esplicito, è contro le riforme sanzionatorie in ambito sociale dei tory (nel film è chiaramente citato e accusato Iain Duncan Smith, ministro del lavoro con David Cameron, quest’anno dimissionario, insieme alla Bedroom tax).
Il parere del suo medico non vale. Vale invece quello di un’ignota “professionista” (il termine nella versione in originale è ripetuto incessantemente) che nega a Blake il sussidio di disoccupazione obbligandolo a cercare lavoro, a scrivere un curriculum, a frequentare un workshop intimidatorio e ricattatorio su come si scrivono i curriculum.
Blake è frastornato, oppresso, avvilito, da telefonate, conversazioni, situate sempre sul confine labile tra consiglio e intimidazione. Intimidazione per farlo desistere dal rivendicare il diritto a rivendicare diritti (viene in mente proprio il titolo del recente saggio di Stefano Rodotà, Il diritto di avere diritti). Blake, uomo semplice ma tenace, non si dà per vinto, però non capisce come si usa il mouse di un computer. Per il sistema, per l’ingranaggio senza senso e autoreferenziale, un aspetto gravissimo: Loach punta il suo dito accusatorio anche contro questo.
La nuova economia-burocrazia digitale è totalitaria e pretende che tutti la usino e la sappiano già usare. Il culto dell’efficienza porta all’inumanità dei campi di sterminio di Auschwitz, ricordava Robert Kennedy nel 1966 in uno dei suoi più celebri discorsi, agli studenti universitari di Cape Town, in Sudafrica.
Si tratta del paradosso kafkiano di cui si parlava in apertura: Loach effettua la radiografia di una sorta di culto dell’efficienza quasi poliziesco che rende totalmente inefficiente lo stato sociale inteso come sostegno dello stato al cittadino. Ma tutto si aggroviglia per Blake, tra telefonate che non arrivano, ricorsi che non ricevono risposta e incontri che si avvitano, s’impallano come i computer. Un cerchio che pare impossibile da spezzare. Eppure Blake continua a insistere: “Perché non ho altre entrate, non ho pensione e pago ancora la Bedroom tax”, come dice dopo l’ennesima telefonata surreale.
Solitudine e solidarietà
E i personaggi del film, come succede nella vita reale, sono soli ad affrontare tutto questo. Anche se cercano continuamente compagnia, solidarietà. Così Blake lega con Katie, una giovane vicina di casa madre single di due bambini. Il regista, a 80 anni, dimostra grande precisione insieme a freschezza e agilità nel descrivere i comportamenti ossessivi di uno dei figli di Katie o l’affezionato giovane vicino non bianco che non crede più alle istituzioni sociali e si arrangia con il contrabbando di scarpe sportive cinesi, figlie di uno sfruttamento ancora più selvaggio.
O ancora il personaggio dell’impiegata pubblica che cerca malamente di aiutare Blake e sul cui volto si legge un vero travaglio interiore. Tutti personaggi degni che si confrontano con l’alienazione. Katie cercherà di fare l’impossibile – fino al punto di colpire la propria dignità – per riuscire a trovare lavoro e quindi a provvedere in qualche modo ai suoi figli. Anche il suo si rivela un problema di burocrazia.
E poi ci sono persone che sembrano volerti aiutare mentre il loro scopo è di inserirti in un nuovo sfruttamento. Questo capita a Katie. E grazie alla sua storia, sommata alle attività del giovane contrabbandiere, forniscono al regista gli spunti per criticare la globalizzazione selvaggia dell’economia e la progressiva implosione dello stato.
Io, Daniel Blake parte da una rappresentazione intima del sociale per arrivare ad accusare due facce della stessa medaglia: la tecnocrazia inumana di Bruxelles e il neoliberismo dei trattati internazionali. Ieri quelli di Bill Clinton, oggi quelli di Barack Obama come il Ttip, sul quale il presidente uscente degli Stati Uniti non pare arrendersi. Tutti questi elementi, perfettamente calibrati all’interno del film, ci ricordano che le decisioni politiche del macro(mondo) incidono sulle nostre vite.
Al regista riesce perfettamente d’inserire elementi didascalici e toni da pamphlet – il suo discorso di accettazione della Palma a Cannes ha reso evidente che la sua carica polemica è forte come quella di un tempo – senza nulla perdere in leggerezza narrativa e credibilità nella rappresentazione naturale degli eventi e dei personaggi. Perché Ken Loach alla sua veneranda età ha ancora la capacità di cesellare begli esempi di fauna umana. E perfino qualcuno difficile da dimenticare.
Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 20 ottobre 2016