Voci dall'Argentina, una visita all'Esma

25 Giugno 2016 /

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di Luca Mozzachiodi
Il 24 marzo 1976 un colpo di stato militare rovesciò il governo di Isabel Martínez de Perón dando inizio ad una repressiva dittatura civico-militare destinata a durare fino al 1983. I militari si distinsero per la brutalità quasi scientifica con cui annientarono ogni opposizione o semplice desiderio di giustizia, mettendo in piedi una serie di campi di detenzione e tortura per prigionieri politici, militanti e cittadini che venivano sequestrati dalla polizia e là rinchiusi prima di essere uccisi e dopo essere stati privati dei figli che venivano affidati a famiglie compiacenti.
Nel clima di restaurazione di destra e di pericoloso revisionismo storico che dall’elezione del nuovo governo si respira in Argentina, Simone Cuva e Patrizia Dughero, militanti di 24marzo Onlus, portano la testimonianza della loro visita ad uno di essi, all’Esma, nel cuore di Buenos Aires, che è oggi un centro per la memoria storica e civile.


Come si presenta oggi il museo dell’Esma?
Durante la dittatura fu uno dei campi di concentramento più grandi, che fu attivo più a lungo e per il quale transitò il maggior numero di detenuti. Oggi grazie alla lotta di molti, Laura Bonaparte fu una delle pioniere per questo, rappresenta un emblema di recupero e avanzamento della democrazia. È un simbolo della lotta per la giustizia degli organismi per la tutela dei diritti umani e dei governi Kirchner, ma anche uno spazio aperto al pubblico, costruito a testimonianza concreta di ciò che occorre fare perché le tragedie non si ripetano.
Le sue porte si aprirono al pubblico nel 2004 e diventò riferimento nazionale e internazionale in materia di politiche per la memoria. Qui si è concentrato un insieme di istituzioni, tutte con l’obiettivo della difesa dei diritti umani e dei valori democratici. Un enorme spazio di 17 ettari in mezzo alla città, inaugurato nel 1928 come Escuela de Guerra Naval, che progressivamente raggiunse i 35 edifici di cui 33 ancor oggi percorribili e visitabili, in primis l’ex Casino de Oficiales oggi Sitio de la Memoria, dove abbiamo compiuto la visita guidata insieme a Vera Vigevani Jarach, madre di Franca Jarach, desaparecida a 18 anni e detenuta nello stesso edificio dal giugno 1976.
L’azione di memoria, la visita più toccante che abbiamo mai compiuto. Gli edifici, lasciati allo stato originario, sembrano tantissimi, ordinati e luttuosi al tempo stesso. Per citarne alcuni si trovano gli spazi del Mercosur (IPPDH), quello per l’identificazione delle Personas Desaparecidas, il salone dei Pañuelos Blancos (i pañuelos/fazzoletti delle Madres de Plaza de Mayo), il museo della Memoria, La casa por l’identidad – Abuelas de Plaza de Mayo, e molto altro. La nostra visita si è concentrata nell’ex Casino de Oficiales. partendo da alcuni incontri fondamentali con compagni ex detenuti o familiari di desaparecidos e nietos, sempre in compagnia di Vera, una Madre de Plaza de Mayo della Linea Fundadora, che, nonostante i suoi 88 anni, ci raggiunge in Italia non meno di due volte all’anno, per informare soprattutto i giovani. Siamo dovuti tornare due volte, perché la prima visita è stata sospesa per un allarme bomba, cosa che ci hanno detto si verifica dall’inizio dell’anno circa due o tre volte alla settimana, costringendo visitatori e personale addetto ad evacuare.

In quel campo di detenzione e nei campi in generale si crea una zona di sospensione del diritto, il potere legale si trasforma in potere sovrano di morte, che segni ha lasciato tutto ciò?
Il tentativo di annullamento della volontà da parte dei torturatori nei confronti dei prigionieri fu portato all’estremo, con tecniche affinate e collaudate. Una volta entrati nei campi di detenzione, che in Argentina erano circa 500, i prigionieri restavano in un limbo nel quale ogni garanzia legale era assente, e nella maggior parte dei casi questi centri costituivano il passaggio precedente alla morte. Si conserva qui la documentazione storica sulle azioni del terrorismo di Stato, svolgendo ancora indagini che permettono di ricostruire la memoria della vita e della militanza delle vittime.
All’ex Esma il centro di detenzione era ubicato in quello che era appunto il Casino de Oficiales, il Circolo Ufficiali. In esso sono transitati circa 5000 detenuti. Ora tutto è perfettamente come allora perché tutti i visitatori devono poter vedere e rendersi conto di come le normali attività amministrative erano svolte a pochi metri, al piano di sopra o a quello di sotto, dalle camere di tortura o dalle sale per partorienti. Molte persone all’anno effettuano viste guidate, partecipano a laboratori e congressi, eventi culturali e progetti educativi, rendendolo un luogo di scambio e di dibattito, con l’intento non solo di ricordare ma anche di creare.

Quale rapporto intercorre oggi tra morte e nascita in quel luogo?
“Come era possibile che in questo luogo nascessero bambini?” Questa la scritta apposta sul pavimento della sala per partorienti. Semplicemente la stanza, che immaginavamo molto grande e defilata, ci è apparsa insignificante per quanto piccola e angusta, senza finestre. Un luogo dove si consumavano atti di agonia e terrore, sottostante la stanza delle torture, tra le urla di parto delle madri e le grida di vita dei figli. Le donne incinte stavano dello stesso spazio angusto, l’ampiezza di un tavolaccio, a terra incatenate e incappucciate, come i loro compagni.
Godevano di qualche condono di tortura per meglio portare a compimento la gravidanza e non perdere quel figlio, da “regalare”, dopo la loto morte. Non resta che fermarsi e leggere, le storie delle partorienti sono tante, ne siamo venuti a conoscenza grazie alla lotta delle Abuelas che ora portano avanti i Nietos ritrovati. Leggere dunque le storie e diffonderle, senza far sì che i nostri passi modifichino quel che il luogo ci ha riportato. Ogni crepa potrà un giorno raccontare ciò che ora non possiamo forse immaginare.
Noi possiamo solo scrivere quanto sappiamo, rendere leggibile ciò che si intreccerà con altra testimonianza e renderà “lo spazio memoria”. Infatti quando saliamo all’ultimo piano, altri spazi/cella, altri luoghi, come l'”Acquario per i pesci” (una specie di ufficio circondato da vetrate trasparenti dove alcuni prigionieri svolgevano lavoro coatto scrivendo articoli di controinformazione per gli organi di diffusione del regime), e poi saliamo ancora alla stanza delle torture, non ci accorgiamo di nulla, nessuna differenza dal resto, possiamo solo seguitare in questa direzione, che significa dare vita alla morte, aiutando le Abuelas nella loro indefessa volontà di ricostruzione di identità. Rincorrendo, come dice Ignazio Montoya Carlotto, il nipote ritrovato di Estela, anche una “giustizia poetica” (e non solo giuridica), una verità oltre la morte.

Che significato hanno, per gli argentini e per noi, i luoghi di memoria?
Se una ragion d’essere fondamentale di un luogo di memoria è bloccare il lavoro dell’oblio, è chiaro che essi sono destinati a vivere della propria attitudine alla metamorfosi in un incessante rimbalzo dei significati fermati e avvalorati. Durante la visita abbiamo incontrato Andrea Krichmar. Andrea stava andando a rivedere quei luoghi. Tra il ’76 e il ’77, a 11 anni, Andrea si recò a giocare dove viveva il papà di una sua compagna di classe. Lì vide una donna incappucciata e incatenata
Più tardi seppe che quel posto era la Esma e iniziò a domandarsi che fine avesse fatto questa donna. La sua testimonianza fu una chiave per dimostrare che nell’Esma funzionava un centro di detenzione clandestino. Questo fatto ci sembra emblematico perché la sua prima testimonianza davanti ai giudici, nei tribunali argentini avvenne nell’ ’85 e 30 anni dopo Andrea torna a vedere ciò che lei ha contribuito a costruire. Costruzione e ricostruzione è il senso della memoria degli argentini, senza mai credere che tutto sia già stato detto e fatto. La costruzione diventa un atto continuo come la memoria, ma per la nostra esperienza in Argentina, come in Italia, ci sono anche molti che non vogliono ricordare, ma diversamente da noi il tema dell’oblio viene integrato nella società, rispondendo a domande quali “come si dimentica o come si ricorda?” “chi decide di dimenticare o far dimenticare?”, con l’intenzione di uscire da una prospettiva trionfalista che azzera il processo di ricostruzione.
Si stanno giudicando genocidi, civili complici di genocidi, sacerdoti della chiesa, in molti casi, per avere una presa di coscienza occorre incidere nella società anche con omaggi sentiti, emozionanti e artistici per dire che la memoria è un cammino e non ha fine neanche con le sentenze nei tribunali. Andrea, come noi e come Vera, si è potuta sedere assieme a una scolaresca delle superiori che stava svolgendo la visita guidata. Nella grande sale del Circolo tutt’intorno su tre lati delle pareti vetuste scorrevano le immagini dei torturatori, di Chamorro, il padre della sua amica e comandante allora nell’Esma, scorrevano le sentenze e i destini dei responsabili di un genocidio, i rinvii a giudizio, i finali da tramandare. Noi siamo usciti trasformati, Vera quasi novantenne una volta in più, gli adolescenti emozionati e decisi a tramandare. Un’esperienza intellettuale e sensoriale unica. In Italia come militante della memoria non ho mai incontrato niente del genere.

Come viene vissuto oggi, nell’immaginario e nella quotidianità, l’Esma?
Alla ex Esma sono ora dislocati importanti uffici pubblici, spazi gestiti dalle singole associazioni per i diritti umani. Il tutto contenuto virtualmente in quello che si chiama Espacio Memoria y Derechos Humanos. Il luogo quindi è frequentato da centinaia di persone che vi lavorano e lo visitano. La percezione che abbiamo avuto, che fa però da contrappunto all’esperienza di straordinaria emozione vissuta durante la visita, è che specialmente le nuove generazioni siano profondamente distaccate dal periodo dell’ultima dittatura civico-militare e abbiano operato una rimozione di luoghi e avvenimenti.
Va però detto che esiste una partecipazione nutrita di giovani, pur una minoranza, alle molte iniziative che vengono proposte. Va inoltre messa in evidenza una politica di boicottaggio da parte di ignoti che, in occasioni delle riunioni delle associazioni per i diritti umani, telefonano annunciando la presenza di una bomba e causando quindi l’evacuazione di tutti gli edifici, compromettendo il lavoro dei direttori e ritardi nelle iniziative. Ecco allora che diventa importante avere riferimenti, i luoghi di memoria, non solo con funzione museale.
Gli oggetti come le famose “baldosas”, le piastrelle commemorative, possono rammentare, sempre in qualsiasi momento, incontrandole o calpestandole per le vie della città, ovunque, un frammento di storia. I manufatti dunque, ma anche le operazioni artistiche, entrano in questa corrente contraria all’oblio. Buenos Aires attualmente ha poi un fortissimo flusso migratorio da parte di tutto il continente sud e centro americano, e anche dall’Europa. È una forte responsabilità civile costruita in questi anni di democrazia, dopo la dittatura. Crediamo sia anche per questo che si vede l’America Latina come “continente laboratorio”.

Potete dirmi qualcosa sulla vostra personale esperienza?
Simone – La nostra esperienza è quella di militanti per la principale associazione che, sul territorio nazionale, ha divulgato e reso nota la vicenda dei desaparecidos argentini specialmente durante l’ultima dittatura civico-militare. 24marzo Onlus (www.24marzo.it) coordina decine di iniziative, condotte direttamente o da nostri simpatizzanti, che vengono svolte oramai in tutta Italia su questo tema. Confronti con la cittadinanza, mostre d’arte, rappresentazioni teatrali, presentazioni di libri e intitolazioni (grazie al supporto delle amministrazioni) di luoghi pubblici.
Ma le azioni più dirette, con maggiore risonanza mediatica, vengono svolte attraverso i processi che, oramai dal 1999, si sono e vengono svolti in Italia contro i mandanti o gli esecutori materiali di omicidi o scomparse di cittadini di origine italiana. Attualmente, il “Processo Condor”, che si sta celebrando all’aula bunker di Rebibbia e che arriverà a sentenza probabilmente in autunno, ha allargato gli orizzonti a tutti i paesi dell’America Latina coinvolti nel famigerato “Piano Condor”, rete del terrore attiva nelle dittature latinoamericane degli anni ’70 e ’80. A livello internazionale 24marzo Onlus, insieme ad altri importanti associazioni per la tutela dei diritti umani, fa parte della Rete per l’Identità, che appoggia le Abuelas de Plaza de Mayo nella ricerca dei bambini rubati dopo il parto alle giovani donne poi uccise nei campi di detenzione.
Allo stato attuale ne sono stati ritrovati 119 e si stima che possano essere circa 500 (www.reteidentita.it). Ancora molto lavoro da fare. Patrizia – La ricerca di memoria mi ha spinto a scrivere poesie, l’incontro con esiliati e autoesiliati, compagni argentini, tra la fine degli anni ’70 e inizio degli ’80, mi ha spinto a ricorrere alla memoria non solo con un intento celebrativo per un’ispirazione lirica o sentimentale, ma per un insopprimibile necessità, con qualità creativa ma comunque identica a quella che mi accompagna nella militanza politica trasformatasi inevitabilmente negli anni.
Credo insieme alle Madres e Abuelas de Plaza de Mayo che gli artisti e i poeti possano muovere coscienze e correnti ideologiche per il raggiungimento diritti indispensabili. I linguaggi giuridici, le sentenze e le rogatorie, il linguaggio giornalistico, quello degli insegnanti nelle scuole e nei laboratori, fino a quello dei media va nutrito da un laboratorio di parole instancabile che si unisca ad altri linguaggi, visivi, plastici, di movimento e musica, come accade ancor oggi in Argentina, come è accaduto, per esempio, con i progetti editoriali insieme all’avvocato Gentili. L’avvocato e il P.M. Francesco Caporale hanno curato i processi in Italia a partire dal ’99, e insieme non ci stanchiamo di trasmettere questa esperienza.
Per questa necessità di squarciare la cortina di oblio che noi in Italia, così connessi politicamente all’Argentina e alle sue vicende, abbiamo sopportato senza volontà di approfondimento. Per questo 24marzo Onlus ha deciso di farsi editore e trasportare testi e documenti sul tavolo di molti. E che poi il nostro sguardo, la mirada torni a loro, in questo momento ce n’è molto bisogno. Perché “se mi è dato di scegliere mi schiererò dalla parte dell'”eccesso” di storia, tanto più potente è il mio terrore al pensiero dell’oblio che il timore di avere troppo da ricordare”. Queste le parole di Haroldo Conti che mi hanno accolto a caratteri cubitali all’ex Esma, al Centro Culturale che oggi porta il suo nome.

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