di Rinnovabili.it
Renzi lo ripeteva come un mantra per far fallire il referendum sulle trivelle: “Se vince il Sì a rischio migliaia di posti di lavoro”. Il Governo dipingeva scenari apocalittici, con l’intero comparto degli idrocarburi in ginocchio nell’ipotesi di una vittoria dei No Triv. I sostenitori della consultazione del 17 aprile scorso invece battevano un altro tasto: il settore è in crisi nera di suo e non sarà il referendum a incidere. Chi aveva ragione? Basta dare un’occhiata a quello che sta succedendo a Ravenna per farsi un’idea.
Le trivelle non creano posti di lavoro, anzi li perdono con un’emorragia impressionante. La Cgil lancia l’allarme: da inizio anno sono già 600 i posti di lavoro persi. E gli investimenti? Adesso che lo spauracchio del referendum sulle trivelle – così era dipinto – non c’è più, si potrebbe pensare, saranno certamente arrivati a pioggia, in linea con quello che andava ripetendo il premier: “È un referendum per bloccare impianti che funzionano”.
A quanto pare, invece, le grandi aziende del ravennate non sono assolutamente d’accordo. «Le principali services company multinazionali – commenta Alessandro Mongiusti, della Filctem Cgil Ravenna e responsabile nazionale di categoria per il comparto perforazione – hanno avviato piani di ristrutturazione devastanti che vedono coinvolte anche le basi operative nel nostro paese e nella nostra città. Dimensionalmente le tre big, Halliburton, Baker Hughes e Schlumberger hanno già ridotto il personale di oltre il 50% e stanno proseguendo nel percorso di riduzione».
A fine mese probabilmente si fermerà pure l’Atwood Beacon, cioè l’ultimo impianto di perforazione che sta operando nella zona. Un record, visto che a Ravenna non era mai accaduto che tutti gli impianti fossero fermi. «Altra certezza, purtroppo – continua Mongiusti – sono i futuri piani operativi comunicati da Eni per Ravenna. Stante l’attuale situazione di mercato non vi sono operazioni in programma per tutto il 2016 e credo sia inutile andare oltre e fare i veggenti per il 2017. Se le operazioni non ripartono a breve termine quanto rimasto della forza lavoro dell’intero comparto subirà nei prossimi mesi una decimazione irrecuperabile».
È chiaro che l’avventura fossile dell’Italia era già in declino prima della consultazione popolare. La penisola ha una produzione risibile e in costante calo, sia di gas che di greggio. Il crollo del prezzo del barile rende l’estrazione in mare sempre più antieconomica. Secondo l’ultimo rapporto della società di consulenza Deloitte, il 35% delle compagnie sarebbe ad alto rischio di fallimento nel 2016. Nonostante il governi seguitino a foraggiare l’industria fossile con oltre 5 mila miliardi di dollari l’anno, nonostante l’Italia abbia destinato a carbone, gas e petrolio una quota di finanziamenti pubblici 42 volte superiore a quelli accantonati per l’azione climatica, le prospettive per il mercato del lavoro nel settore non sono affatto incoraggianti.