Che c'è da imparare dall'esperienza di Ada Colau?

1 Giugno 2016 /

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Ada Colau, La città in comune. Da occupante di case a sindaca di Barcellona
Ada Colau, La città in comune. Da occupante di case a sindaca di Barcellona
di Valerio Romitelli
A proposito del libro appena pubblicato di Steven Forti e Giacomo Russo Spena, Ada Colau, La città in comune. Da occupante di case a sindaca di Barcellona (con un’intervista a Luigi De Magistris), Edizioni Alegre, Roma, 2016, 176 pagine.
Barcellona capitale spagnola, meglio europea e forse anche mondiale del “nuovo municipalismo”? Ossia di quei governi cittadini che non solo si adoperano nel contrastare le politiche neoliberali dell’austerità, ma si pongono anche in prima fila nell’accoglimento di rifugiati e stranieri? Sono queste tra le più importanti domande che si pone l’agile, ma rigoroso e documentatissimo libro Ada Colau, la città in comune.
Da occupante di case a sindaca di Barcellona – con un’intervista a Luigi De Magistris (Edizioni Alegre, Roma, 2016) di Steven Forti e Giacomo Russo Spena: il primo, oltre che storico e giornalista di professione, testimone diretto del tema trattato, vivendo da anni a Barcellona; il secondo, oltre che firma de Micromega, già autore di libri riguardanti le più recenti novità in campo politico, come i “casi” Tsipras e Podemos.
I
“Da occupante di case a sindaca di Barcellona”: sottotitola questo libretto ed è proprio questa la vicenda di cui si tratta. La quarantaduenne Ada Colau è in effetti la protagonista di questa bella storia, quasi da favola, che l’ha portata da giovane di origini popolari, a indomita militante contro gli sgomberi delle case, già a partire dal lontano 2006, fino a conquistare nove anni dopo, nel giugno 2015, la massima carica di prima cittadina, e ora addirittura salutata a volte dalla gente come la “regina” (p.27) ed con un audience da star nel video in cui canta una canzone di propaganda da lei stessa inventata (p.67).

Il tutto nel contesto di quella Barcellona ben nota come città prediletta dai turisti, ma che nasconde anche dati da primato nelle diseguaglianze sociali oltre che negli sgomberi inflitti dalle banche ad abitanti indebitatisi a causa dalla speculazione edilizia.
Quanto basta e avanza per farne un mito. Un mito di cui la sinistra europea e forse anche mondiale, ma sopratutto quella italiana, ha quanto mai bisogno. Rivolgendosi appunto anzitutto ad un pubblico italiano il libro di Forti e Russo Spena punta proprio a offrire di che distinguere fino dove giunge il mito e da dove inizia la realtà.
Un’insistente questione che più o meno esplicitamente si pongono questi autori riguarda proprio l’attuale situazione italiana. Da loro sappiamo infatti come uno dei principali percorsi del suo apprendistato politico Ada Colau l’ha fatto proprio nel “bel paese”, tra fine anni novanta e primi anni del terzo millennio. Come lo stesso Tsipras, anch’ella aveva appoggiato le manifestazioni contro il G8 di Genova. Come lo stesso leader di Podemos, Pablo Iglesias, ha frequentato “no global”, “disobbedienti” e conosciuto Toni Negri, facendosi anche influenzare non poco dalle sue teorizzazioni su “moltitudini” e “beni comuni”.
Dunque: come mai dall’Italia vengono stimoli per rinnovamenti politici che alla fin fine sono sperimentati più altrove che nel nostro stesso paese? Questa l’interessante questione posta dal libro e che, in effetti, varrebbe la pena di essere ripresa e approfondita anche riguardo ai paradossali riscontri mondiali di quella cosiddetta italian theory, che appunto esiste solo come nozione anglofona.
Riguardo più direttamente al “caso Colau”, Forti e Russo Spena ben ne spiegano il singolare complesso di condizioni storiche e politiche, comunque ben lontane dalla realtà italiana. Quattro anzitutto. Una è rappresentata dall’eredità della tradizione risalente ai movimenti di opposizione al Franchismo soprattutto il Movimiento Vecinal (p.64) protrattisi fino alla caduta del regime, dunque fino alla metà degli anni ’70, per i quali la distanza e la non compromissione con qualsiasi potere istituzionale erano pure e semplici necessità vitali.
Un’altra condizione sta nel movimento degli Indignados, da cui la già da anni esistente esperienza politica “antisfratto” della stessa Colau ha tratto slancio e amplificazione senza precedenti. Un’altra ancora viene dallo sparigliarsi, attorno il 2012, di tutte le pregresse realtà politiche catalane di fronte all’esplodere delle rivendicazioni indipendentiste.
Ultima, ma non per importanza, sta ovviamente nella creazione, prima, del Movimento 15-M e poi di Podemos, nel marzo 2014, i quali hanno sì spalleggiato le organizzazioni cui appartiene la Colau, ma senza però mai fondersi e confondersi con esse; tant’è che, ad esempio, a proposito della situazione greca, mentre i primi col loro leader Iglesias si schierano sempre col governo Tsipras, le seconde sempre strette attorno alla sindaca di Barcellona aderiscono al “Piano B” per Ue dell’ex ministro dissidente Varoufakis.
In tutto ciò che più (mi) colpisce è la fedeltà organizzativa della stessa Colau. Il fatto di non avere mai ceduto alla tentazione di farsi coinvolgere in ipotesi o progetti che rappresentassero una qualche discontinuità rispetto alla Pah (Plataforma de los Afectados per la Hipoteca) e al progetto di Guanyem Barcelona.
È infatti tramite queste organizzazioni che l’attuale sindaca di Barcellona è riuscita a stabilire con un intenso lavoro politico di lunga durata quelli che un tempo si sarebbero detti dei saldi legami con le masse. E pare del tutto chiaro da quanto ci raccontano Forti e Russo Spena che ella è ben cosciente che tutta la sua forza politica viene da tali legami.
Altrettanto chiaro è però che questa stessa fedeltà è inevitabilmente divenuta quanto mai problematica dal momento che per vincere le elezioni la Colau e i suoi compagni hanno dovuto procedere alla costruzione di quella sorta di partito di (altri) partiti e di frazioni di partito che è oggi al governo di Barcellona e che, dopo varie peripezie e rinominazioni, si chiama Barcelona en Comú.
Forti e Russo Spena danno conto delle polemiche suscitate da quello che vien denunciato come un atteggiamento dirigista da parte della Colau e dei suoi collaboratori più stretti nei confronti dei militanti degli altri partiti (come lo stesso Podemos) nella costruzione e nella gestione della confluencia che ha portato alla formazione elettorale Barcelona en Comú. Ma i nostri autori rendono conto anche del fatto che la stessa parola confluencia è stata scelta proprio per rimarcare una differenza da ciò che implica il termine oggi più normalmente usato in simili casi, quello di coalizione.
In tal modo si è voluto evitare infatti che l’unificazione ai fini elettorali fosse il risultato di mediazioni e trattative tra quadri di diversi partiti e movimenti, preferendo invece grandi mobilitazioni di assemblee e riunioni popolari quartiere per quartiere, effettivamente svoltesi in numero considerevole e con partecipazione impressionante.
Molto significativo del legame che l’attuale sindaca di Barcellona mantiene con la sua attività di militante è il fatto che uno dei primi suoi incontri sia stato proprio con quelle banche da lei stessa considerate tra le maggiori responsabili (“un potere criminale”!, p.13) delle requisizioni e degli sfratti.
La discussione dei risultati di questo incontro sono in effetti un tema dell’interessante intervista fatta dagli autori alla stessa Colau e opportunamente posta in apertura dello stesso libro. Leggendola si capisce subito però anche quanto siano allargati gli orizzonti politici della sindaca e delle organizzazioni che la sostengono. A questo proposito sono particolarmente da segnalare le loro iniziative per l’accoglimento di rifugiati e stranieri in cooperazione con altre città schierate sullo stesso fronte come Lesbo, Lampedusa e la stessa Madrid (p.21).
C’è però un preciso insieme di dubbi che restano aleggianti sui destini dell’esperienza politica avente la Colau come leader: se tale esperienza da movimento saprà divenire di governo; se da dirigente di un’organizzazione di afflitti dai problemi della casa questa donna saprà diventare l’amministratrice della maggioranza dei barcellonesi; se così facendo si dimostrerà o meno in grado di dar luogo ad un partito con proiezioni catalane, spagnole o finanche con risonanze globali. Ed è questo l’insieme di dubbi che questo libro denso di stimoli ci lascia da meditare.
II
Sulla base di tali stimoli propongo allora alcune ulteriori riflessioni.
Ci si può chiedere ad esempio se le organizzazioni riunite attorno alla figura di Ada Colau saranno capaci di raggiungere quello che pare uno dei maggiori risultati già in parte prefigurati dalle esperienze da esse compiute: costruire e sperimentare un’alleanza tra i cittadini più declassati di Barcellona (quelli più afflitti non solo dalle questioni abitative, ma anche dalle enormi e crescenti diseguaglianze sociali) e gli stranieri accolti da questa città (in coordinamento con città altre similmente orientate).
Se un simile risultato fosse raggiunto e ulteriormente sperimentato ritengo che tali esperienze avrebbero ancora molto da insegnare a chiunque desideri ricercare alternative alle attuali politiche neoliberali ovunque imperversanti. E ciò per una ragione assai precisa: in ragione del fatto che in tutta l’Ue, ma anche nel mondo intero, la questione dell’accoglienza degli stranieri e della loro possibile alleanza coi cittadini “autoctoni” declassati a me pare politicamente cruciale
Perché? A parte le risposte di tipo filantropico ed umanitario che si possono dare in proposito, val la pena di precisare: perché stiamo vivendo in un’epoca nella quale il vorticoso movimento finanziario dei capitali su scala globale, mentre impoverisce sempre più vasti settori dei cittadini “sedentari” costringe al movimento altrettanto vaste popolazioni senza capitali. Cosicché i destini del futuro si giocheranno proprio su questo terreno. Un terreno che sarà configurato o da lotte tra poveri o da loro inedite unioni politiche.
Da questo punto di vista mi pare allora secondario il chiedersi se Ada Colau riuscirà o meno ad avere successo mantenendo il suo posto come sindaca e/o se riuscirà a farne un trampolino per imprese partitiche di più ampia portata.
L’idea che questo sia il problema principale credo sia infatti uno dei più chiari sintomi di quella che trovo il caso di chiamare “la malattia senile della sinistra”. Più precisamente si tratta dell’idea secondo la quale l’unica alternativa alle attuali politiche neoliberali starebbe nel formare partiti, “di sinistra” appunto, in grado di prendere e gestire diversamente il potere statale, di governo.
Quanto Colau si discosti da questa idea è attestato almeno da due sue dichiarazioni riportate dal libro di Forti e Russo Spena. Una concernente esattamente la questione del potere, l’altra concernente i partiti.
Nella prima troviamo una dissociazione tra ciò che è l’effettivo potere e il suo governare: “Noi governiamo, ma non abbiamo l’effettivo potere. Il potere è altrove.” (p.20) Nella seconda possiamo cogliere, tanto la sua fedeltà all’organizzazione politica in cui milita, quanto la sua completa diffidenza nei confronti dei partiti: “In nessun caso penso di lasciare la Pah, che sia chiaro. Sarò attivista della Pah fino alla morte e anche dopo (…) Non entrerò in nessun partito politico, anche se è vero che in più d’una occasione vari partiti me l’hanno proposto” (p.48).
Dal che si comprende come la sua sia una visione del tutto tattica di quella formazione, Barcelona en Comú che l’ha fatta divenire sindaca e che molti considerano invece una sorta di partito o nuovo modello di partito comunicativo -come dimostrano gli innumerevoli scimiottamenti, specie in Italia, consistenti nel nominare liste civiche dalle più disparate origini con un nome di città seguito dalla formula “in comune”.
D’altra parte, si potrebbe liquidare la faccenda dell’antipartitismo della Colau notando il fatto che tra i suoi riferimenti prediletti spicca il libertarismo anarchico (pp. 22-4). Ma, data l’eccezionalità del personaggio, val la pena di tentare qualcosa di più. Diversamente dagli abituali approcci accademici e politologici che si limitano a valutare la qualità di un pensiero politico alla luce dei suoi riferimenti culturali più o meno dotti, proviamo invece ad avvicinarsi a quello di Ada Colau dall’interno, dall’interno del suo stesso modo di disporre i problemi.
La sua constatazione che il potere stia “altrove”, altrove rispetto ai poteri statali, così come il suo antipartitismo trovo vadano letti come del tutto calati e pertinenti rispetto al presente.
Come non riconoscere infatti che i tempi degli Stati capaci di decidere in proprio politiche di welfare è passata da un pezzo? Come non riconoscere che, da almeno vent’anni e quasi ovunque nel mondo intero, il cuore delle istituzioni pubbliche, come dicono espressamente e insistentemente i loro governanti, batte al ritmo imposto dal cosiddetto mercato? In effetti, ciò che le “regole” di questo mercato chiedono agli Stati sono anzitutto due cose: “sicurezza” e “valutazione”.
Sicurezza per gli investimenti di capitale e valutazione dei cittadini finalizzata a selezionare e reclutare quei pochi che si dimostrano “concorrenziali” e che quindi meritano ancora assistenza e sostegni pubblici. Da questo punto di vista come non accorgersi che le istituzioni statali in Spagna, ma anche a livello europeo, se non planetario, sono ridotte attualmente in pezzi, ossia private in massima parte di poteri propri? Come quindi non convincersi che si ritrovi tarata in partenza ogni pretesa di creare partiti “di sinistra”, immaginandosi che siano ancora in grado di strappare le istituzioni statali ai sistematici svuotamenti di sovranità subiti da parte del mercato?
In effetti, niente o quasi nel nostro mondo fa pensare che non siano proprio queste “regole” neoliberali a comandare ovunque. È solo prendendo atto di questo fatto che si può apprezzare l’eccezionalità di imprese come quelle della Colau. Un’eccezionalità di cui lei stessa, come le sue organizzazioni politiche, la Pah e il gruppo di Guanyem Barcelona paiono del tutto coscienti.
Se ciò è vero, se ne deve trarre una conseguenza difficile, che contrasta i più effimeri entusiasmi per la sindaca di Barcellona, ma che a me pare la più politicamente istruttiva. In effetti si tratta di capire che il successo elettorale della Colau viene sì dal suo carisma, dalla capacità comunicativa sua e del suo staff, dalla loro abilità di far confluire in una prospettiva unitaria militanti di diversa provenienza e così via, ma che niente di tutto questo sarebbe contato se “dietro” tutto ciò non ci fosse un duro e lungo lavoro d’inchiesta politico e organizzativo, del tutto minimale, minoritario, “da catacomba”, condotto tramite la Pah, tra quelle popolazioni che a Barcellona sono state ridotte ai margini della povertà.
Dovendo scegliere cosa sperare a proposito di questa esperienza credo sia quindi anzitutto che tale lavoro politico continui e si allarghi specie coinvolgendo anche le popolazioni straniere. Solo così sono convinto il “caso Colau” avrà ancora da fornire istruzioni a chiunque desideri cercare alternative alle politiche neoliberali e alle loro clientele fidelizzate alle “regole” del mercato.
Questo farebbe credo la differenza fondamentale con l’esperienza di Syriza, la quale era nata dalla coalizione di molte organizzazioni legate sì a loro modo alle masse, ma che non sono mai arrivate a trovare un’unità se non come partito puramente elettorale, cosicché Tsipras non ha trovato di meglio da fare che adoperarsi per il meno peggio come capo di un governo di uno Stato indebitato – come si può constatare, non molto diversamente dai suoi predecessori.
In effetti, non sapere più distinguere la differenza di principio che separa qualsiasi modo di governare dal fare politica tra la gente socialmente sofferente a me pare faccia parte dei mali che più affliggono ciò che si continua a chiamare la “sinistra”. Ada Colau, che ha per questo termine delle riserve, sia pur inferiori a quelle di Podemos, non sembra fortunatamente soffrire di questo male. E questa trovo sia una delle migliori “notizie” che si possono ricavare dal libro di Forti e Russo Spena.
Quanto poi in questa come in altre esperienze politiche simili contino le fraseologie più o meno post-operaiste su “beni comuni”, “comune” e “comunitarismo” è un tutt’un’altra faccenda, da discutere a parte.

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