di Mauro Zani
Dopo il voto regionale in Emilia Romagna mi son consolidato ancor più nella idea che non c’è altra strada, nelle prossime amministrative a Bologna, che quella di una lista civica. Non una delle tante. La denuncia e la protesta insieme alla sfiducia e alla rassegnazione sono già ampiamente evidenziate nell’altissima astensione dal voto.
Non si tratta di semplicemente di lucrare qualche voto o posto in consiglio comunale raccogliendo genericamente il disagio sotteso a questa diffusa protesta. Tanto per far un dispetto ai ragazzi dello zoo di via Rivani. Che, i dispetti se li fanno già per conto loro.
Al di là e ben prima delle ragioni contingenti che hanno contribuito all’astensionismo, anche di ampi settori dell’elettorato del PD (in primo luogo l’affaire di rimborsopoli) conviene prendere in considerazione un ambito storico, politico più ampio.
Il tempo in cui viviamo. Il tempo del precariato diffuso a tutta la società. Senza eccezioni. Il tempo in cui del doman non c’è certezza. Nel presente si sbarca un faticoso lunario. L’un contro l’altro armati. Condizione resa necessaria dall’assenza di qualsiasi patto sociale.
Tipica la messa in discussione radicale dei diritti acquisiti spacciata come opera riparatrice di giustizia sociale. Non diamo diritti a chi non li ha. Togliamoli a coloro che li hanno ottenuti. Così tutti saranno ugualmente nella merda. Giusto. No?
È il discorsetto puerile e infingardo che ci propinano ormai da vent’anni. Serve a coprire un semplice e duro stato di fatto. Lo stato nazionale ai tempi della globalizzazione e delle compatibilità finanziarie non è più in grado di mantenere la parola data. Ogni garanzia, ogni promessa, ogni contratto (compresi quelli nazionali di lavoro) diventano carta straccia.
Generando una condizione esistenziale di permanente insicurezza. C’è chi parla di uno stato di crisi permanente. Fisiologico. Da accettare. Col quale convivere. In un tempo indefinito.
Siamo tutti (chi più chi meno) su di un ponte gettato verso il nulla. Non abbiamo la più pallida idea di ciò che può riservarci il futuro. Qualcuno interpreta questa generale incertezza, con la relativa angoscia sociale che l’accompagna, come uno stato di transizione. Una classica fase di passaggio.
Sì ma verso dove? Potete leggere tutti i libri che volete. Nessuno davvero lo sa e può saperlo. Solo uno che potesse vivere nel futuro potrebbe voltarsi indietro e spiegarci cosa sta davvero avvenendo adesso e cosa ci riserverà la sorte. E a che cosa sia finalizzata l’anarchia liberista ordinata da interessi monopolisti di livello globale che c’impone una governabilità improntata a compatibilità economiche che fanno a pugni con bisogni, diritti, necessità umane.
Ma qualcosa del presente sappiamo. E quel qualcosa dovrebbe servire a almeno a cercar d’incidere sul futuro. Sappiamo, ad esempio che la vecchia favola che stabiliva un nesso stretto tra capitalismo e democrazia, l’uno condizione dell’altra, ha mostrato da molto tempo a questa parte il suo carattere puramente ideologico.
Sappiamo, ad esempio che il divorzio tra potere e politica nell’epoca del capitalismo di finanza è del tutto compiuto. Il potere economico decide. È un potere globale di cui non conosciamo nei dettagli neppure i suoi interni meccanismi di funzionamento.
La sua razionalità interna però si fonda sull’accrescimento all’infinito del profitto privato. Perciò ha bisogno di omertà da parte della politica per situarsi in un altrove. Indistinto. Nebbioso. Inafferrabile.
Un altrove che pur esiste. S’è costituito sullo spiazzamento degli stati nazionali. Detta le sue leggi non scritte. Orienta anche l’esperimento europeo ormai del tutto incapace di tagliare le unghie al Leviatano globale.
C’è chi come la Germania cerca di sfruttare quest’impotenza per costituirsi in una sorta di Quarto Reich con i paesi nordici al fine di ritagliarsi, proprio tramite l’Europa, una stabile posizione di rendita nel contesto globale. C’è chi, come il governo di Renzi cerca di porsi, comunicativamente, (e con qualche successo d’immagine) come restauratore della decisione politica. Operazione del tutto ingannevole. Perfida. Colpevole.
Tipico il cosiddetto jobs act. Si fa esattamente ciò che il potere economico vuole. Si stabilizza per legge il precariato. Facendo finta di superarlo. Tale è la mistificazione di un contratto a “tutele crescenti” che non concede più alcuna tutela. Lavoro servile più che altro.
Ancor più significativa, in prospettiva, la riforma elettorale unita a quella costituzionale. Quest’ultima chiesta direttamente, senza infingimento alcuno, anche da una delle più grandi banche d’affari USA. L’idea è quella di una “democrazia maggioritaria”. La negazione in radice d’ogni accettato concetto di democrazia che privilegi, tuteli, garantisca e promuova la rappresentanza politica.
Da tempo è ormai è affermato lo scambio perverso tra rappresentanza e governabilità. Quando dovrebbe esser chiaro, e l’esperienza lo dimostra, che senza effettiva rappresentanza politica non c’è governo democratico possibile.
In verità la governabilità è uno pseudo concetto che prende atto dell’impossibilità, al tempo del potere finanziario globale, di decidere cosa fare, quando farlo e come farlo. La governabilità anche quando come in Italia assume la forma del decisionismo politico corrisponde ad una resa senza condizioni.
La politica non conta. Non decide mai veramente. Non si costituisce come potere autonomo legittimato dalla delega dei cittadini elettori.
È serva del potere economico e delle ragioni del mercato.
Se questo scenario, sommariamente richiamato corrisponde anche solo in parte al presente in cui viviamo si capisce anche perché, particolarmente in Emilia Romagna, l’astensionismo raggiunga vette così elevate.
Qui la politica in passato era più forte che altrove. Insieme al sistema pubblico. Interpretava più che altrove le domande dei cittadini, che sono sempre richieste di maggiore sicurezza, e relativa e ragionevole tranquillità sul futuro, tramite l’acquisizione di maggiori diritti civili e sociali.
Si può certo revisionisticamente discutere su questo giudizio. Più opportunamente si potrebbe inserire criticamente questo stato di fatto entro un periodo storico determinato. All’opposizione nazionale fu garantita per lungo tempo una quota parte di risorse certe da gestire negli ambiti territoriali di propria “competenza”.
Quel che è sicuro è che con il governo del PD di Renzi avviene l’esatto opposto. Quel decisionismo che serve a Renzi per guadagnare consensi deve, di necessità, scaricare la più gran quantità di problemi in ambito locale. E magari proprio laddove governa il PD di cui lui può disporre a piacimento nella sua qualità di comandante in capo.
Dopo l’abolizione dell’elezione delle province, tanto le regioni che i comuni si avviano a divenire una sorta di discarica dei problemi che Renzi intende schivare. Dalla scuola, alla casa, all’immigrazione, all’ambiente. E questo mentre si opera un formidabile riaccentramento di funzioni e risorse in capo al governo nazionale.
Dei sindaci d’Italia ce ne può esser uno solo. E deve poter manovrare lestamente nelle pieghe di un bilancio sempre più scarno in ossequio alle compatibilità del potere economico globale che s’è ormai stabilmente insediato a Bruxelles. Stante questa situazione anche a Bologna, direi soprattutto a Bologna, il PD non è più in grado di garantire alcunché. Non lo sarebbe peraltro alcun altro partito, anche quando dovesse continuare a chiamarsi “movimento”.
I Partiti del tempo in cui viviamo si sono liquefatti in gruppi di potere e in logiche puramente personalistiche, quando non apertamente affaristiche, non appena la politica si è arresa al potere. Chi ha a cuore una democrazia dei partiti volontariamente costituiti dai cittadini, come me, non può che prendere atto dell’attuale disfatta. E da qui ripartire.
Ripartire dai territori e dalle comunità locali. Non vedo molte altre possibilità. Non vedo, in particolare la possibilità di ripartire dall’alto. In questo passaggio verso non si sa dove, in questa transizione, in questo “Stato di crisi” (Bauman) non ci si deve attendere un imput risolutivo dall’alto.
Forse da questa constatazione muove anche l’idea di Landini della coalizione sociale. Per questo penso che a Bologna verso il 2016 va apprestata una coalizione di cittadini nella paziente e tenace ricostruzione di un legame fiduciario tra di essi. All’insegna di una chiara identificazione di un bene comune e di un interesse generale.
Una lista civica serve a questo o non serve. Serve a coalizzare persone consapevoli che non ci son più ripari, né garanzie, né sicurezze, né umana dignità nel mare magnum del precariato generalizzato.
Solo diritti aboliti in nome di altri diritti che non ci saranno nell’assenza di nuova rappresentanza politica. Recuperare rappresentanza politica su basi alternative rispetto al dominante pensiero liberista. A questo deve servire una lista civica.
Muovendo dai significativi momenti di aggregazione e di proposta, contro l’ulteriore privatizzazione di beni e servizi pubblici essenziali, che a Bologna già influenzano settori importanti dell’opinione pubblica e dell’elettorato dello stesso PD.
Il contrario dell’antipolitica speculativa e parassitaria. Altra faccia dell’impotenza mascherata da decisionismo. Aggiungo solo che a me sembra di vedere in tutto ciò che già si muove a Bologna, fuori da un establishment ormai decrepito, un primo nucleo di una futura e possibile classe dirigente locale.
Mi par si possa e comunque che si debba compiere un primo passo per ricostruire, nel tempo, le ragioni civili ed etiche di un riscatto della politica. Da Bologna. Da dove sennò?
Questo post è stato pubblicato sul blog di Mauro Zani il 29 maggio 2015