di Luigi Manconi
La favola crudele del “bambino nel trolley” – terribilmente vera come quasi tutte le favole – dovrebbe costituire un messaggio politico definitivo e un inappellabile monito morale. Già Emanuele Trevi sul Corriere della Sera e Adriano Sofri su Repubblica hanno detto (magnificamente) tutto ciò che c’era da dire. Dunque, si tratta solo di evidenziare ulteriormente quanto già emerge dai nudi fatti. E che è incontrovertibile in Italia da tre decenni e, se si volesse guardare alla storia del mondo, da molti secoli: “il bambino nel trolley”, così come le storie di giovani arrivati in Europa aggrappati tra le ruote dei camion, a mezzo metro dal suolo, come le persone che soffocano per settimane ammassate nelle stive, o quelle che attraversano i deserti e quelle che viaggiano a piedi per tre anni; o ancora quelle che percorrono centinaia di chilometri distese sul dorso di muli.
Tutti questi esseri umani, ridotti alla fragile materialità del loro corpo in fuga, dicono una sola cosa: niente e nessuno potrà fermare i movimenti migratori di bambini donne uomini e vecchi. Perché proprio questo è il messaggio politico e il monito morale di cui si diceva: niente e nessuno, nella storia dell’umanità, li ha fermati e nemmeno ne ha potuto ridurre o contenere il numero.
Non le frontiere o il filo spinato, non i muri e le motovedette, non i cani e i blocchi navali, non le polizie e le barriere elettroniche e i terreni minati. Se verifichiamo quanto accade sul confine tra gli Stati Uniti e il Messico o sulle alture del Sinai, possiamo renderci conto agevolmente che le parole di Matteo Salvini e dei suoi emuli (a destra, ma anche a sinistra) prima di essere efferate, sono puerili.
E le loro politiche prima di manifestare xenofobia, esprimono una torva utopia regressiva, impotente e vana. Se questo è vero – ed è incontestabile che sia così – si deve partire dal presupposto che i grandi movimenti di esseri umani non possono essere bloccati, e agire di conseguenza.
Attraverso grandi politiche nazionali e sovranazionali e grandi investimenti: in economia e intelligenza, in cooperazione internazionale e accordi bilaterali, in progetti di partenariato e in corridoi umanitari, in piani di reinsediamento e di ammissione umanitaria. Tutto assai arduo, certamente, ma l’ostacolo principale non è la complessità dell’impresa e i lunghi tempi che richiede, bensì un altro. È il mancato riconoscimento di quel presupposto iniziale (niente e nessuno potrà fermare “il bambino nel trolley”) e le profonde implicazioni politiche che ne derivano.
In primo luogo, le insormontabili resistenze finora opposte da pressoché tutti i paesi europei rispetto a una prospettiva matura e razionale di accoglienza condivisa nei confronti degli stranieri. Risale solo a qualche ora fa il primo, ancorché incerto e contraddittorio, segnale di una diversa strategia politica. Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, intenderebbe far approvare mercoledì prossimo un piano in cui si prevede la realizzazione in Italia di commissioni internazionali per la fotosegnalazione degli stranieri; e la creazione di centri di smistamento in cui i profughi resteranno fino a che non siano stati identificati.
Se questa condizione fosse realizzata, si porrebbe all’ordine del giorno l’approvazione di una proposta per rendere obbligatoria la ripartizione di quote di richiedenti asilo nei ventotto paesi europei. Indubbiamente, quest’ultima ipotesi è positiva, pur se soggetta a uno scambio insidioso, e ancora tutta da verificare e da mettere in pratica. Certo, sarebbe stato meglio se un simile progetto, possibilmente meno arcigno, fosse risultato da una vera e propria campagna intrapresa dal nostro governo, da una tenace e paziente opera iniziata nel corso del semestre a presidenza italiana, da un vero e proprio conflitto politico condotto all’interno dell’Unione europea. Purtroppo così non è stato, e ora l’Italia si trova in una condizione di drammatico ritardo e di debolezza di iniziativa: e costretta, dunque, ad attendere le mosse altrui. Dopo aver deciso, oltretutto, l’abbandono del solo piano davvero efficace e lungimirante, quello della missione Mare nostrum. Per l’ostilità feroce delle destre, per le pressioni di alcuni paesi europei e per l’ignavia del governo e della sinistra.
E c’è qualcosa di grottesco in quest’ultima decisione. È da decenni ormai che uomini retti, come Carlo Azeglio Ciampi, e anche qualche retore interessato, operano per rilanciare l’amor patrio, una certa fierezza dell’Italia come comunità nazionale e il senso di una identità collettiva ritrovata. Bene, proprio quando, grazie all’opera della marina e della guardia costiera, si profilano una sorta di orgoglio nazionale umanitario e qualcosa di simile a un “patriottismo sovranazionale” – fatto cioè non solo di soccorso in mare ma anche di capacità di controllo e perfino di un qualche ruolo geopolitico – quell’azione meritoria viene abbandonata.
E si preferisce tornare al vecchio e vano bellicismo: “bombardare i barconi” e “sparare sugli scafisti”. Forse è proprio vero che “il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie”.
Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale l’11 maggio 2015