La legge beffa sulla tortura e le riforme "impossibili"

16 Aprile 2015 /

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G8 di Genova - Foto di Altreconomia
G8 di Genova - Foto di Altreconomia
di Lorenzo Guadagnucci
Possiamo già chiamarla legge beffa. All’indomani della clamorosa sentenza della Corte europea per i diritti dell’uomo sul caso Diaz, il parlamento si appresta ad approvare un testo di legge sulla tortura che si discosta nei punti chiave dagli standard internazionali e dalle stesse indicazioni della Corte di Strasburgo.
Avremo quindi presto una legge che qualifica la tortura come reato generico, che non prevede la imprescrittibilità e – dopo i cambiamenti introdotti in commissione alla Camera – con una definizione di che cos’è tortura così articolata e ricca di sfumature da risultare difficilmente applicabile (un modo classico per svuotare le norme dall’interno).
Che la tortura sia un reato specifico del pubblico ufficiale è una nozione di senso comune ed è anche il motivo per il quale è oggi necessario introdurre una legge ad hoc: l’Italia è un paese dove la tortura si è praticata e si pratica in troppe occasioni (vedi i Rapporti di Amnesty International) ed è quindi necessario che arrivi alle forze dell’ordine un messaggio molto forte, in grado di avviare un cambiamento di rotta nei comportamenti e un aggiornamento dei parametri culturali di riferimento.
Quanto alla prescrizione, la Corte di Strasburgo si è espressa più volte negli anni scorsi sulla necessità di escluderla in materia di violazione dei diritti umani e lo ha ribadito nella sentenza dell’altro giorno, richiamando precise indicazioni venute sia dal Comitato europeo di prevenzione della tortura, sia dal presidente della nostra Corte di Cassazione. Ma il parlamento ha fatto finta di non sentire e di non vedere.

I “realisti” sostengono che una legge imperfetta è meglio di nessuna legge, ma dovremmo tutti domandarci qual è il fine che vogliamo perseguire. Se si tratta semplicemente di colmare un vuoto legislativo, il risultato sarà presto raggiunto.
Se l’obiettivo è invece intervenire sui limiti “strutturali” nella tutela dei diritti umani evidenziati dalla Corte di Strasburgo; se vogliamo contrastare il malinteso spirito di corpo che dopo Genova ha spinto le forze di polizia a mentire sistematicamente e ostacolare il corso della giustizia; se intendiamo favorire un’evoluzione democratica delle drammatiche carenze evidenziate dalla Corte di Strasburgo, allora è chiaro che siamo sulla strada sbagliata.
Roberto Settembre, giudice nel processo per Bolzaneto, ha parlato di “legge spuntata”; Enrico Zucca, pm nel processo Diaz, si è chiesto: “E’ forse un insulto apprestare strumenti che abbiano una forza deterrente?”. Dovremmo chiederci allora perché le forze progressiste non si siano attestate sul disegno di legge iniziale, presentato dal senatore Luigi Manconi. Perché non si è cercata in parlamento una maggioranza (che ci sarebbe) su quel testo? La risposta è semplice: per una precisa scelta politica.
Il testo di legge non è frutto di un compromesso fra destra e sinistra, ma l’esito di una mediazione al ribasso fra il parlamento (con schieramento bi o tripartisan) e forze di sicurezza ostili e ancorate a una tradizione corporativa che affonda le proprie radici in epoche storiche pre repubblicane.
Manconi nei giorni scorsi ha parlato di “sudditanza psicologica” della politica verso le forze dell’ordine. Potremmo aggiungere che siamo di fronte a due debolezze. Quella di forze di polizia a disagio con gli standard di trasparenza e responsabilità tipici delle democrazie avanzate; e quella di forze politiche incapaci di esercitare fino in fondo il proprio ruolo di indirizzo e più propense – anche qui per tradizione antica – a blandire, adulare, proteggere ad ogni costo e in ogni caso i corpi di polizia e i loro vertici.
Queste debolezze non fanno una forza e anzi minano la credibilità degli uni e degli altri, abbassando la qualità della nostra democrazia. La Corte di Strasburgo, entro poco tempo, esprimerà giudizi probabilmente ancora più forti esaminando i ricorsi presentati per i fatti di Bolzaneto (maltrattamenti e torture durati tre giorni alla presenza di centinaia di agenti) e l’Italia risponderà con la sua legge beffa sulla tortura e con i suoi incerti progetti sui codici di riconoscimento per le divise degli agenti (si parla di codici di reparto, anziché individuali, una beffa nella beffa).
Ovviamente non sono in agenda altre riforme necessarie, come la revisione dei criteri di accesso alla professione, oggi riservata in via quasi esclusiva a chi abbia prestato servizio militare obbligatorio, o il ripensamento della formazione degli agenti, con una forte spinta verso la prevenzione anziché la repressione. Un quadro desolante.
Per chi si è impegnato in questi anni sul fronte dei diritti civili e per un’uscita a testa alta del nostro paese dall’abisso genovese del 2001, il bilancio è molto amaro. Abbiamo vinto la nostra lotta sulla ricostruzione della verità e sulla sua interpretazione, ma stiamo perdendo la battaglia più importante, quella che dovrebbe condurre, per dirla con il nostro scaltro presidente del Consiglio, a “cambiare verso”.
L’Europa dovrà ancora occuparsi di noi.
Questo articolo è stato pubblicato su Micromega online il 9 aprile 2015 riprendendolo dal blog di Lorenzo Guadagnucci

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