Il video è il trailer del documentario Non mi avete convinto di Filippo Vendemmiati disponibile sul sito di Distribuzioni dal basso
di Giorgio Dell’Arti
Nasce a Lenola (Latina) il 30 marzo 1915. Politico. Dal 1948 al 1994 deputato (Pci/Pds). Primo comunista a presiedere la Camera (1976-1979). «È rimasto storico il voto con cui Ingrao radiò gli ingraiani dal suo partito»(Nello Ajello).Tra il 1934 e il 1935 frequentò il Centro sperimentale di cinematografia come allievo regista. Laurea in Giurisprudenza e in Lettere e filosofia. Nel 1939 partecipò all’attività antifascista nell’Università di Roma, nel 1940 entrò nel Partito comunista, dopo l’8 settembre 1943 fu attivo nella Resistenza a Milano e a Roma. Dal 1947 al 1957 direttore dell’Unità, nel 1948 entrò nel Comitato centrale del Pci, nel 1956 nella segreteria, al Congresso del 1966 rivendicò il «diritto al dissenso», nel 1968 fu eletto presidente del gruppo parlamentare comunista della Camera, il 5 luglio 1976 fu eletto presidente della Camera, nell’89 si oppose alla svolta di Achille Ochetto che trasformò il Pci in Pds ma fu contrario a ogni ipotesi di scissione. Nel 1991 aderì al Pds come leader dell’area dei Comunisti democratici, nel 1993 abbandonò il partito.
«Mio nonno Francesco era nato a un passo da Agrigento, a Grotte, paese di zolfatari, contadini e proprietari terrieri, come era appunto la famiglia Ingrao. Francesco è una figura del Risorgimento: cospiratore antiborbonico dagli anni del liceo, e mazziniano: combatte con Garibaldi a Varese, poi tesse congiure repubblicane contro i moderati, e nel 1868 sta per essere ammanettato dalla polizia regia sabauda. Riesce a fuggire nascondendosi nelle campagne di Caltanissetta; poi risale la penisola fino a Napoli, quindi a Lenola, dove vive uno zio, cospiratore anche lui ai tempi della carboneria. Lenola è a un passo dal confine dello Stato Pontificio; quando c’è odore di sbirri, Francesco scavalca la frontiera e trova salvezza a Roma, ancora papalina. Ma a Lenola s’innamora della cugina Marianna, giovanissima. Quell’amore viene scoperto dal padre di Marianna; mio nonno fa atto di pentimento e torna in Sicilia. Ma dopo lunghe traversie quel matrimonio si farà. Francesco resterà a Lenola e diventerà sindaco».
«Ho avuto relazioni familiari molto intense. Non solo con mio padre, anche di più con mia madre, che era una donna tenera e dolce, legata a quelle terre. La famiglia era anche il vincolo alla casa e al mio paese: mi piacevano molto quei piccoli aggregati, erano lì le mie passioni, i sentimenti, gli affetti, gli scatti di evasione legati al paesaggio, agli amici, alle ragazze» [a Paolo Di Stefano, Cds 21/3/2011].
«Partecipai ai Littoriali della Cultura del 1934. A quelli di critica teatrale, con la proposta di un Teatro sperimentale: avevo in mente le esperienze di un regista di genio, Anton Giulio Bragaglia. E alla gara di poesia, con una breve lirica che si intitolava Coro per la nascita di una città esaltava Littoria e la bonifica delle paludi pontine fatta dal regime. Era una poesia francamente brutta, ma a quei Littoriali di Firenze arrivò terza, dopo i testi di Sinisgalli e Bertolucci. Anni più tardi, quando ormai lavoravo all’Unità dopo la partecipazione alle dure lotte della Resistenza, quella poesia su Littoria mi fu rinfacciata da un giornale di destra, Il Tempo mi pare. Arrossii di vergogna. Chiesi a Togliatti se dovevo lasciare quel giornale di Gramsci. Togliatti mi rispose con una sghignazzata: “Perché vuoi fare questo favore a dei balordi reazionari?”».
«Ho studiato Giurisprudenza per un ordine prestabilito della famiglia, poi Lettere: amavo soprattutto la letteratura, e in modo caldo, appassionato, la poesia. Le due pagine di invenzione artistica che apprezzo di più sono di Leopardi: L’infinito e Le ricordanze. La cima sono quei versi di grande splendore e scuotimento» [a Paolo Di Stefano, cit.].
«Il 17 luglio 1936 è un giorno chiave: esplode la rivolta franchista. “Antonio Amendola cominciò a farmi ragionare sulla lotta antifascista, non tornai più al Centro sperimentale e il mio amore per il cinema restò in ombra. Da allora, la lotta di classe diventò il punto centrale nella mia vita, il primo dovere, la prima speranza: la lotta per cacciare i padroni. Un dovere che condividemmo, oltre che con Amendola, con Bruno Sanguinetti, Paolo Bufalini, Aldo natoli, Antonello Trombadori e altri. Quel 17 luglio fu il punto di rottura. Dissi no, non ci sto”» (Paolo Di Stefano cit. ). All’alba della Repubblica, «nel profondo molti di noi avevano nella mente la sotterranea ma tenace convinzione che in quell’Italia democratica a un certo punto sarebbe scattata la prova dell’urto armato. Ricordo – se penso a quei primi tempi del dopoguerra – come mi portavo dentro l’immagine, la convinzione, direi, di un momento insurrezionale risolutivo. Forse agiva anche il ricordo mitico dell’assalto al Palazzo d’Inverno tramandatoci dall’epica della rivoluzione bolscevica. E negli angoli remoti della mia mente restava sempre ben fissa l’ipotesi del momento in cui ci saremmo trovati – l’uno di fronte all’altro – noi rivoluzionari e le truppe del grande capitale. Da una parte seguivo con ardore la costruzione dello Stato democratico: il Parlamento mi appassionava. Dall’altra coltivavo l’attesa della crisi rivoluzionaria, del conflitto politico che si fa urto di massa nelle piazze» [ad Alberto Burgio, Essere comunisti 2009].
«Lo stalinismo è stato un errore così grande che è bene ribadirne il rigetto. Io stesso ho riconosciuto lo sbaglio dopo qualche tempo, ma le cose non erano così semplici. La figura di Stalin non ha un solo volto. Io ho partecipato all’emozione per la sua morte, perché Stalin era il vincitore del nazismo, l’uomo che aveva preso Berlino. Non ho saputo rompere in tempo, e ora l’età mi restituisce il peso del più grande errore della mia vita. Ma fu un errore diffuso, Togliatti ad esempio era un grande ammiratore di Stalin, e Krusciov ci rimproverò per questo con violenza. Di Castro ho un’opinione niente affatto buona, e non da ora. Quando andò al potere passai un mese a Cuba, e non mi piacque. Mancava, come dire… Libertà è una parola grossa. Diciamo che mancava l’articolazione, la differenza. Una voce che non fosse la sua. I comizi li faceva solo lui: ore e ore da solo sul palco. Per riprenderci andavamo a fare il bagno, nelle conche sulla spiaggia dell’Avana. Chiedevo: di chi sono questi stabilimenti? Dello Stato, mi rispondevano. Mi appariva così assurdo. Il comunismo non poteva essere lo Stato che fa il bagnino. Tantomeno lo Stato che condanna a morte. Mao lo incontrai per la prima volta nel novembre del 1957, dopo il XX congresso e prima della rottura tra sovietici e cinesi: fu l’ultima grande riunione dell’Internazionale comunista. Mao venne a trovare Togliatti e me nella dacia dove alloggiavamo. Era un uomo di grande suggestione, però disse cose terribili: il comunismo vincerà, al prezzo di centinaia di milioni di morti. Mi parve eccessivo. Per fortuna non è andata così».
Il 17 febbraio 1954, in un editoriale dell’Unità a proposito del caso Montesi (Wilma Montesi, la ragazza trovata cadavere sulla spiaggia di Torvaianica nel 1953, per la cui morte furono indagati ambienti democristiani), coniò il sintagma «questione morale», che tanta fortuna avrebbe avuto nella politica italiana dei decenni a venire. Scrisse infatti: «Collegate all’affare Montesi, in una successione drammatica, sono venute le rivelazioni, o almeno le denunce, circa un torbido settore di affari equivoci, di traffici di droga di corruzione, che sconfinava nel mondo politico ufficiale. E il caso giudiziario si è mutato in una seria “questione morale”».
«Sulla storia aleggia qualcosa che rasenta il mistero: ed è il seguito di cui ha goduto il suo protagonista all’interno del Pci, soprattutto presso la base giovanile emarginata e protestataria. Antonio Galdo, militante nei tardi anni Settanta d’un collettivo universitario, ricorda che “quando si discuteva del Partito comunista, sempre criticamente, un solo nome riusciva a metterci tutti d’accordo. Era quello di Ingrao”. L’enigma si rafforza di fronte a un’ennesima ammissione autocritica di Ingrao (“Come capo di corrente valgo un fico secco”) e assume le tinte del martirologio se si pensa alle rappresaglie che nel Pci si scatenarono contro gli ingraiani dopo la sconfitta subìta dal loro capo all’XI congresso del Pci (1966), quando le sue tesi “di sinistra” furono sopravanzate – per ricordarlo in sintesi – da quelle, opposte, di Giorgio Amendola. È un ex ingraiano perfino quell’ Achille Ochetto che, cambiando fra l’89 e il ’90 il nome e la collocazione del partito di cui è segretario, induce Ingrao ad abbandonare la casa politica che lo ha accolto per più di mezzo secolo» (Nello Ajello)
«Sul perché del fascino esercitato da Pietro Ingrao, in stagioni diverse, su tanta parte della sinistra italiana, si sono interrogati in parecchi, anche molto lontani dalla sua parte. Gli estimatori hanno posto l’accento soprattutto sulla passione politica, sulla tensione intellettuale, sulla fibra morale: tutte qualità incontestabili dell’uomo. Gli avversari, sulla fumosità dell’analisi, della proposta e, conseguentemente, del linguaggio; sull’astrattezza, sulla vocazione alla sconfitta: tutti vizi ben radicati nella sinistra. Ingrao, magari, non ne sarà tanto lieto. Ma forse la spiegazione più azzeccata è quella che diede Indro Montanelli, quando il vecchio Pietro si oppose alla “svolta” di Achille Ochetto e diede battaglia in nome di un comunismo che per lui restava al tempo stesso un “grumo di vissuto” di tutta una comunità e un insopprimibile “orizzonte”. Scriveva Montanelli: “Ha un volto rincagnito e parla con un plumbeo accento ciociaro. Eppure non si può guardare senza provare per lui un profondo rispetto. Ciò che dice può essere sbagliato, ma il suo è un dramma autentico, senza nulla di recitato, anzi contenuto nei toni più sommessi: il dramma di un uomo che, messo alla scelta tra una carriera e una bandiera, sta con la bandiera, pur ridotta a un brandello”. Il comunismo cui Ingrao non intende proprio rinunciare è, né più né meno, lo “stare dalla parte degli sfruttati”» (Paolo Franchi).
«I sogni degli ex ragazzi del Pci-Pds-Ds si sono realizzati solo in parte e spesso si ritrovano in lotta l’uno contro l’altro. Perché? “La prego, non mi faccia questa domanda! Posso solo dirle che, prima di loro, c’è una sconfitta più grande che li scavalca ed è la sconfitta del comunismo. Loro sono stati ragazzi in quel mondo che guardava a Marx e a Gramsci, nei cui testi c’erano risposte segnate da errori anche pesanti. Quel vincolo ha inciso su di noi in modo straordinario”» (Monica Guerzoni).
Nume tutelare della Sinistra – l’Arcobaleno, nel dicembre 2007 ne disertò gli stati generali: «La Federazione non mi persuade, avrei capito una fusione. Ossia la nascita di un nuovo Partito e pure consistente. Ma così non ne capisco il senso. Quando per esempio Mussi ha rotto coi Ds, secondo me avrebbe dovuto entrare in Rifondazione. Cioè in un Partito riconoscibile e riconosciuto dalla gente che incontro per strada. Per non parlare di Diliberto. Chi rappresenta Diliberto?» (a Riccardo Berenghi). In occasione delle Politiche 2013 ha annunciato il proprio voto per Sel di Nichi Vendola, «per portare al governo del Paese la sfida del cambiamento».
Ha raccontato la sua vita in Volevo la luna (Einaudi 2006) e la sua passione per il cinema in Mi sono molto divertito (Centro Sperimentale di Cinematografia 2006). Nel 2007 ha pubblicato La pratica del dubbio (dialogo con Claudio Carnieri, Manni). Del marzo 2011 è il libro-intervista (coordinato da Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti) Indignarsi non basta (Aliberti), risposta ingraiana al pamphlet di grande successo Indignez-vous! scritto dal francese Stéphane Hessel: «Se ci fissiamo sull’indignazione, osserva Ingrao, non è che autorizziamo derive moralistiche e giacobine; semplicemente, contribuiamo all’abdicazione della politica. E questo per la sinistra della sua generazione sarebbe stato impensabile» (Jacopo Iacoboni) [Sta 30/3/2011].
Nel 2011 ha aperto un sito Internet, pietroingrao.it. Così vi si rivolge agli avventori: «Cara lettrice, caro lettore, Internet non è un mezzo consueto per chi è nato nel 1915; ma è il mezzo di comunicazione del presente, e ho pensato di usarlo. Sono un figlio dell’ultimo secolo dello scorso millennio: quel Novecento che ha prodotto gli orrori della bomba atomica e dello sterminio di massa, ma anche le speranze e le lotte di liberazione di milioni di esseri umani. (…) Il mondo è cambiato, ma il tempo delle rivolte non è sopito: rinasce ogni giorno sotto nuove forme. Decidi tu quanto lasciarti interrogare dalle rivolte e dalle passioni del mio tempo, quanto vorrai accantonare, quanto portare con te nel futuro».
Nel 2012 il regista Filippo Vendemmiati ha presentato alla Mostra del cinema di Venezia (sezione “Giornate degli autori”) Non mi avete convinto, documentario-intervista sulla vita di Ingrao. Vedovo di Laura Lombardo Radice (1913-2003), cinque figli.
Questo articolo è stato pubblicato su Inchiesta online il 24 marzo 2015 ripredendo il testo uscito su Cinquantamila giorni del Corriere della sera