di Walter Veltroni
Aldo Tortorella, tu sei stato nella segreteria del Pci con Berlinguer. Vorrei, in questo colloquio, che partissimo da lontano. Il fascismo che hai conosciuto da ragazzo è stato veramente l’autobiografia di una nazione?
«Il fascismo aveva un grande consenso, persino quando è scoppiata la guerra. Ero al liceo, vennero gli studenti universitari fascisti per farci uscire a fare la sfilata. Vedevo la gente che guardava questo corteo di giovani, molti dei quali erano destinati alla morte perché già in età di essere richiamati. Io ero un ragazzo, ma altri erano già degli uomini. Ricordo soltanto una persona che reagì sdegnata a quel corteo pro guerra, gli altri guardavano con simpatia. Le cose sono cambiate con l’inizio dei bombardamenti, con le sconfitte dell’esercito e con la follia della spedizione in Russia. C’era sempre una ritirata ed era sempre strategica. Allora gli italiani cominciarono a ritirare il consenso al regime. E cominciò a crescere la simpatia verso il movimento clandestino nelle città e anche in montagna. Ma il fascismo ebbe consenso popolare, non dimentichiamolo mai».
Nella Resistenza come entri?
«Nella Resistenza, a Milano, sono entrato perché facevo parte, con Raffaellino De Grada e Quinto Bonazzola, del Fronte della Gioventù, quello guidato da Eugenio Curiel e Gillo Pontecorvo. Io dovevo reclutare quelli della Cattolica, ero diventato il responsabile degli studenti universitari del Fronte. Quelli dell’Università Cattolica però erano inesperti. Noi eravamo già stati addestrati dai vecchi, per noi Gillo lo era. Lui mi aveva già insegnato tutto, le prudenze, il non incontrarsi mai in più di due. Quelli della Cattolica invece avevano dato appuntamento a quattordici persone, forse pensavano di fare una riunione. Ma c’era uno di loro che era stato preso dalla polizia e aveva cantato. Così quel giorno fecero una retata e ci arrestarono tutti».
È stato giusto piazzale Loreto o Mussolini si doveva processare come hanno fatto a Norimberga?
«La decisione fu presa non da Luigi Longo, ma dal Comitato di Liberazione Nazionale. Però mi pare di aver sentito da Longo che il sentimento prevalente in quel momento era che, se consegnavano Mussolini agli alleati, lui se la sarebbe cavata. Forse perché c’era stato il rapporto con Churchill o con altri. Si temeva pesassero insomma tutte le compromissioni delle democrazie col fascismo. La cosa terribile è che c’è stato l’incanaglimento della gente, l’esplosione dell’odio. Ma parliamo di giorni terribili, al culmine di una guerra civile in cui i fascisti avevano compiuto orrori indicibili. A piazzale Loreto erano stati esposti i corpi dei ragazzi antifascisti trucidati. Io li avevo visti, con le mosche che giravano attorno ai loro corpi e con i fascisti in armi che vigilavano perché nessuno li potesse portare a seppellire, neanche i parenti. E c’era gente che piangeva, uno spettacolo terribile. Io ero a Milano in quel momento. L’odio è una bestia orrenda».
L’oro di Dongo che fine ha fatto?
«Non lo so. C’era un settore del Partito che si occupava delle cose un po’ più riservate. Figurarsi in quegli anni. E poi io allora contavo poco. Ma, per essere chiari, anche quando ero nel gruppo dirigente certe decisioni avvenivano nel rapporto tra il segretario e poche persone. Sai il rapporto che mi legava a Berlinguer. Ma lui, quando decise di tagliare il cordone finanziario con i sovietici, la disposizione di togliere i soldi l’ha decisa insieme a Chiaromonte, allora coordinatore della segreteria, e l’ordine è stato dato a Cervetti, responsabile dell’organizzazione. Fu una scelta importante e coraggiosa, Berlinguer era appena diventato segretario. E l’anno in cui avvenne coincide, non a caso, con il lancio della strategia del compromesso storico. Berlinguer tagliava quei legami per garantire l’autonomia necessaria al partito per essere coerente forza nazionale e di governo».
Gente come te che aveva rischiato la vita per la libertà, come ha vissuto lo stalinismo?
«In un primo momento siamo stati tutti stalinisti. In fondo a Yalta fu con Stalin che i governi occidentali divisero l’Europa. Noi eravamo stalinisti perché Stalin era Stalingrado, era la bandiera rossa sul Reichstag. Erano i morti per salvarci dal nazismo. Ma il primo choc, nessuno lo ricorda, fu nel 1953. Fu lo sciopero degli operai a Berlino contro il potere, non c’era ancora il muro allora. I mitici operai di Berlino che avevano voluto l’insurrezione contro il parere della Luxemburg, in seguito alla quale poi la Luxemburg fu uccisa. Quegli operai scioperavano, contro il potere comunista. Uno choc. Che però non bastò a farci capire».
Il ’56 è stata la grande occasione perduta della Sinistra italiana?
«Io penso di sì. Io avevo deciso di andarmene. Tieni conto che nel ’56 io mi sono laureato con una tesi sulla idea di libertà in Spinoza. Dopo la laurea succede questo casino in Ungheria. Ce l’ho di là. Ho provato a rileggerla, ma ormai è troppo difficile per un vegliardo. Forse era di qualche valore, tanto che Banfi voleva pubblicarla: Spinoza non solo come eroico assertore della libertà politica ma come teorico della libertà più alta, quella interiore. La tesi che sostenevo era che la libertà politica non è tutto, esiste una dimensione maggiore: la libertà interiore. Per questa mia convinzione profonda me ne stavo per andare. Mi hanno trattenuto Antonio Banfi e Pietro Ingrao. C’era la Guerra fredda… Erano tempi duri. Fui portato a far prevalere la priorità della scelta di stare nel partito rispetto alle mie convinzioni».
Nella storia dell’Ungheria non c’è in fondo anche il segno della doppiezza di Togliatti? Perché Togliatti era l’uomo della fondazione della sinistra nella democrazia italiana, però era anche l’uomo che poi a Mosca non ha mai saputo dire di no.
«Togliatti a me pareva geniale, ma non simpatico. Io ero per Longo, avevo un rapporto quasi filiale con lui. Longo e Togliatti si parlavano quasi con il lei. Non usavano il lei naturalmente, ma erano due persone distanti. Tra i due c’era legame politico, ma non amicizia. La doppiezza di Togliatti? L’espressione secondo me non è giusta. Lui non era doppio, era convintissimo che, con la Rivoluzione d’ottobre, la storia si fosse messa in moto, che fosse cominciato il socialismo nel mondo. Una convinzione che sarà superata solo con Berlinguer».
Nel ’68, quando ci fu l’invasione della Cecoslovacchia, il Pci si espresse con la formula «il grave dissenso». Che però era poco.
«Era quello che sembrava moltissimo, a compagni come Longo. Che per la prima volta aveva coscienza del fallimento di quel modello. Ma devo finire su Togliatti. Togliatti era convintissimo che fosse incominciato il socialismo. Su questo non c’era doppiezza, lo diceva. C’è un dialogo tra Bobbio e Togliatti, è del 1954. Al liberalsocialismo del filosofo, Togliatti risponde con supposto realismo: “Non ci possiamo inventare noi cosa deve essere il socialismo, adesso c’è già un socialismo che marcia”. Ma quello non era il socialismo che marciava, era il socialismo che si stava suicidando».
Che guerra hanno fatto i sovietici a Berlinguer?
«Guerra totale, non solo sotterranea. Noi eravamo il nemico degli americani, ma anche dei sovietici. Perché la tesi di Kissinger su Berlinguer era la loro: “Questo è il più pericoloso di tutti, perché è democratico, rompe l’unità morale dell’Occidente”. Perché si scopre che ci può essere un comunista democratico. Il problema era che quella linea aveva bisogno di un impianto teorico robusto. Perché se la spinta propulsiva non funziona, non funziona più un mondo e non funzionano più le tue vecchie idee. Devi sostituirle. Io mi posso dire tranquillamente comunista perché per me il comunismo è un punto di vista sulla realtà, non è un sistema e non è neanche una dottrina, è un punto di vista sulla realtà. È dire: “Questa divisione tra ricchi e poveri, borghesi e proletari non funziona, dobbiamo pensare ad un mondo altro”. Ogni forza democratica che voglia correggere il sistema cambiandolo gradatamente è sgradita. Anneghiamo nelle merci e miliardi di persone stanno alla fame. Questo per me è il comunismo, non l’orrore dei partiti unici e delle libertà negate».
Tu ricordi episodi di guerra dichiarata dei sovietici al Pci?
«Loro gli hanno addirittura censurato il discorso a Mosca. Quando ha detto “la democrazia valore universale”, gli hanno tolto la frase, più di così… E poi il terrorismo. Nessuno mi toglie dalla mente che i sovietici abbiano lavorato per far saltare il compromesso storico, per impedire a Berlinguer di inverare la prospettiva della partecipazione al governo. Se lui fosse riuscito sarebbe stato un colpo alla linea dei sovietici. Guarda quello che ha detto il consulente Usa Pieczenik, mandato dagli americani per collaborare con Cossiga. Lui è stato protagonista di una manovra volta a far sì che le Br uccidessero Moro. Ha detto persino: “Ho temuto fino alla fine che lo liberassero”. Moro e Berlinguer avevano sconvolto i canoni della Guerra fredda. E tutti e due erano nel mirino. Ricordo la reazione violentissima dei sovietici al momento dell’eurocomunismo. Con Togliatti si parlava di via nazionale che voleva dire che la via era quella che volevano i sovietici, ma aveva delle varianti. Berlinguer, parlando di democrazia come valore universale, rompe questo schema e lavora per costruire una rete internazionale alternativa. Per i sovietici era troppo. Come troppo, per gli americani, era stata la “terza fase” di Moro. Via Fani si spiega così. E così si spiega l’attentato a Berlinguer in Bulgaria. E forse così si spiega anche l’addestramento delle Br in Cecoslovacchia…».
Se Moro non fosse stato rapito, il Pci avrebbe votato la fiducia al governo Andreotti? Era un monocolore senza alcuna novità…
«La notte prima Moro aveva fatto arrivare, attraverso Luciano Barca, un messaggio a Berlinguer. Gli diceva di fidarsi di lui, che la composizione del governo era il prezzo da pagare per evitare una rottura nella Dc, che lui si faceva garante del programma. Il Pci avrebbe pagato un prezzo alto in ogni caso. Se avesse accettato, se avesse rotto. Quella legislatura sarebbe finita lì. Moro pensava a coinvolgere il Pci nel governo per poi fare l’alternanza. Berlinguer confidava nel prevalere del cattolicesimo democratico di Moro e Zaccagnini per una collaborazione non breve. Tutti e due erano consapevoli di aver portato l’esperimento di autonomia italiana al punto di massima tensione. Non per caso la proposta di compromesso storico nasce dal golpe in Cile».
Andreotti era un segno di assoluta continuità col passato…
«Dopo le elezioni del ’76 Berlinguer dice a Moro di non indicare Andreotti. Lui gli risponde: “Andreotti è necessario per ammorbidire le resistenze degli americani”. Io non so se avesse ragione, perché il vero interlocutore degli americani era Cossiga, Andreotti anzi aveva delle sue autonomie come dimostrava la sua politica in Medio Oriente. L’argomento che usa Moro per dire che ci voleva Andreotti è che lui non poteva sfasciare tutto, che l’intesa si poteva fare se lui convinceva tutta la Democrazia cristiana. Era un incastro, per il quale fu pagato un prezzo assai alto…».
Il Pci sapeva di Gladio?
«Lo abbiamo saputo quando lo hanno saputo tutti».
Cioè dopo le dichiarazioni di Andreotti?
«Dopo che è stato scoperto da quelli lì, sì…».
Il Pci finisce con la morte di Berlinguer?
«Secondo me per troppo tempo è rimasta in vita una linea politica che era quella dell’ispirazione originaria dell’unità nazionale. Nella parte finale della sua vita Berlinguer sceglie la via dell’alternativa democratica e poi si mette in sintonia con culture e problemi nuovi. L’ecologia, prima di tutto. E poi il femminismo della differenza. La questione morale che per lui non era affatto la caccia al ladro ma la rifondazione dei partiti. Aveva capito che stavano diventando pure macchine di potere, clientele capaci solo di fare gli affari. Non è questo il compito di un partito… Terza cosa fondamentale il pacifismo. Lui, che era stato anti-movimentista, avverte quanto questo tema sia sentito, specie dai ragazzi. In quegli anni Berlinguer cerca di delineare una nuova identità del Pci. Dopo di lui quella ispirazione si è dispersa. Forse sì, il Pci finisce con Berlinguer».
Una domanda alla quale io non ho mai saputo rispondere. Se Berlinguer fosse vissuto e fosse arrivato all’89, cosa avrebbe fatto?
«Anche per me è difficile. Non mi pare giusto interpretare. La sua idea era di cambiare e probabilmente avrebbe cambiato prima, non dopo».
Questo articolo è stato pubblicato dal Corriere della Sera il 10 luglio 2019