La 'ndrangheta, Brescello, Emilia Romagna, Italia

9 Febbraio 2015 /

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La 'ndrangheta a Brescello
La 'ndrangheta a Brescello
di Luciano Berselli
Diffondiamo per la sua attualità il testo pubblicato da Luciano Berselli su “Inchiesta” di ottobre-dicembre 2014. Il comune di Brescello (Reggio Emilia) è quello immortalato da Don Camillo e Peppone e il fatto che vi sia presente la ‘ndrangheta sottolinea come questo problema vada affrontato seriamente al livello nazionale e locale.
A Brescello, in provincia di Reggio Emilia, qualche settimana prima dell’allarme e della paura per la piena autunnale del Po, prima della Processione, guidata dal parroco insieme con altre autorità, sugli argini del fiume per invocare la protezione divina, un altro fatto aveva già turbato la quiete del paese. Un gruppo di giovani, che ha dato vita alla web-tv Cortocitcuito, sta realizzando un inchiesta sulla presenza e sulle attività ‘ndrangheta nel territorio reggiano.
Intervista per questo il sindaco di Brescello, che è a capo di un’amministrazione che si regge sulla maggioranza consiliare del Pd, chiedendogli quali rapporti abbia con un certo abitante del suo comune, condannato per mafia e sottoposto a sorveglianza speciale. L’attenzione dei giovani di Cortocircuito derivava anche da un recente sequestro di beni a carico di quel certo cittadino, da diverso tempo sospettato di essere un punto di riferimento importante per le attività della ‘ndrangheta nelle zone del Nord-Italia. La risposta del sindaco è che naturalmente conosce questo cittadino, che sempre si è dimostrato “persona educata e composta, gentilissima e tranquilla, sempre vissuta a basso livello”.

È una dichiarazione che provoca reazioni divergenti. Allo sconcerto e allo scandalo che in provincia esprimono gli ambienti politici e la stampa (con toni spesso di maniera) si contrappone la solidarietà del consiglio comunale di Brescello verso il sindaco, e nella piazza del paese una manifestazione popolare e spontanea in suo sostegno – che forse così spontanea e popolare non era. Una parola d’ordine dal sapore beffardo ricopriva il camioncino messo al centro della piazza: “Con il nostro Sindaco, contro tutte le mafie”.
Commenta questi episodi Gian Carlo Caselli, che successivamente partecipa ad una agitata assemblea che si tiene a Reggio Emilia. “Brescello in verità non si differenzia troppo da molte altre zone del Centro e Nord-Italia. Spesso, anche se vi sono presenze mafiose di tutta evidenza, fortissima e diffusa è la tendenza a negarle. Miopia, superficialità ed ignoranza si intrecciano con una sorta di distacco aristocratico del Centro-Nord verso problemi considerati a torto roba esclusiva di un Sud arretrato e povero.
Senza accorgersi che così si spalancano praterie sconfinate alla penetrazione dei mafiosi, che per parte loro fanno di tutto (c’è l’hanno nel dna) per passare inosservati, per non essere avvertiti come un pericolo, dimostrando notevoli capacità di “ibridarsi” mescolandosi e mimetizzandosi con le persone per bene, con il paradosso che questa mimetizzazione (la vita “a basso livello”) finisce per essere un comodo alibi per chi non vuole vedere o prova a giustificare la sua disattenzione”. Giustamente Caselli invita a riflettere su fenomeni che ormai investono tutto il Paese. La vicenda di Brescello non va allora isolata, ma occorre guardarla dentro questo scenario.
Partendo da queste considerazioni, mi interessa sviluppare la riflessione su un problema che ritengo molto rilevante. C’è dunque un atteggiamento di “miopia, superficialità e ignoranza” verso la presenza della criminalità organizzata dentro l’economia del territorio; si preferisce pensare – ed illudersi, inutilmente e con gravi conseguenze – che si tratti casomai di infiltrazioni che provengono dal Sud dell’Italia. Non si vuole vedere o si prova a giustificare.
Che cosa tuttavia non si vuole vedere? Nell’estate del 2002 a Poviglio, un paese poco distante da Brescello, fu assassinato un giovane tunisino, Iasmail Jauadi, socio lavoratore di una cooperativa di facchinaggio e macellazione, la Dimac di Castelnuovo Rangone, in provincia di Modena. Le indagini che si svolgono individuano rapidamente gli autori dell’omicidio. Si tratta di un gruppo di quattro soci e colleghi di lavoro di Jauadi: lo hanno rapito ed ucciso perchè aveva filmato le attività illegali di falsificazione dei marchi di origine dei prosciutti negli appalti di lavorazione dove operava la cooperativa Dimac. Usando questa documentazione, aveva cominciato a ricattare i capi della cooperativa, ed anche le aziende che appaltavano i lavori; chiedeva soldi in cambio del silenzio.
Il delitto di Poviglio portava alla luce con violenza la realtà di un settore produttivo, di grande importanza e di grande tradizione in Emilia, profondamente destrutturato, con l’esternalizzazione di interi rami d’impresa fino alla stessa catena di macellazione delle carni. Per qualche tempo ciò che era avvenuto fu oggetto di attenzione. Mentre l’allora Sindaco di Poviglio esprimeva il suo cordoglio e la sua condanna, pur sottolineando che il suo paese era estraneo alla logica del delitto, pensato ed organizzato dentro una cooperativa di Modena, si parlò di cooperative “spurie”, piene di lavoratori meridionali e/o stranieri, dove più facilmente si poteva insinuare la presenza delle mafie. Un grumo oscuro, insomma, scagliato all’interno della realtà emiliana. Non a torto, invece, alcuni sindacalisti facevano rilevare che “queste cooperative lavorano per aziende locali”.
Per di più spesso le confederazioni di cooperative maggiori forniscono il supporto logistico che consente a queste coop di nascere e crescere”. Per non lasciare equivoci o fraintendimenti, l’analisi riguardava l’intera filiera della macellazione e della lavorazione delle carni nel settore agro-industriale, sia nella forma dell’impresa cooperativa che in quella dell’impresa privata. La destrutturazione dell’impresa, la frammentazione del lavoro e la precarietà, la negazione di diritti e della possibilità di esercitare la contrattazione collettiva solidale costituiscono processi generali lungo il percorso degli ultimi decenni. Non sono circoscrivibili, segnano le caratteristiche che si affermano nella struttura economica e produttiva, fino al trionfo della logica della finanza e alla trasformazione della politica.
Rispetto ai fenomeni che si manifestano, alla crescita dell’economia illegale e sporca, con la presenza della criminalità organizzata e mafiosa, questi processi sono la base necessaria. È una affermazione che non intende prestarsi a forzature deterministiche: si tratta di una base certamente non sufficiente, ma altrettanto certamente necessaria. Questo punto di vista richiede categorie e strumenti di analisi che aiutino a ricostruire le linee di sviluppo e di trasformazione dei settori produttivi, approfondendo la conoscenza delle caratteristiche specifiche che possono presentarsi a livello territoriale.
Il settore delle costruzioni e dell’edilizia a Reggio Emilia rappresenta un ambito di osservazione di particolare interesse. Per proporre alcuni spunti di analisi e per favorire la riflessione, mi riferisco alla rilettura della tesi di laurea di un giovane studioso, che indagava i processi migratori nel territorio di Reggio Emilia, in rapporto alle trasformazioni del lavoro e dell’economia. Prendendo in esame i cambiamenti che avvengono nell’edilizia verso la fine degli anni ’60, scrive: “con il passaggio dalle lavorazioni artigianali ad una struttura produttiva caratterizzata da un maggiore investimento di capitali e dall’impiego di mezzi tecnologici avanzati (gru, scavatrici, betoniere…) si delineava un paesaggio diverso, tipico dei paesi industrializzati.
Le professioni che erano più ricercate, in questa seconda fase, appartenevano al sottomercato delle professioni moderne, ovvero quei lavoratori appartenenti ad un più vasto mercato del lavoro che comprendeva molti settori industriali…. Gli artigiani tradizionali, con la diffusione della meccanizzazione nei cantieri e con i processi di divisione più accentuata del lavoro erano meno richiesti. La figura dell’artigiano in grado di partecipare a tutte le fasi lavorative tendeva dunque a scomparire. Accadde così che parte degli operai tradizionali si indirizzarono verso due prospettive occupazionali: l’integrazione aziendale con funzioni di supervisione (capo-cantiere); la trasformazione in piccolo imprenditore specializzato. Si sviluppò in parallelo a questi processi una struttura basata su piccole e piccolissime imprese di sub-appalto specializzate in determinate fasi lavorative o semplicemente fornitrici di manodopera generica. Era quest’ultima infatti a dover sopportare il peso più grosso delle trasformazioni…
Nel novembre 1970, in occasione dell’arresto di un imprenditore edile reggiano e di un caporale meridionale, per una serie di violazioni alle leggi sul lavoro, la rivista Reggio 15 tornava a trattare della situazione della consistenze massa di immigrati vittime di uno sfruttamento bestiale nei cantieri edili delle nostra provincia. Ormai la stragrande maggioranza degli uomini validi di Cutro Calabro (un Comune di 14.000 abitanti) vive nell’immigrazione. Man mano che le nuove leve di 13, 14 anni arrivano a Reggio per far fortuna come i fratelli maggiori, vengono captati dai vari caporali, ognuno dei quali tiene loro pressappoco questo discorso: senza di me non puoi trovare lavoro, oppure ti toccherebbe di fare il manovale mal pagato e mal trattato, invece con me rimani in famiglia e guadagni di più. Quanto riceva di paga non si sa e comunque in ogni squadra le paghe sono stabilite dal caporale…
Il settore edile in questo panorama non era altro che l’estremizzazione di un processo più generalizzato. È chiaro d’altronde che il formarsi di un mercato del lavoro selvaggio non era dovuto tanto alla presenza di offerta di lavoro immigrato, quanto piuttosto ad una struttura predisposta allo sfruttamento di quest’ultimo. Infatti l’esistenza di questo tipo di manodopera ed il suo intruppamento a livelli mafiosi non basterebbe di per se a rendere così diffuso il fenomeno se al di sotto – o al di sopra – di tutto non ci fossero gli interessi delle imprese edili”.
Poco di seguito viene riportato il caso di grossi imprenditori edili che, in quegli anni, con pochi operai assunti riescono in pochi mesi a completare la costruzioni di grossi condomini. Ci riescono affidando tutta una serie di lavori a squadre di cottimisti, che vengono mascherati con il trucco degli attrezzi: basta possedere qualche attrezzo elementare per non farsi considerare come cottimisti. Mi è sembrato necessario citare ampi brani della tesi di laurea che ho riletto perché ricostruisce con precisione le basi sulle quali si viene strutturando – o meglio, destrutturando – un intero settore economico e produttivo, con caratteristiche specifiche eppure corrispondenti ad una realtà più generale, che non è propria soltanto di un determinato territorio. Queste basi segnano profondamente la traiettoria del periodo successivo, intrecciandoci con trasformazioni e fenomeni nuovi.
Dagli anni 80 cresce enormemente il peso delle “grandi opere”, dei lavori legati al sistema degli appalti pubblici, della regola delle gare al massimo ribasso (non solo nel settore dell’edilizia, ma anche, ad esempio, in quello dei servizi, dell’educazione, dell’assistenza e della cura delle persone), dell’intreccio tra affari e politica, dell’illegalità e della corruzione che appaiono sovrastare ogni ambito. All’inizio dello stesso decennio nel settore dell’edilizia di Reggio Emilia, su una struttura e un organizzazione del lavoro che hanno assunto quelle caratteristiche, comincia a ramificarsi una presenza più diretta della ‘ndrangheta, che coglie a diversi livelli le opportunità di fare e di riciclare soldi che provengono dalle attività illegali. Occasioni che si presentano sia nella proliferazione dell’edilizia residenziale – che vede già prima della crisi iniziata nel 2007/2008 una grande quantità di costruzioni nuove invendute – sia nella dimensione che collega meccanismo degli appalti e interessi finanziari.
Ho certamente trascurato molti aspetti importanti, questioni che non ho la possibilità di approfondire in questa occasione, mentre il lavoro di analisi va proseguito per giungere ad una ricostruzione più precisa della realtà che abbiamo davanti ed intorno a noi. Mi interessa invece tornare alla domanda: che cosa non si deve, oppure non si vuole vedere? Non mi riferisco tanto al piano delle azioni contro le mafie che si svolge nell’ambito investigativo e giudiziario.
Penso naturalmente che in ogni forma possibile queste azioni vadano incoraggiate e sostenute, così come ritengo importante che siano nate e si diffondano associazioni, gruppi di cittadini e di giovani (la stessa web-tv Cortocircuito è un esempio) che si impegnano per la legalità e contro le mafie. Con grande interesse vedo lo sviluppo dell’attenzione e della proposta su questi temi da parte del sindacato, in particolare penso al recente convegno nazionale della Fiom che si è svolto a Milano.
Per chiarire, prima di tutto a me stesso, il significato della domanda voglio parlare di un piccolo fatto, un esperienza personale. Il 25 ottobre, nel giorno della manifestazione nazionale della Cgil a Piazza San Giovanni, ho incontrato un amico che non vedevo da molto tempo. Conversando con lui – mi chiedeva come vanno le cose dalle mie parti – gli ho riferito anche dell’episodio di Brescello. Mi ha guardato con perplessità e poi ha brevemente commentato in questo modo: “ecco, vedi, c’è proprio una questione morale”. Anche io sono rimasto perplesso, ma non ho proseguito e sono passato ad altri argomenti. Non ho smesso tuttavia di pensare alla reazione del mio amico, che allora mi è sembrata sorprendente. Adesso mi figuro di riprendere la conversazione e di rivolgergli il seguente monologo. “Certo che esiste una questione morale. Credo di capire che cosa intendi con questa espressione. Tu metti in discussione quello che oggi è diventata la politica, la sua capacità di amministrare città e territori e di governare il Paese. Vuoi dire che si dimostra incapace di affrontare la crisi, di contrastare l’illegalità e la corruzione, e che anzi ne è coinvolta. Come potrei negare che in questo ci sia un elemento profondo di verità e non sei il primo a dirlo, come sai bene. Di fronte ai fatti che ti ho raccontato, la tua attenzione si è subito soffermata su questo. Continuando a parlare, avresti tirato fuori la struttura della realtà in cui viviamo, dentro la quale si esercita quella modalità della politica che tu condanni con il riferimento alla questione morale?
Sai – sono convinto che tu lo sappia – che il nocciolo di questa realtà è nel tentativo sempre più stringente di negare la soggettività di chi lavora, di impedire che si esprima un conflitto sociale democratico che si proponga di costruire un’alternativa a partire dal cambiamento della condizione del lavoro. Senza passaggi di semplificazione, ma ricostruendo la complessità, vedi anche tu le conseguenze che si sprigionano e che portano dappertutto i loro effetti.Voglio farti un esempio. Nelle settimane seguenti a quel 25 ottobre in cui ci siamo visti, ci sono stati i disastri delle alluvioni, la devastazione delle città e dei territori, i morti dentro l’acqua o sotto il fango delle frane.
A Carrara dove è crollato l’argine di polistirolo sul torrente Carrione, giovani e cittadini occupano da diversi giorni la sala di rappresentanza del Consiglio Comunale. Chiedono le dimissioni del Sindaco, che si difende dicendo che la sua colpa è di essersi fidato dell’Amministrazione Provinciale che aveva la competenza di costruire quell’opera. Gli occupanti vogliono la verità sull’appalto dell’argine e un controllo popolare su quello che deve essere rifatto. Come non sentirsi dalla loro parte? Ma come non chiederci – tu ed io – e come non chiedere a quei giovani e a quei cittadini, se il controllo popolare potrà mai concretizzarsi ed essere efficace senza che quelli che lavoreranno di nuovo sull’argine del Carrione – in appalto o sub appalto – abbiano il diritto di parlare, di contrattare liberamente, di interrogarsi sul senso del loro lavoro, su come lo fanno… perché nelle quantità di polistirolo e nelle quantità di cemento armato che vengono impiegate, nel fatto che ci siano o non ci siano delle fondamenta per l’argine, esisterà un senso anche per chi lavora?”. La domanda rimane aperta.
È tanto più urgente, se pensiamo agli ultimi sviluppi delle inchieste sulla ‘ndrangheta a Milano, che hanno scoperchiato una realtà estremamente ramificata, dove molte e molte imprese non sono soltanto “infiltrate”, ma espressione diretta di chi controlla e organizza l’economia illegale e sporca.
Ringrazio Matteo Rinaldini per le citazioni tratte dalla sua tesi di laurea
Questo articolo è stato pubblicato su Inchiesta online il 5 febbraio 2015

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